Questo dell’appartenenza non è un problema di poco conto. Io, da triestina, ho visto nascere il “Melone” , una lista civica che, in aperta contestazione con i partiti «tradizionali» (soprattutto DC e PCI) proponeva un programma basato sull’autonomia della città dalla Regione Friuli-Venezia Giulia. Nel 1978, alle elezioni comunali, la lista ottenne la maggioranza dei seggi (18 con il 27,4% dei voti) consentendo a Manlio Cecovini, uno dei suoi fondatori, di assumere la carica di sindaco. Se a Trieste una lista civica poteva essere giustificata dallo scontento conseguente al Trattato di Osimo, quindi da una realtà tutta particolare, come giustificare la nascita della Lega in Lombardia? Secondo me per lo stesso motivo di fondo, al di là delle motivazioni contingenti, che aveva portato, in quegli anni, alla nascita e, soprattutto, all’affermazione dei sindacati autonomi di categoria. Perché venne a mancare la conquista di una “fraternité”, perché ognuno decise di fare per sé.
E prevalse, come principio, “Iddu per iddu”.
In linea di massima non ci si oppone: a una centrale nucleare, alla Tav, a un inceneritore. A patto che si faccia lontano da casa nostra. Fino a quando non si supererà questo provincialismo becero, sostituendolo con un’idea di rispetto delle regole e interesse comune, cioè con quel valore di fraternité che la Rivoluzione francese ci ha lasciato in eredità, fino a quando, anche se portatori di una cultura diversa, non saremo in grado di convivere con altre culture, capendo che la diversità è un valore, una ricchezza da proteggere e rispettare non da eliminare, l’Europa sarà soltanto un acronimo e non una patria.
Se ci sarà da tirare la cinghia (più che un’ipotesi è una certezza) dovremo tirarla tutti, non gli italiani sì perché sono il ventre molle dell’Europa e i tedeschi no, perche hanno maggior forza contrattuale; e i ferrovieri come i dipendenti dei supermercato, e non soltanto questi ultimi, perché i primi possono, con i sindacati di categoria, mettere in ginocchio il Paese, bloccando i trasporti, e quindi fare man bassa di tutte le risorse disponibili. E’ una scelta che a lungo andare non paga. Ghandi disse “Occhio per occhio, il mondo resta cieco”. E fino a quando penseremo che questa è un’utopia, non andremo da nessuna parte, perché non è un’utopia: è una speranza, l’unica che abbiamo e quindi l’unica che dobbiamo impegnarci a realizzare. Ciò che vediamo: la politica spettacolo, corrotta, stantia e priva di ideali potrebbe, ma non deve indurci al cinismo, barattandolo da realismo. Se gli americani avessero fatto spallucce davanti al “We can “ di Obama oggi, alla Casa Bianca, avrebbero un degno seguace di Bush. Se una volta Milano sui suoi muri scrisse “Di Pietro facci sognare” e quel sogno di moralizzazione non si realizzò, questo non significa che non possa realizzarsi. Ora. Perché no? Perché Di Pietro non è Obama? Ma i vincenti si rivelano all’arrivo. Chi era Obama ai nastri di partenza? Un avvocaticchio di colore che aveva qualcosa d’imponderabile che gli altri avevano perduto: la speranza di poter cambiare. Il mondo.
E allora io dico, di nuovo:" Di Pietro facci sognare..."
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