Ricordo che la prima volta in cui sentii quella frase "Eh sì ragazzi, oggi il lavoro lo dovete inventare!" ci rimuginai su, abbastanza infastidita. Prima dote richiesta la fantasia? Per svolgere un lavoro e soprattutto un lavoro creativo - pensai. Io mi muovevo allora all'interno di categorie ben definite, memore di un mondo e un'esperienza, la mia, completamente diversi. Il mercato del lavoro nel quale io ero cresciuta aveva conosciuto la realtà, oggi inimmaginabile, della piena occupazione, con conquiste sindacali ottenute da sindacati forti e agguerriti, che avevano dato al lavoratore un ampio margine di sicurezza. Nel corso di una generazione il mercato del lavoro si è trasformato in uno degli ultimi gironi dell'inferno. La televisione mostra, se e quando lo fa, solo la punta dell'iceberg: operai issati sui tetti delle loro fabbriche, sparpagliati - una manciata appena - a bloccare la partenza di un treno o il flusso del traffico su un'autostrada, rinserrati a occupare una fabbrica, appollaiati sulle gru... nel tentativo disperato di farsi sentire. E i padroni cosa fanno? Nel nostro Paese ci sono "padroncini" (molti), e padroni. Tutti si muovono nell'ottica del profitto e la fabbrica la tengono aperta fino a quando rende: se non rende più la chiudono! E la Cassa Integrazione, all'italiana maniera copre e parzialmente solo le grandi imprese che costituiscono una percentuale molto bassa della realtà imprenditoriale del Paese. E gli altri? A casa, a girarsi i pollici, a tenere i bambini e fare la spesa? Qualcuno dà fuori di matto, molti passano la giornata al bar davanti a un bicchiere, quasi tutti vanno in depressione. Il clima in famiglia si fa pesantissimo, i vecchi (con la pensione e la casa di proprietà) li tengono a galla pagando le rate del mutuo o ospitandoli, dato che dove si mangia in due si può mangiare in cinque! (per un po', ma rapidamente si scopre che non è così!) All'inizio questi uomini e donne quaranta/cinquantenni cercano lavoro, battono come segugi le agenzie di lavoro interinale. Rifiutano le prime proposte (che non soddisfano le loro competenze) fino a quando, portandosi dentro le occhiate di fastidio, le recriminazioni, le sbuffate e il disagio delle famiglie che hanno alle spalle accettano quei bocconi, quei brandelli di lavoro che le agenzie (istituzionalizzazione del caporalato) offrono loro: quindici giorni in un call center, una settimana a fare il magazziniere, tre settimane (a Natale) dietro a un bancone a fare le commesse. Poi ci sono i tempi morti, i periodi di non lavoro, in cui i pensieri si fanno ripetitivo/ossessivi, gli amici che lavorano non hanno tempo e i depressi alla lunga stancano, la moglie o il marito, e spesso pure i figli, ti guardano con occhi diversi, all'autorevolezza che vantavi si sostituisce l'autoritarismo, volano ceffoni e la trama minuta, quotidiana del vivere si tarla, si spezza. Togliere il lavoro è togliere la dignità!
Quando l'occhio indiscreto della telecamera inquadra la faccia di questi disoccupati o occupati che rischiano la disoccupazione, è lo sguardo che mi strazia, è l'umiliazione che affiora nelle parole e negli occhi che faccio fatica a sopportare e mi monta la rabbia, che è frutto dell'impotenza, e mi serpeggia dentro la paura perché queste tensioni familiari e personali cumulate, sommate diventeranno tensioni sociali. E dove andranno a parare? Questo potenziale emotivo/distruttivo prima o poi esploderà? Con quali conseguenze? La crisi toglierà dalla naftalina, come i cappotti a novembre, gli operai ridisegnandoli in componente socio/politica all'interno della società, in classe? Classe operaia?!
Doloroso però vederla ricompattarsi per discendere, sfrattata dal paradiso, a prendere possesso dell'inferno. 6H4R66FYJVB4
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