Con quelle scarpe con i tacchi alti, la collana di perle e gli abiti di sartoria sua madre era, dalla testa ai piedi, una donna impeccabile Perfetta. Un filo di rossetto sulla bocca grande, piena e bellissima, e fiori appuntati sul bavero della giacca. Sempre freschi.
Da bambina, lei avrebbe dato l’anima per vedere il sorriso illuminarle il volto, l’allegria riderle negli occhi, ma non c’era stata frase o attenzione o diligente impegno che fosse riuscito a colmare il vuoto di quegli occhi di miele, tristi come laghi d’inverno, cupi come brume, freddi come il vento di tramontana. Quello sguardo aveva decretato non solo la sua incapacità di farla uscire dalla disperazione ma anche la responsabilità di averla imprigionata, come un cane alla catena, a suo padre. Era colpa sua: ancora quasi inesistente, appena un abbozzo di creatura, aveva bloccato la sua fuga. Era sua la responsabilità per quel forzato ritorno nella casa del marito e non c’erano moine che avrebbero potuto modificare la dura realtà dei fatti. Tra sua madre e la libertà lei, ancora lei, sempre di troppo, sempre presente a ricordarle l’impossibilità di ogni tentativo di fuga.
Scrutandola: anche in quel suo sbocciare da bambina a donna, con quello sguardo critico che si faceva opaco mentre gli occhi allungati dalle ciglia fitte diventavano fessure, feritoie dalle quali spiare, assediata dalla rabbia, dal rancore e dalla disperazione.
Cos’è l’amore: accudimento? Pasto pronto, trecce strette, colletto inamidato? Era stata una bambina pallida, il disamore l’aveva resa grigia dilagando sulle sue smorte guance che la madre si ostinava a pizzicare per farla sembrare più colorita.
L’aveva sempre intuito e ora lo sapeva con certezza: senza amore non si cresce, si sopravvive appena come i gerani striminziti sui davanzali del ghetto della sua città, alla ricerca continua di un po’ di sole, un baluginio d’oro al quale le strettissime vie non concedono se non una speranza d’accesso. Così lei aveva cercato l’amore. Ma come si cerca qualcosa che non si conosce?
venerdì 8 gennaio 2010
Scuola mon amour
Una vita, in fondo, si compone di momenti, scaturiti da scelte, che determinano la qualità di quella vita perché la quantità è data soltanto dallo scorrere dei giorni che collegano, in fila come soldatini tutti eguali, un momento all'altro. Un collage d'immagini fissate nella memoria a perenne ricordo di emozioni profonde in cui, per evitare di esserne travolti, l'attenzione si concentra su particolari apparentemente irrilevanti. Per tutta la vita basteranno un suono, un profumo, un sapore a riportarci di colpo a quel momento.
Oggi ho aperto, sulla prima pagina, uno dei libri che ho trovato sotto l'albero di Natale. Un'insegnante la protagonista, e... improvvisamente, socchiudendo gli occhi, sono tornata bambina, ma non solo. Era ottobre. Quella tonalità di luce calda, ma raccolta, che pervade l'aria di un languore d'autunno, filtrava attraverso le tapparelle e sembrava danzare sulla parete. Alla mia sinistra il grembiule, il fiocco e la cartella. Tutto nuovo, lustro per quel mio primo giorno di scuola. E, annidata dentro, la paura di un cambiamento che mi avrebbe strappato all'asilo delle suore, ai compagni che conoscevo, ai giochi sotto il sole nel cortile che lasciva intravedere l'ossatura di due case bombardate.
E quell'odore che annusavo era odore di libri e quaderni intonsi, lo stesso che ritrovavo nello sfarfallio delle pagine fresche di stampa del libro che tenevo tra le mani, ma era anche odore di scuola... La scuola che sarebbe stata il fondale privilegiato - con il suo rituale di campanelle che squillavano a sancirne la cadenza dei tempi e la polvere di gesso che ti entrava nelle narici - di tanta parte della mia vita.
L'ho lasciata così come si lascia un amore, conservando sulla pelle l'estraneità di quell'ultimo sguardo che ci scivola addosso, e che ci riconsegna all'anonimato della folla. Con dolore, ma anche con rabbia. Profonda, e mai più tirata fuori.
Ho scritto in un post su Vibrisse, per la prima volta dopo anni, qualcosa sulla scuola e, oggi, ho sentito di quella rabbia il sapore aspro e la necessità di tirarla fuori per evitare che si depositi come la cenere di un'eruzione vulcanica a sommergere per sempre quella parte, non certo di poco peso, di me e della mia vita che ho dedicato al mio lavoro. Un lavoro difficile, poco riconosciuto, ritenuto (dando prova d'ignoranza) poco impegnativo, sia per la limitatezza delle ore fuori casa, sia perché fatto di chiacchiere...
Quando un'attività lavorativa viene abbandonata in massa dai maschi è segno che è diventata scarsamente remunerativa, di poco prestigio. E' successo anche nell'insegnamento, ma la scuola è un settore delicatissimo: non è soltanto istruzione, è anche educazione che deve afffiancarsi, non potendo però mai sostituirsi, a quella impartita dalla famiglia. I ragazzi, anche i più annoiati, disinteressati e svogliati, guardano noi adulti con una costante e incredibile attenzione. Ci guardano e ci ascoltano, pronti a cogliere immediatamente la discordanza tra le nostra affermazioni e le nostre azioni. Un atteggiamento ingiusto o scorretto li ferisce, anche se paradossalmente lo cercano a parziale giustificazione delle loro scorrettezze. Commetterne, per un insegnante, è molto peggio che sbagliare un esercizio. E' tradirli.
