La sveglia suonava e lei, mia madre, era la prima a scendere dal letto. La casa era gelida e umida. Veniva riscaldata soltanto la cucina e io, fin da piccola, seguivo con curiosità questo rito del fuoco da accendere, guardandola soffiare per alimentare quella fiamma resa stentata, soprattutto all'inizio, dall'umidità della legna da ardere. Quando un soffio di calore invadeva la cucina, mia sorella e io venivamo chiamate, ma spesso, non vedendoci arrivare, era lei che ci portava, raggomitolate tra le sue braccia nei camicioni di flanella, fino alla cucina.
Il bagno lo facevamo alla sera, quando la cucina era bella calda, nella ramina, utilizzando l'acqua rimasta dopo esserci lavate - non si buttava nulla - per riempire le bottiglie, avvolte in un panno, che venivano infilate sotto le coperte per dare un po' di tepore alle lenzuola ghiacciate. Ricordo il freddo di quegli interminabili inverni, ma anche il calore di quegli abbracci mattutini che avevano il profumo della colonia di cui mia madre si metteva alcune gocce dietro le orecchie.
Abitavamo in una bella casa proprio sulla piazza principale, ma il bagno con la vasca in maiolica, sempre scintillante, era utilizzato soltanto d'estate, quando le giornate si facevano interminabili e noi bambini giocavamo sul sagrato della chiesa, ai giardinetti oppure nelle corti se non nelle strade, con le madri che si affacciavano a turno a dare un'occhiata dalle finestre, chiamandoci ripetutamente per farci rientrare sudati, sfiniti da quelle ore di gioco rese possibili dalla stagione e dalla libertà che la chiusura estiva delle scuole concedevano.
Si usciva dalla guerra: c'era poco di tutto, case devastate dai bombardamenti, molte vedove, tanti bambini da far crescere, pochissimi soldi ma tanta passione politica che scatenava discussioni nelle osterie dove gli uomini si fermavano a farsi un bicchiere di vino dopo il lavoro. L'acqua si beveva alle fontanelle, a volte a noi bambini, alla domenica, veniva comperata una gazzosa. Il frigorifero non c'era, al massimo, nelle famiglie borghesi, la ghiacciaia.
Nel lavello, sotto un filo d'acqua costante, il panetto del burro, in quelle estati torride, riusciva a non fondere. L'ascensore neanche a parlarne: ci facevamo le scale su e giù, e toccava anche a noi bambini, con i cesti della legna d'inverno e i secchi dell'acqua durante l'estate, quando ai piani alti delle case l'acqua non sgorgava dai rubinetti.
Ogni tanto, tra i ragazzini che giocavano intorno alle case sventrate o nel corso di scavi e costruzioni, saltava per aria una bomba inesplosa, e allora per un attimo il fantasma di quella guerra terribile che si voleva, o doveva, per ricominciare a vivere, dimenticare, riprendeva corpo. Si spegnevano le discussioni politiche e a casa, alla sera, qualcuno si prendeva un figlio sulle ginocchia e raccontava... della prigionia, dei soldati saltati in aria come burattini, del dolore, della paura, della vergogna. A spizzichi e a bocconi, dalle bocche degli uomini usciva il ricordo della guerra vera, mentre le donne parlavano della loro guerra: quella fatta per cercare qualcosa da mangiare, tra un bombardamento e l'altro, delle coperte usate per cucirci i cappotti, delle fedi date al Duce, dell'angoscia per i mariti al fronte... tacendo su altri dolori, per amori non confessati e a volte neppure vissuti, o vissuti con sensi di colpa e ignorati da chi era tornato ferito nel corpo e dilaniato nell'anima a riprendere possesso di vite che per molti non sarebbero più state le stesse.
(continua... )
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