Mi piacerebbe inoltrarmi lungo le stradine di Tripoli o Bengasi per guardare la gente negli occhi, e poi lasciare scorrere lo sguardo sulla folla. Folla scatenata in una manifestazione di piazza, dispersa dal terrore delle fucilate, rintanata nelle case a origliare dalle fessure delle finestre mentre le parole scivolano di bocca in bocca e sono le parole di chi vive quella situazione sulla propria pelle, di chi ha figli e figlie, mariti, padri e madri in quelle piazze. Invece, le parole che sento, ronzio insistente di zanzara, sono quelle di chi parla di ciò che sta accadendo... Vorrei chiedere cosa li ha spinti a dire, a urlare basta!, vorrei sentirmi raccontare cosa vogliono o, prima di tutto, cosa non vogliono più. Vorrei consigliare loro di stare attenti, di non accettare ingerenze o aiuti non disinteressati, di superare la fase incandescente della rabbia che esplode, che dà la stura alla ribellione scovando nelle pieghe della pelle il coraggio, quel coraggio di cui si ignorava perfino l'esistenza...
Vorrei che l'Occidente, che si è arricchito sulla loro pelle, tenesse la bocca chiusa e non mandasse i caschi blu a presidiare - come avvoltoi - la loro disperazione, spianando armi solo da esibire e piangendo lacrime da coccodrillo. Non siamo di fronte a barufe chiosote di stampo goldoniano, siamo di fronte allo sforzo, ancora confuso ma prepotente e imperioso, di ricerca di libertà di un popolo - quello arabo - diverso per usi, religione, storia, ma che ha il diritto di trovare la propria strada: con tempi e modi che non potranno che essere i loro tempi e i loro modi.
Quanto a Gheddafi, sì, di dittatori e dittatorelli l'Italia ha una certa competenza, ma sarebbe il caso che si occupasse e preoccupasse di quello che ha in casa, prima di dare lezioni di democrazia alla Libia
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