E loro reagiscono come sanno, come possono, con gli strumenti che hanno a disposizione, sottraendosi alla fatica dello studio (perchè l'apprendimento è fatica, è costanza, è ripetitività) con la scusa della scarsa utilità del titolo di studio.
Sanno che trovare un lavoro è ormai come vincere un premio alla lotteria, che l'impegno e le capacità non sono riconosciuti e che sarà il mercato a decidere della loro vita, un mercato finalizzato al profitto (e nella combinazione produttiva la componente lavoro dovrà essere sempre più compressa a livello sia quantitativo sia qualitativo) e inficiato da clientelismi e scandali che i mezzi d'informazione scaricano sulle loro menti che, poco abituate alla revisione critica, si pappano tutto per oro colato. Poco seguiti dalle famiglie, a contatto con un corpo docente che ha tutte le giustificazioni per essere demotivato, vanno alla deriva, come balenotteri destinati a naufragare in acque basse... Non tutti ma tanti, troppi, e nell'indifferenza generale, mentre dagli schermi televisivi Pinocchio, il cui naso anche se fasciato continua a crescere, li guida, come un pifferaio magico, verso il paese, scintillante di luci e promesse, di Bengodi.
Oggi ho aperto, sulla prima pagina, uno dei libri che ho trovato sotto l'albero di Natale. Un'insegnante la protagonista, e... improvvisamente, socchiudendo gli occhi, sono tornata bambina, ma non solo. Era ottobre. Quella tonalità di luce calda, ma raccolta, che pervade l'aria di un languore d'autunno, filtrava attraverso le tapparelle e sembrava danzare sulla parete. Alla mia sinistra il grembiule, il fiocco e la cartella. Tutto nuovo, lustro per quel mio primo giorno di scuola. E, annidata dentro, la paura di un cambiamento che mi avrebbe strappato all'asilo delle suore, ai compagni che conoscevo, ai giochi sotto il sole nel cortile che lasciva intravedere l'ossatura di due case bombardate.
E quell'odore che annusavo era odore di libri e quaderni intonsi, lo stesso che ritrovavo nello sfarfallio delle pagine fresche di stampa del libro che tenevo tra le mani, ma era anche odore di scuola... La scuola che sarebbe stata il fondale privilegiato - con il suo rituale di campanelle che squillavano a sancirne la cadenza dei tempi e la polvere di gesso che ti entrava nelle narici - di tanta parte della mia vita.
L'ho lasciata così come si lascia un amore, conservando sulla pelle l'estraneità di quell'ultimo sguardo che ci scivola addosso, e che ci riconsegna all'anonimato della folla. Con dolore, ma anche con rabbia. Profonda, e mai più tirata fuori.
Ho scritto in un post su Vibrisse, per la prima volta dopo anni, qualcosa sulla scuola e, oggi, ho sentito di quella rabbia il sapore aspro e la necessità di tirarla fuori per evitare che si depositi come la cenere di un'eruzione vulcanica a sommergere per sempre quella parte, non certo di poco peso, di me e della mia vita che ho dedicato al mio lavoro. Un lavoro difficile, poco riconosciuto, ritenuto (dando prova d'ignoranza) poco impegnativo, sia per la limitatezza delle ore fuori casa, sia perché fatto di chiacchiere...
Quando un'attività lavorativa viene abbandonata in massa dai maschi è segno che è diventata scarsamente remunerativa, di poco prestigio. E' successo anche nell'insegnamento, ma la scuola è un settore delicatissimo: non è soltanto istruzione, è anche educazione che deve afffiancarsi, non potendo però mai sostituirsi, a quella impartita dalla famiglia. I ragazzi, anche i più annoiati, disinteressati e svogliati, guardano noi adulti con una costante e incredibile attenzione. Ci guardano e ci ascoltano, pronti a cogliere immediatamente la discordanza tra le nostra affermazioni e le nostre azioni. Un atteggiamento ingiusto o scorretto li ferisce, anche se paradossalmente lo cercano a parziale giustificazione delle loro scorrettezze. Commetterne, per un insegnante, è molto peggio che sbagliare un esercizio. E' tradirli.
E loro reagiscono come sanno, come possono, con gli strumenti che hanno a disposizione, sottraendosi alla fatica dello studio (perchè l'apprendimento è fatica, è costanza, è ripetitività) con la scusa della scarsa utilità del titolo di studio.
Sanno che trovare un lavoro è ormai come vincere un premio alla lotteria, che l'impegno e le capacità non sono riconosciuti e che sarà il mercato a decidere della loro vita, un mercato finalizzato al profitto (e nella combinazione produttiva la componente lavoro dovrà essere sempre più compressa a livello sia quantitativo sia qualitativo) e inficiato da clientelismi e scandali che i mezzi d'informazione scaricano sulle loro menti che, poco abituate alla revisione critica, si pappano tutto per oro colato. Poco seguiti dalle famiglie, a contatto con un corpo docente che ha tutte le giustificazioni per essere demotivato, vanno alla deriva, come balenotteri destinati a naufragare in acque basse... Non tutti ma tanti, troppi, e nell'indifferenza generale, mentre dagli schermi televisivi Pinocchio, il cui naso anche se fasciato continua a crescere, li guida, come un pifferaio magico, verso il paese, scintillante di luci e promesse, di Bengodi.
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