mercoledì 3 giugno 2009

I Dellapicca (L'accordo)

Il Moro al suo rientro trovò Sigismondo che percorreva la stanza in lungo e in largo. Furioso.
“ Chi si crede quella ragazzetta? Con quella su aria da santarellina, in questo porcile dove vive, vorrebbe darmi a intendere…” Il Moro lo guardò, in silenzio, e il veneziano avvertì una pesantezza insolita in quell’assenza di parole, come se un giudizio negativo pesasse nell’aria, non comunicato verbalmente, ma espresso da quelle labbra serrate e dalla rigidità del collo taurino, mentre gli occhi dell’uomo scivolavano sprezzanti sul padrone.
“ Non ha capito con chi ha a che fare, un conte non l’ha mai visto, nemmeno dipinto, quella! Ha avuto le più belle donne di Venezia, il conte Sigismondo dei Dellapicca!”
Il Moro zitto.
“ Cos’hai da guardarmi, standotene lì impalato come un’acciuga in un barile di sale! Vai a dire a quella smorfiosa che il conte…”
La voce del Moro lo interruppe: “ Io non sono più in debito con voi: mi avete salvato dalla forca e io da quei briganti che, nel ghetto ebraico, vi avevano aggredito e vi avrebbero ucciso. Siamo pari, da questo momento in poi io vi servirò, ma dovrò essere trattato con rispetto.” E ripetendo quelle due parole, "Con rispetto" quasi spiegasse qualcosa di complicato a un interlocutore non troppo sveglio, il Moro si avvicinò alla finestra.
Sigismondo, dopo un istante di sbalordimento, alzò su di lui gli occhi ridotti a fessure, mentre dalle labbra, schiumanti saliva e rabbia, usciva qualche parola smozzicata, e il braccio si levava per schiaffeggiare il servitore.
Il gigantesco nero lo immobilizzò, prima che riuscisse a fare il minimo gesto, mentre sulla stanza calava un minaccioso silenzio e i due uomini, faccia a faccia, si fissavano negli occhi mentre l’orgoglio dell’uno si misurava con l’arroganza dell’altro.
“ E’ dura quando tutto cambia intorno a noi e non ci rendiamo conto che non possiamo più essere ciò che crediamo ancora di essere…” e, lasciandolo andare, il Moro concluse dicendo: ”Questo posso capirlo.”
Poi si sedette sul letto e, rivolto al veneziano, che ancora tremava di rabbia, gli disse: “ E ora parliamo d’affari. Ci sono navi che commerciano con le città della costa istriana e hanno bisogno di comandanti che sappiano affrontare tempeste, tentativi di ribellione a bordo, eventuali assalti corsari…Alcune di queste navi sono state costruite con capitali concessi dagli ebrei del ghetto e una, La Capinera, è rientrata senza il carico, gettato a mare durante una tempesta che ha danneggiato anche le vele. E’ un bel veliero e il proprietario non può onorare il prestito. Potremmo accordarci: voi dareste in garanzia i gioielli, io potrei assoldare alcuni uomini per sistemare le vele e poi reclutare un equipaggio, armare la nave e …”
Il veneziano lo ascoltava attento, pensieroso: “ E se capitasse pure a noi di non riuscire a consegnare il carico? Perderei i gioielli, non avrei di che pagare la ciurma e i creditori si rifarebbero sul veliero…”
Il Moro scoppiò in una risata: “ E chi vi dice che una volta preso il comando del veliero, questo non scompaia? Sui mari navigano decine, che dico, centinaia di velieri e galeoni che dovrebbero essere in fondo al mare “
Il veneziano sogghignò e concluse dicendo:”E quando altre navi li incrociano tagliano la corda temendo siano vascelli o velieri fantasma, e si sa che la gente di mare è per sua natura superstiziosa.”
“ Affare fatto” disse il Moro e il veneziano, assumendo un’aria sprezzante, disse:” Ma chi comanderò sarò io!”
“ Sulla terraferma, va bene, ma sulla nave sarò io a comandare e, ora, per festeggiare l’accordo, andiamo a bere. Sono stati giorni duri…”
(continua...)
Vi rimando a questa traduzione di un articolo apparso sul Times
Ritengo superfluo ogni commento

I Dellapicca (Presente e Passato s'intrecciano)

