Il mattino seguente Sigismondo si svegliò con una faccia da pesce palla. Dolori e lividi dappertutto.
Il Moro era già uscito. Mentre stava per alzarsi sentì quel battere di nocche discreto che rompeva il silenzio della stanza. “Chi è? Che volete?” “ Vi ho portato del latte caldo, il vostro servitore…” ma Sigismondo borbottando un “ Entrate”, stizzito, aveva già interrotto a metà la risposta.
Il sole, già alto nel cielo, entrava dalla stretta finestra alla sua sinistra rivelando lo squallore dell’arredo e quando la giovane donna - investita da quel raggio prepotente e rivelatore che le incendiava la treccia, avvolta a incorniciare il volto in un’aureola da santa - si avvicinò al suo letto, Sigismondo rimase immobile. Lei si chinò, allungando la tazza verso di lui che continuava a fissarla incapace di muoversi,mentre lei restava lì in paziente attesa, già conscia e quasi rassegnata, nonostante fosse poco più di una bambina, al potere di seduzione che la sua incredibile bellezza le conferiva.
“ Ma era davvero così bella, nonna? Come fai a esserne così sicura?”
" Perché il marito, il conte Sigismondo le fece fare un ritratto…” le risposi.
“ Ma… dov’è questo ritratto. Io non l’ho mai visto?”
Io sorrisi pensando alla stranezza della vita, al modo in cui, così come succede alle acque carsiche che appaiono e scompaiono alla vista scorrendo tra grotte e percorsi sotterranei, anche il filo rosso di questa storia familiare che sembrava spezzato,si fosse riannodato, e non soltanto grazie alla tecnologia.
A Venezia, fin dal primo momento in cui, in gita scolastica, mi ero infilata nelle calli, incantata dalla bellezza di quella straordinaria città, mi ero sentita a casa. Nulla mi sfuggiva del luogo: sembravo conoscere le piazze, avere già visto i palazzi e il tramonto che incendiava le cupole e stordiva colombi e gabbiani, ma era soprattutto il dialetto, quel nostro lessico spesso parlato in casa, a essermi familiare. Era il veneziano di Goldoni che io avevo usato, appena arrivata in quella città e quasi senza rendermene conto, come se l’avessi conosciuto da sempre. E quella piazzetta di cui conoscevo ogni angolo, anche l’approdo dove una gondola sontuosa e nera dondolava in attesa…
Ero ritornata a casa sconvolta, in preda a una violenta emozione che mia madre aveva attribuito alla stanchezza del viaggio, senza dare troppo peso alle mie chiacchiere. Ma il giorno dopo parlando con lei, con più calma, le avevo raccontato di avere provata la sensazione di esserci già stata, di averla dentro quella città, nei cromosomi, nel cervello e nell’anima…
Lei aveva sorriso dandomi spiegazioni razionali. Quella città, sueprba anche nella sua decadenza, aveva sempre affascinato i visitatori, quindi, ero in buona compagnia. Ma di quel dialogo tra me e mia madre mi aveva colpita ben altro: quella frase buttata lì con indifferenza. “ La nostra famiglia viene da Venezia. La nonna mi raccontò che sua madre aveva saputo da un vecchio che il primo Dellapicca del paese era stato un nobile veneziano era arrivato in quel paesino sperduto dell’Istria accompagnato da una donna di straordinaria bellezza e da un nero ”.
(continua...)
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