Gualtiero prese la cartella di Primo e la depose sulla scrivania, afferrò la penna, annotò la data della morte, tamponò con la carta assorbente, appose il timbro "archiviato" e allungò la mano per suonare, ma le sue dita scivolarono lente sul campanello che avrebbe dovuto far accorrere la Rosina.
Archiviato, riposto nella cantina della memoria, cancellato per sempre - pensò, mentre qualcosa baluginava nella sua testa, esplodeva nella memoria un ricordo lontano. Acquattato, là dove si nascondono i segreti, un volto, un nome e le sensazioni di allora: identiche, incancellabili. Primo che si difendeva, Primo che capiva, tremava, veniva ucciso. Come Ninetto, il bracciante dal coraggio leggendario, Ninetto che aveva lottato come un leone prima di morire, afferrando la gola di Desmo con quelle sue mani callose e forti di contadino, e stringendola, stringendola fino a fargli quasi uscire gli occhi fuori dalle orbite, il viso ridotto a una maschera contorta e violacea, il respiro che diventava rantolo sempre più affannoso, sempre più lento... fioco. Era a quel punto che lui, Gualtiero, aveva sparato: quasi senza riflettere, d'istinto. Ninetto era crollato in ginocchio, guardandosi stupito le mani che si andavano colmando di sangue, ma aveva trovato ancora la forza di alzarsi e avanzare barcollando verso di lui, per togliergli dalle mani il fucile. Senza riuscirci.
Poi, quando Desmo aveva ripreso fiato, legato Ninetto a una grossa pietra, l'avevano gettato nel fiume, che ingoiatolo l'aveva trascinato chissà dove. Forse a valle fino al mare o forse, ingabbiandolo tra i canneti, l'aveva inchiodato sul fondo. Da quel giorno Ninetto e il grande fiume erano diventati per lui inscindibili, entrambi custodi di un segreto inconfessabile.
Anche allora, com'era nella natura violenta del suo carattere, l'idea di dare una lezione a Ninetto, una lezione definitiva, era partita da Desmo, ma era stato lui, Gualtiero, a non opporsi e ad accompagnare l'amico sul luogo dell'agguato... Poi, poi tutto era andato storto. Forse Desmo, ubriaco, si era lasciato sfuggire qualcosa, forse al paese la scomparsa di Ninetto era stata attribuita ai fascisti e quindi al loro capetto locale - che era proprio Desmo - o magari era stata una vendetta decisa da altri per colpe di Desmo che lui nemmeno conosceva. E così era scattato un altro agguato e questa volta Desmo aveva avuto la peggio.
Dopo la morte dell'amico non si era sentito più sicuro, e quando avevano ammazzato anche il "Biondino" aveva avuto paura, una paura maledetta che potessero risalire fino a lui o che il grande fiume, come un dio irato, facesse affiorare il suo segreto. Così, soprattutto per paura e vigliaccheria, aveva lasciato il paese, ingannando anche Marilena.
Le bugie sono come le ciliegie, una si tira dietro l'altra - pensò, gettando il fascicolo di Primo in uno scatolone, mentre la sirena dello stabilimento, sovrastando ogni altro rumore, bloccava gli impianti per la pausa del pranzo.
(continua... )
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