In fabbrica la mattinata era passata in fretta, punteggiata da sguardi muti ma eloquenti, fronti corrugate e silenzio.
Quel silenzio che sembrava sovrastare persino i mille suoni delle macchine, pesando sull'aria fumosa che ingrigiva i locali dove si lavorava. Tutti avevano evitato di guardare il posto lasciato vuoto dal compagno, i suoi guanti da lavoro un po' logori ancora appoggiati, gettati di traverso, sul banchetto. Per dimenticanza o per sfida?
Quando la sirena dello stabilimento li aveva richiamati al lavoro, i guanti erano scomparsi, il banchetto era stato riordinato e un ragazzo armeggiava rovistando incerto tra gli attrezzi.
Accanto a lui, Gualtiero dava ordini secchi, ostentando sicurezza e controllo della situazione. Il giovane operaio sudava mentre le macchine ripartivano con l'abituale stridore e la tensione si faceva palpabile.
"Qualcuno venga a dare una mano al ragazzo" chiese Gualtiero.
Nessuno si mosse.
"Pioltino, vieni tu!"
Nessuna risposta.
"Pioltino, mi hai sentito?" La voce di Gualtiero parve incrinarsi per poi aumentare di tono, fino a diventare stridula. "Sei sordo?"
Gli operai avevano smesso di lavorare, solo il martello di Pioltino si muoveva monotono e ripetitivo.
Il ragazzo accanto a Gualtiero deglutiva saliva e imbarazzo, volgendo lo sguardo ora sul volto congestionato del capo reparto, ora sulle facce degli operai. Una vena pulsava sulla tempia di Gualtiero, ingrossandosi, mentre la mandibola gli si irrigidiva.
"Benissimo! Pioltino sarai muto, ma non sei ancora sordo, il tuo incarico per la giornata odierna, è di seguire questo "nuovo" e insegnargli il lavoro da fare... " disse Gualtiero; poi, lentamente, si avviò verso la scala che portava al suo ufficio. Salì le scale e, prima di entrare, si voltò dominando dall'alto lo stanzone.
"Vi consiglio di riprendere il lavoro!"
Entrò nel suo ufficio e si chiuse la porta alle spalle, restando in attesa, l'orecchio incollato al muro, mentre la tensione che lo aveva sorretto fino a quel momento lo abbandonava e il suo corpo pesante e tozzo sembrava inquartarsi, scosso da un leggero tremore.
La Rosina entrò nella stanza. Ansiosa e pallida lo guardò, come se lo vedesse per la prima volta e, incerta, aprì la bocca per parlare.
"Ha bisogno... " balbettò, ma venne interrotta, zittita.
"Torna al tuo posto, quando avrò bisogno di qualcosa ti chiamerò... e ora lasciami lavorare!"
Gualtiero, ripreso il controllo, si lasciò cadere sulla seggiola mentre la segretaria lasciava la stanza.
La mano destra, appoggiata sulla scrivania, tremava ancora leggermente. Gli operai non lo amavano da quando era "passato" caporeparto ma, e questa era la cosa importante, lo temevano o, almeno fino a quel momento, l'avevano temuto. Ma ora?
"Me ne frego del loro amore, a me basta quello di Marilena" pensò, mentre il desiderio della moglie si faceva acuto, la voglia di sentire il suo corpo sottile sotto le mani a comunicargli calore, riconoscendolo, accettandolo, consolandolo, gli scorreva nel sangue, in un marasma di emozioni che si manifestavano e si scontravano dentro di lui, dandogli una spiacevole sensazione di vulnerabilità, di pericolo imminente, di sicurezze che credeva acquisite ma che gli si sbriciolavano tra le dita. Ricordi e rimorsi riaffioravano dentro di lui, come chiazze fangose di terra da un fiume prosciugato dal sole: in agosto, d'estate.
(continua... )
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