Il padrone di casa si fece largo tra gli ospiti che, rispettosi, si scostavano facendogli ala. Un cenno d’intesa con i musicisti e le note della musica si levarono alte a dominare il chiacchiericcio: il salone per un istante sembrò immobilizzarsi, mentre Maria si voltava e Sigismondo, già alle sue spalle, s’inchinava, gli occhi che cercavano una verifica finale di cui il suo istinto maschile non avrebbe avuto bisogno. Le offrì il braccio mentre qualcuno si affiancava: poi, alla luce delle candele, prese il via la danza. Maria era un po’ impacciata ma il Veneziano, a suo perfetto agio, la conduceva con le movenze aggraziate e quasi leziose che quel ballo richiedeva.
La madre di Maria, impacciata ma orgogliosa, mangiava fritòle con il mignolo alzato, sproloquiando con alcuni ospiti che si complimentavano per il costume, ma soprattutto per la bellezza, della figlia mentre, le guance flosce vistosamente arrossate e le mani rovinate dal lavoro in agitazione, si godeva quel momento di gloria che riscattava tutta la sua miserabile vita, ancora incredula per l’invito ricevuto e per l’evidente interesse del Veneziano per la figlia. Di nascosto dal marito, aveva dato in pegno la catenina del battesimo, la fede nuziale e gli orecchini regalati a Maria per la Cresima, ottenendone in cambio una piccola somma che le aveva permesso di far confezionare l’abito della figlia dalla stessa cucitrice che aveva preparato i due abiti più belli della festa. Non aveva badato a spese nella speranza di accalappiare quello che le era sembrato un ottimo partito per la figlia.
“ Siete bellissima questa sera e, se permettete, qui nessuno è in grado di valutare il vostro travestimento meglio di me” e, lasciandole scivolare addosso uno sguardo ammirato, Sigismondo concluse dicendo ” Se vi avessi incontrata a Venezia, vi avrei seguita proponendomi come vostro cavaliere e non avrei avuto occhi che per voi”.
" Perché nessuno meglio di voi..?"
" Perché a Venezia il Carnevaleè un modo di essere, di vivere, è uno sprazzo di follia che il Senato della Repubblica tutela, è rimescolamento di carte nel gioco della vita che concede di essere sotto la maschera ciò che non si è."
Maria lo ascoltava attenta, affascinata.
" Ho visto costumi degni di una regina trasformare per una notte una popolana in una nobile e viceversa" concluse Sigismondo.
Maria arrossì e non rispose, mentre l'uomo, che nella danza incrociava, le chiedeva:
“ Perché la luna? E’ stata una vostra idea?”
“ Perché amo la notte …
“ E il mistero?” lui le chiese, interrompendola.
“ Potreste essere una veneziana “ aggiunse mentre lei gli si avvicinava sfiorandolo per un istante.
“ Perché non una triestina?”
“ La vostra città è una pietra preziosa di valore, ma grezza..”
“ E Venezia com’è?” lei chiese, curiosa
“ Come voi: unica e inimitabile. “
Domande e risposte s'incrociavano tra loro come dame e cavalieri nella quadriglia...
In quel momento la musica cessò e il Moro si fece largo tra la gente seguito da due giocolieri e un acrobata, i campanelli del berretto che tintinnavano, mentre saliva sul palco e dava inizio allo spettacolo. (continua…)
domenica 21 giugno 2009
I Dellapicca
Nella casa di Sigismondo, il salone riluceva alla luce delle candele mentre il Moro, addobbato da giocoliere con un costume rosso fuoco e un cappello a sonagli, una torcia ben salda nella mano sinistra, accoglieva le carrozze che, una dopo l'altra, si fermavano davanti all'ingresso.
