Erano amici di famiglia: lui, il marito, impiegato di banca, la moglie casalinga, i due figli, un maschio e una femmina, studenti... Giacomo era iscritto al Conservatorio. Suonava il piano. Molto bene. La loro casa era sempre piena di gente, nella nostra non entrava nessuno. Da loro le discussioni duravano ore, pacatamente appassionate... a casa mia silenzi o urla. Giacomo girava spavaldo con l'Unità in tasca, e quando suonava il pianoforte assumeva un'aria seria, i riccioli scuri che gli ricadevano sulla fronte, disordinati, ribelli. Era bellissimo. Io lo ascoltavo intimidita, impacciata, come ascoltavo i loro ospiti. In silenzio. "E' un compagno", dicevano, aggiungendo un piatto a tavola e io deglutivo piatti istriani e timidezza... Mia sorella ed io, educazione austro-ungarica, sedevamo ingessate nei nostri vestiti con la sottogonna a balze, " cenerentola" ai piedi. Silenziose. Io non sapevo ballare, ma era soltanto una delle tante cose che non sapevo fare.
In quella casa respiravo politica e cultura, ma soprattutto libertà.
Poi, ci fu uno sciopero. Il padre di Giacomo fu l'unico impiegato della banca dove lavorava ad aderirvi, non presentandosi al lavoro. Venne trasferito "per direttissima" nella filiale più disagiata della banca: in un paesino dove le capre erano più numerose degli abitanti, quattro case, una piazza, qualche asino
... e uno sportello bancario. In Sardegna, tra i monti, dove del mare non arrivava nemmeno il profumo.
Partì dopo due giorni. Sua moglie e i ragazzi lo accompagnarono alla stazione, noi lo salutammo a casa.
Rimase, in quel paese che nemmeno le carte geografiche riportavano, per tre anni.
"El xe ga meso contro i paroni... Con che testa gavendo famiglia... ", borbottò mia nonna, scrollando il capo.
Eravamo all'inizio degli anni Sessanta, i "favolosi" anni Sessanta...
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