Ho cercato, in un paese il cui degrado si faceva di giorno in giorno più profondo, di ritagliarmi un angolo, uno spazio anche minimo in cui rintanarmi. Le parole e io: per giocarci, dimenticare e ricordare, ma l’eco è giunta anche qui: parole affilate come coltelli hanno forato il mio silenzio, mi hanno raccontato che mentre io gioco con le favole, la realtà bussa, invadente, alle porte di chi non vuol vedere, né sentire. Parole gonfie di paura hanno sussurrato che la democrazia va protetta, ogni giorno, ogni ora. Non si va in vacanza dai doveri, nemmeno se si è stanchi e malati e non si ha più voglia e nemmeno forza per opporsi. Ognuno deve fare la sua parte: come può, come sa, con gli strumenti che ha a disposizione. Anche se di battaglie, essendo vecchia, ne ha fatte tante, e sono stata sconfitta troppe volte, so, e non mi occorre una laurea per capirlo, che sono sconfitta ma non perdente. I miei nipoti mi guardano, nei loro occhi le domande attendono risposte alle quali non posso più sottrarmi.
Per questo per un po’ trascurerò le mie fole, e le parole, che tanto amo, le userò per raccontare altre cose, per capire e confrontarmi perché la posta in gioco è alta. Sono passati poco più di sessant’anni da quando tanti, troppi ragazzi sono morti per darci la possibilità di vivere liberi, perché potessimo crescere senza “credere (alle altrui bugie) obbedire (senza essere d’accordo) e, soprattutto, combattere (crepando a vent’anni sui campi di battaglia).” Cerchiamo di non scordarlo.
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