La via, nella sera che incupiva, si animava di colori, sete sgargianti, piume, broccati, velluti e voci, frusci e ticchettio di tacchi che salivano i gradini che portavano all'ingresso. I cocchieri schioccavano ordini sonori ai cavalli, tagliava l'aria qualche colpo di frusta, mentre si aprivano gli sportelli delle carrozze da cui sbocciavano, ampie e morbide come fiori sfatti, gonne femminili.
Il padrone di casa, nella sua stanza, si rimirava nello specchio. Si era fatto confezionare un abito da paggio, con le brache corte a sbuffo di velluto viola e azzurro, le calze, in lana color verde muschio, che sottolineavano le gambe dritte e muscolose e una giacchetta con le maniche che esplodevano a palloncino , intonata alle calze e alle brache. In testa, una parrucca a caschetto, la frangia che sfiorava gli occhi scuri, dandogli un'aria da ragazzo.
Raddrizzate le spalle, Sigismondo gonfiò il petto e sorrise, compiaciuto, all'immagine di sé che lo specchio gli rimandava, prima di scendere a controllare che tutto fosse pronto. Per un istante ebbe quasi la sensazione di essere tornato a Venezia, nel palazzo sul Canal Grande, ma subito si rese conto che la scenografia che lo circondava era nettamente inferiore, quasi una replica in tono minore, se non una caricatura, di ciò a cui era abituato. Nel salone, che si andava riempiendo di gente e di colori, risuonava un'altra parlata e molte maschere erano soltanto un'accozzaglia di indumenti diversi dai quali sarebbe stato impossibile risalire a personaggi definiti. I pochi nobili, che vivevano in città, avevano declinato l'invito e la folla, che andava animando il salone, ruotava intorno o era parte del mondo che lui e il Moro frequentavano...Ma era, comunque, un suo piccolo trionfo personale quello che in quella sera si consumava e, inoltre, il suo pensiero andava alla figlia del locandiere, a quella giovane donna di nome Maria, che era deciso a avere, e che aveva invano cercato di dimenticare tra le braccia di alcune fra le donne, che gli erano appena sfilate di fronte, ammiccando maliziose e misurandosi in inchini un po' maldestri.
Ma dov'era Maria? Pensò per ben due volte di averla identificata, ma mentre la delusione gli cancellava il sorriso dal volto, nei suoi occhi lo sguardo tornava a posarsi con insistenza sulla porta nel cui vano si inquadravano ancora le ultime maschere in arrivo.
E se non fosse venuta? Nell'ingresso la pendola batteva cupa e sorda le ore e il cicaleccio aumentava. Intorno a una delle donne appena entrate si accalcavano uomini, resi arditi dal mascheramento. La risata della donna lo disturbava: aveva un timbro alto e sciocco. Notò che indossava un vestito da pavone. Animale bello ma stupido - pensò, mentre l'interesse per la festa scemava in lui e la delusione gli si disegnava sulla bocca che la maschera non copriva.
Lanciò un ultimo sguardo all'ingresso, prima di chiedere a un servitore di sprangare il portone, quando nel vano della porta apparve una figura femminile che rimase un attimo ferma, quasi incerta tra l'entrare e il voltare le spalle e uscire.
Era una maschera che alludeva alla luna: vestita d'argento dalla testa ai piedi, capelli di un biondo quasi bianco, intrecciati a stelle che brillavano a ogni movimento del capo, avanzava con la grazia di una damina veneziana da carillon. Avvolta in un mantello di seta che le scendeva dalle spalle, camminava, lasciando intravedere un abito di pizzo color ghiaccio
e scarpine di seta chiara, ricamate a stelle d'argento.
La maschera incorniciava soltanto gli occhi, svelando nel sorriso enigmatico il suo inconfondibile fascino.
Sigismondo, come un viaggiatore sperso in una notte buia, la seguì, mentre intorno il cicaleccio si spegneva e Maria avanzava splendente e intrigante come una luna d'agosto.