Il mattino seguente Sigismondo si svegliò con una faccia da pesce palla. Dolori e lividi dappertutto.
Il Moro era già uscito. Mentre stava per alzarsi sentì quel battere di nocche discreto che rompeva il silenzio della stanza. “Chi è? Che volete?” “ Vi ho portato del latte caldo, il vostro servitore…” ma Sigismondo borbottando un “ Entrate”, stizzito, aveva già interrotto a metà la risposta.
Il sole, già alto nel cielo, entrava dalla stretta finestra alla sua sinistra rivelando lo squallore dell’arredo e quando la giovane donna - investita da quel raggio prepotente e rivelatore che le incendiava la treccia, avvolta a incorniciare il volto in un’aureola da santa - si avvicinò al suo letto, Sigismondo rimase immobile. Lei si chinò, allungando la tazza verso di lui che continuava a fissarla incapace di muoversi,mentre lei restava lì in paziente attesa, già conscia e quasi rassegnata, nonostante fosse poco più di una bambina, al potere di seduzione che la sua incredibile bellezza le conferiva.
“ Ma era davvero così bella, nonna? Come fai a esserne così sicura?”
" Perché il marito, il conte Sigismondo le fece fare un ritratto…” le risposi.
“ Ma… dov’è questo ritratto. Io non l’ho mai visto?”
Io sorrisi pensando alla stranezza della vita, al modo in cui, così come succede alle acque carsiche che appaiono e scompaiono alla vista scorrendo tra grotte e percorsi sotterranei, anche il filo rosso di questa storia familiare che sembrava spezzato,si fosse riannodato, e non soltanto grazie alla tecnologia.
A Venezia, fin dal primo momento in cui, in gita scolastica, mi ero infilata nelle calli, incantata dalla bellezza di quella straordinaria città, mi ero sentita a casa. Nulla mi sfuggiva del luogo: sembravo conoscere le piazze, avere già visto i palazzi e il tramonto che incendiava le cupole e stordiva colombi e  gabbiani, ma era soprattutto il dialetto, quel nostro lessico spesso parlato in casa, a essermi familiare. Era il veneziano di Goldoni che io avevo usato, appena arrivata in quella città e quasi senza rendermene conto, come se l’avessi conosciuto da sempre. E quella piazzetta di cui conoscevo ogni angolo, anche l’approdo dove una gondola sontuosa e nera dondolava in attesa…
Ero ritornata a casa sconvolta, in preda a una violenta emozione che mia madre aveva attribuito alla stanchezza del viaggio, senza dare troppo peso alle mie chiacchiere. Ma il giorno dopo parlando con lei, con più calma, le avevo raccontato di avere provata la sensazione di esserci già stata, di averla dentro quella città, nei cromosomi, nel cervello e nell’anima…
Lei aveva sorriso dandomi spiegazioni razionali. Quella città, sueprba anche nella sua decadenza, aveva sempre affascinato i visitatori, quindi, ero in buona compagnia. Ma di quel dialogo tra me e mia madre mi aveva colpita ben altro: quella frase buttata lì con indifferenza. “ La nostra famiglia viene da Venezia. La nonna mi raccontò che sua madre aveva saputo da un vecchio che il primo Dellapicca del paese era stato un nobile veneziano era arrivato in quel paesino sperduto dell’Istria accompagnato da una donna di straordinaria bellezza e da un nero ”.
(continua...)

I Dellapicca

Sigismondo si voltò, atterrito, e i due uomini che lo seguivano gli furono addosso. Cercò di aprirsi un varco per scappare ma, mentre uno dei due gli bloccava le braccia, l’altro gli allungò un paio di pugni, colpendolo prima allo stomaco a poi, pesantemente, al viso. Sentì il sapore aspro del sangue che gli entrava in bocca. Sputò, le mani contratte sul petto in un estremo tentativo di difesa di tutto ciò che ormai gli restava, ma lo strappo della camicia e quelle mani avide che brancolavano sul suo petto, gli fecero capire che era stato derubato. La rabbia e la disperazione gli diedero una forza e un coraggio che non avrebbe mai sospettato di possedere. Si lanciò urlando su uno dei due, e incominciò a colpirlo istericamente, mettendo in quei pugni tutta la rabbia, il dolore, la disperazione che in qualche modo fino a quel momento era riuscito a dominare. Vedeva solo il colore rosso del sangue, lo masticava cogliendone il gusto aspro mentre urlava: “ Vi ammazzo, cani bastardi, vi ammazzo, fosse l’ultima cosa …” ma, improvvisamente, l’uomo che stava davanti a lui sembrò sollevarsi da terra, lo sguardo incredulo che lo fissava, le gambe che si agitavano come se un puparo ne avesse tirato i fili. Sentì il tonfo del corpo che finiva contro il muro, seguito pochi secondi dopo dal compagno che gli si afflosciava addosso in un intreccio miserevole e scomposto di arti che sembravano disarticolati. A terra il sacchetto da cui erano fuoriusciti alcuni gioielli. Il Moro inginocchiato li stava raccogliendo.
Sigismondo crollò sulle ginocchia, passandosi la mano sul viso: “ Fossi arrivato un momento più tardi…. avessi avuto un coltello li avrei scannati. Come hai fatto a trovarmi?”
“ L’ho seguita, da lontano…
” Aspettavi che mi ammazzassero?”
“ No” rispose calmo il servitore “ ma, dato che aveva deciso di andarci da solo… “
“ Allontaniamoci prima che arrivi qualcuno” esclamò il veneziano, avvolgendosi nel mantello.
“ Non pensavo fosse in grado…” disse il Moro, seguendolo.
“ Nemmeno io” mormorò Sigismondo e, così dicendo, raddrizzò le spalle, nonostante il dolore gli attanagliasse lo stomaco.
Dopo poco più di mezz’ora si trovarono di fronte all’insegna di latta della locanda.
Entrarono. La figlia dell’oste era dietro al bancone e quando vide la faccia tumefatta di Sigismondo si avvicinò sollecita.
“ Cosa vi è successo, signore? Siete stato aggredito?"
Il Moro le disse: “ Non si preoccupi, ma ci porti in camera dell’acqua e un po’ d’aceto."
(continua...)