E così, mia cara Mielita, Sigismondo si mise in affari, instaurando con il suo socio uno strano e ambiguo rapporto. Il Moro infatti gli era indispensabile perché lui non era in grado di fare nulla se non protestare su tutto, lagnarsi costantemente di qualcosa e rimpiangere il mondo nel quale era nato e cresciuto. Allo stesso tempo, però, la vita gli aveva offerto l’opportunità di vivere un cambiamento, di misurarsi con difficoltà per lui impensabili. Era sempre arrogante, perché nel suo mondo l’arroganza si succhiava con il latte materno, ma, essendo un uomo intelligente, aveva cominciato a riflettere. Lo incuriosiva la personalità del Moro, era affascinato dalla sua forza, dal coraggio e dalle capacità di quell’uomo che gli avevano consentito di ricominciare a vivere e che, ora, gli stavano permettendo anche di arricchirsi. Anche Sigismondo però serviva al Moro. Il mondo cosmopolita triestino che ruotava intorno al porto, formato da disgraziati che venivano reclutati come equipaggio sulle navi, ma anche da un ceto che stava emergendo assumendo le caratteristiche di una nascente e ricca borghesia, si inchinava ancora davanti a quell’uomo che proveniva da un ambiente di cui si sparlava, che si disprezzava, ma che essendo proibito era comunque oggetto d’invidia. Sigismondo, per intenderci, era uomo di rappresentanza e, quando si trattavano affari di un certo livello e era necessario ben figurare, era a Sigismondo, al Conte Dellapicca, che ci si rivolgeva.
Non viveva più alla locanda e si era trasferito con il Moro in una casa dalle parti del porto: un ex magazzino, che era stata ristrutturato alla meno peggio, ricavandone un appartamento al piano superiore, un deposito e ricovero merci e un ufficio, al pianterreno.
Sigismondo, nonostante i suoi ripetuti tentativi di prendersi Maria, anche con la forza, di prepotenza, come gli era sempre sembrato naturale nei confronti di una donna che non fosse del suo ceto, non era riuscito più quasi neppure a vederla. “Aveva forse raccontato qualcosa alla madre?” pensava il veneziano, spiando oltre la tenda, che separava quelle due stanze in cui viveva la famiglia del proprietario della locanda. Maria non si vedeva quasi più e sua madre lo guardava, il viso pieno e un po’ ottuso che assumeva un’espressione ambigua con le labbra atteggiate al sorriso e gli occhi sospettosi e foschi.
Ma a Sigismondo non era mai capitato di non avere una donna che in qualche modo lo avesse attratto. O con le moine e i giochi da cicisbeo, o con le carnevalate e i costumi sontuosi, i regali e lo sfoggio di tutto il suo sapere di uomo colto e di mondo, le aveva sempre avute tutte e, ora, quella ragazzina povera, ignorante, che inaspettatamente gli aveva tenuto testa dimostrandogli di possedere oltre a quella inquietante bellezza, anche un notevole carattere, gli era entrata nel sangue.
Per la prima volta nella sua vita desiderava qualcosa senza riuscire ad averla. Non riusciva nemmeno a vederla, a parlarle. “E’ una ragazzetta qualunque” pensava “non vedendola lavoro di fantasia, mi invento una donna che non c’è, la adatto ai miei desideri” ma, quando improvvisamente, dopo molte visite a vuoto nella locanda, gli si parava davanti, restava basito a guardarla con la sensazione che diventasse ogni giorno più bella. Si cominciava a favoleggiare in città sulla bellezza della figlia del locandiere e molti l’avevano già chiesta in moglie, ma ricevendone in risposta dal padre un sistematico rifiuto.
(continua...)
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