La via, nella sera che incupiva, si animava di colori, sete sgargianti, piume, broccati, velluti e voci, frusci e ticchettio di tacchi che salivano i gradini che portavano all'ingresso. I cocchieri schioccavano ordini sonori ai cavalli, tagliava l'aria qualche colpo di frusta, mentre si aprivano gli sportelli delle carrozze da cui sbocciavano, ampie e morbide come fiori sfatti, gonne femminili.
Il padrone di casa, nella sua stanza, si rimirava nello specchio. Si era fatto confezionare un abito da paggio, con le brache corte a sbuffo di velluto viola e azzurro, le calze, in lana color verde muschio, che sottolineavano le gambe dritte e muscolose e una giacchetta con le maniche che esplodevano a palloncino , intonata alle calze e alle brache. In testa, una parrucca a caschetto, la frangia che sfiorava gli occhi scuri, dandogli un'aria da ragazzo.
Raddrizzate le spalle, Sigismondo gonfiò il petto e sorrise, compiaciuto, all'immagine di sé che lo specchio gli rimandava, prima di scendere a controllare che tutto fosse pronto. Per un istante ebbe quasi la sensazione di essere tornato a Venezia, nel palazzo sul Canal Grande, ma subito si rese conto che la scenografia che lo circondava era nettamente inferiore, quasi una replica in tono minore, se non una caricatura, di ciò a cui era abituato. Nel salone, che si andava riempiendo di gente e di colori, risuonava un'altra parlata e molte maschere erano soltanto un'accozzaglia di indumenti diversi dai quali sarebbe stato impossibile risalire a personaggi definiti. I pochi nobili, che vivevano in città, avevano declinato l'invito e la folla, che andava animando il salone, ruotava intorno o era parte del mondo che lui e il Moro frequentavano...Ma era, comunque, un suo piccolo trionfo personale quello che in quella sera si consumava e, inoltre, il suo pensiero andava alla figlia del locandiere, a quella giovane donna di nome Maria, che era deciso a avere, e che aveva invano cercato di dimenticare tra le braccia di alcune fra le donne, che gli erano appena sfilate di fronte, ammiccando maliziose e misurandosi in inchini un po' maldestri.
Ma dov'era Maria? Pensò per ben due volte di averla identificata, ma mentre la delusione gli cancellava il sorriso dal volto, nei suoi occhi lo sguardo tornava a posarsi con insistenza sulla porta nel cui vano si inquadravano ancora le ultime maschere in arrivo.
E se non fosse venuta? Nell'ingresso la pendola batteva cupa e sorda le ore e il cicaleccio aumentava. Intorno a una delle donne appena entrate si accalcavano uomini, resi arditi dal mascheramento. La risata della donna lo disturbava: aveva un timbro alto e sciocco. Notò che indossava un vestito da pavone. Animale bello ma stupido - pensò, mentre l'interesse per la festa scemava in lui e la delusione gli si disegnava sulla bocca che la maschera non copriva.
Lanciò un ultimo sguardo all'ingresso, prima di chiedere a un servitore di sprangare il portone, quando nel vano della porta apparve una figura femminile che rimase un attimo ferma, quasi incerta tra l'entrare e il voltare le spalle e uscire.
Era una maschera che alludeva alla luna: vestita d'argento dalla testa ai piedi, capelli di un biondo quasi bianco, intrecciati a stelle che brillavano a ogni movimento del capo, avanzava con la grazia di una damina veneziana da carillon. Avvolta in un mantello di seta che le scendeva dalle spalle, camminava, lasciando intravedere un abito di pizzo color ghiaccio
e scarpine di seta chiara, ricamate a stelle d'argento.
La maschera incorniciava soltanto gli occhi, svelando nel sorriso enigmatico il suo inconfondibile fascino.
Sigismondo, come un viaggiatore sperso in una notte buia, la seguì, mentre intorno il cicaleccio si spegneva e Maria avanzava splendente e intrigante come una luna d'agosto.
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