Sfinito, Sigismondo dormiva cercando nel sonno rifugio alla sua precaria condizione di fuggitivo privo di punti di riferimento. La giornata volgeva al termine e le prime ombre della notte già si allungavano sul mare incupendolo, quando la fame, che gli borbottava nello stomaco, gli fece aprire gli occhi. Mangiò un po' di brodaglia della ciurma prima di ripiombare in quel sonno animato da incubi e tremori che ormai gli erano diventati abituali.
Raggomitolato nel mantello avvertiva lo schiaffo,rassicurante nella sua ripetitività, dell'onda sullo scafo, ma senza aprire gli occhi, lasciandosi cullare in una sorta di dormiveglia, quando, all'improvviso, ebbe la sensazione che la calma di vento avesse fermato la corsa del veliero. Aprì un occhio, rendendosi conto con stupore che aveva dormito per molte ore: schiariva, infatti, il cielo, lasciando intravedere le grandi vele che pendevano flosce mentre lo scafo, che sembrava inchiodato all'acqua, vibrava come se un lungo brivido lo attraversasse. Si sollevò a fatica guardandosi intorno: i viaggiatori dormivano e un silenzio irreale gravava sul veliero che sembrava sospeso tra cielo e mare, avvolto dalle nebbie umide dell'alba. Sigismondo spalancò gli occhi aguzzando la sguardo. Fu in quel momento che inquadrò la goletta che, dotata evidentemente di rematori, puntava - le vele raccolte - silenziosa e decisa verso la nave, come un predatore su un cucciolo sperso.
Corsari o pirati?
Il tramestio improvviso alle sue spalle gli fece capire che non era stato l'unico a scorgere il veliero a bordo del quale già si distinguevano uomini armati.
"Tentativo di arrembaggio". L'urlo passava di bocca in bocca, scatenando il terrore che si disegnava sui volti ancora inottusiti dal sonno dei passeggeri. In pochi secondi, mentre si aprivano i boccaporti e uscivano i marinai, armati alla meno peggio, in un calpestio di passi, ordini che rimbalzavano dall'uno all'altro, pianti di donne, preghiere sussurrate e imprecazioni, la nave corsara si affiancava. Aggrappati alle corde, piombavano sulla tolda dell'imbarcazione, urlanti come diavoli scatenati, gli assalitori. Cozzarono le spade e tuonarono i fucili, volarono i coltelli brillando sotto i primi raggi del sole nascente, mentre alcuni marinai e il capitano, asserragliati a poppa, tentavano di difendersi e i viaggiatori cercavano rifugio scivolando tra i contendenti, scendendo all'interno della nave o acquattandosi dietro ripari improvvisati in preda al terrore.
Sigismondo, che non era armato, si trovò di fronte uno dei pirati che roteava una sorta di scimitarra. Riuscì con un balzo a evitare il primo fendente, ma il secondo stava per abbattersi su di lui, intrappolato in un angolo che non gli consentiva possibilità di scampo, quando un provvidenziale pugnale centrò l'uomo davanti a lui in pieno petto. Mentre un'espressione di sorpresa si disegnava sul suo volto, il corsaro si afflosciava, abbandonando l'arma che stringeva tra le mani, nel tentativo di afferrare il manico del coltello, conficcato nel suo petto. Sigismondo afferrata la scimitarra si lanciò, urlando tutta la sua rabbia, contro uno degli assalitori.
Il sangue gli salì agli occhi e la rabbia che aveva covato dentro, come un fuoco mai spento, gli esplose nello sguardo, gli urlò sulle labbra, diede forza e agilità alle sue gambe, mentre menando fendenti a destra e manca, vedeva cadere intorno a lui, sotto i suoi colpi furibondi, colorono che tentavano di opporglisi. Qualcuno, incoraggiato e spronato dal suo esempio, gli si affiancò. Dopo alcuni minuti erano già un gruppetto e guadagnavano terreno resistendo agli assalti. Sigismondo, alla testa del gruppo, il corpo inzuppato di sudore macchiato dal sangue dei feriti, un colpo di striscio dei quali gli aveva quasi staccato una manica che gli roteava intorno alla spalla, incrociava la sua lama con quella di chi aveva davanti.
Sull'inferno che si era abbattuto sulla nave, sulle facce dei morti, sulle urla dei moribondi, sul terrore, lo sgomento e il furore dei vivi, lento e inesorabile si alzava il sole.
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