Appena entrato nella locanda, il veneziano si guardò intorno cercando Maria con gli occhi, e, quando ne incrociò lo sguardo, si diresse verso il bancone, fissandola con insistenza. Lei sembrò rifugiarsi, acquattarsi come un animale inseguito in quello sguardo che sbiadiva, offuscandolo, lo squallore intorno a lei, mentre le chiedeva: “Avete lavato la mia roba?” e lei rispondeva annuendo, il sorriso, come una fiaccola accesa nell’oscurità della notte, che la accendeva, attirando gli sguardi sulla sua gola piena e sul volto incorniciato dai riccioli chiari, sfuggiti alla treccia, che a ogni movimento sembravano danzarle intorno al viso.
“Vi dispiace portarmela in camera?” e il suo tono era quello che usava con i domestici ma, prima di seguirla, rivolto al Moro gli disse: “ Vi ho fatto sistemare altrove. Ci sentiamo domani” , seguendo con gli occhi la giovane donna che si dirigeva verso la cucina.
Pochi minuti dopo la vide salire lungo la scala che portava al piano superiore, la cesta che posava sulla rotondità del fianco e una mano a sollevare, svelandone le caviglie sottili, la gonna per non incespicare.
Sigismondo la seguiva.
Arrivarono insieme davanti all’ingresso della sua stanza, lui si fece da parte cedendole il passo e lei, ringraziandolo con un cenno del capo, entrò e appoggiò la cesta sul letto togliendone la biancheria pulita. Quando si voltò per uscire, il suo volto s’irrigidì mentre negli occhi affiorava lo stupore. Si voltò, rigida, verso l’uomo che le si stava avvicinando e con voce decisa gli disse: “Aprite per favore”. Poi azionò la maniglia, la mano agitata da un tremito improvviso, tentando di uscire, ma lui era già alle sue spalle, le mani avide che l’afferravano alla vita, il suo fiato sul collo. Aprì la bocca per gridare ma Sigismondo, dopo averle afferrato il viso, gliela tappò con la mano. Poi la baciò. La ragazza voltò la faccia, riuscendo per un istante a divincolarsi, mentre, schifata, si passava il dorso della mano sulle bocca, a cancellarsi di dosso l’impronta di quelle labbra, ma l’uomo, in preda a una eccitazione febbrile, le fu addosso di nuovo.
“ Stai ferma, non ti faccio male…” La spinse sul letto, le sue mani che scivolavano sotto la gonna,
mentre lei si difendeva con tutte le sue forze, cercando nuovamente di gridare, gli occhi sbarrati dalla paura. Poi, sembrò cedere, abbandonarsi…
“ Brava, fai la brava…” ebbe appena il tempo di mormorare Sigismondo prima che una violenta ginocchiata al basso ventre lo facesse mollare la presa. Mentre l’uomo si raggomitolava su se stesso, imprecando, Maria, dopo aver afferrato la chiave della stanza dalla tasca della sua veste si precipitava ad aprire, uscendo di corsa senza nemmeno afferrare la cesta. Sconvolta, rimase un attimo in ascolto, ma il rombo del sangue nelle orecchie sovrastava qualunque rumore. Si annodò la treccia sfatta intorno al capo alla meno peggio, cercando di controllare il tremore alle mani.
Nell'oscurità delle scale, il volto che s’intravedeva appena sembrava conservare più della traccia di quelle mani insolenti la vergogna che lei stava provando e la delusione che affiorava in lei confusamente, mentre cercando di assumere un’aria il più possibile normale, si allontanava dal pianerottolo scendendo a precipizio la scala.
Dalle scale saliva il Moro che si scansò per lasciarla passare, incrociandone per una frazione di secondo lo sguardo, che lei abbassò confusa, mentre una vampata di rossore le accendeva il volto pallido e la bocca s’increspava nello sforzo di trattenere il pianto.
Le mani del Moro si contrassero a pugno e un borbottio aspro e incomprensibile gli usci dalle labbra, mentre riprendeva a salire, ma lentamente, quasi quel suo corpo muscoloso e scattante si fosse afflosciato, perdendo la sua forza come una vela vuota di vento.
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