Il Moro era partito e questa volta il viaggio sarebbe stato più lungo e pericoloso: cercava mercanzia da acquistare a buon mercato e da rivendere a Trieste. Era riuscito a convincere Sigismondo che non aveva condiviso il suo entusiasmo per la nuova impresa, anche perché senza il socio, che trattava pur sempre con condiscendenza, il Veneziano si sentiva perso. La giovane e bellissima moglie gli era già venuta a noia. Una volta ottenuto ciò che voleva, soddisfatta quella sua ingordigia di femmine, la sua incapacità di amare qualcuno al di là del suo egocentrismo era riemersa e lui non aveva fatto nulla per nasconderla. Maria, che a sua volta l’aveva sposato spinta dall’ambizione della madre, si era resa conto ben presto di avere sposato un uomo inconsistente, capriccioso come un bambino, anche lui abbagliato dalla sua bellezza che si stava rivelando per lei una vera e propria iattura, uno schermo al di là del quale c’era una donna che nessuno sembrava voler né conoscere, né capire. Il marito le aveva affiancato una servetta, una ragazzina che veniva da una famiglia numerosa con troppe bocche da sfamare e Maria si era affezionata a Teresina che era rapidamente diventata la sua confidente. La moglie del Veneziano, abituata a lavorare duramente, aveva preso subito in mano le redini della casa e il controllo del magazzino di cui il marito, abituato a stare a letto fino a tardi e a girovagare a vuoto la sera, si occupava in modo discontinuo, preferendo passare le ore nel suo studio a leggere o dietro a qualche gonna. Era ancora un bell’uomo anche se intorno agli occhi gli s’infittiva un reticolo di rughe e i baffi e la barba, che si radeva ogni mattina, incominciavano a ingrigire. Invecchiando, il rimpianto per la sua città si era fuso aggrovigliandosi alla nostalgia per la vita che aveva fatto e per l’uomo che era stato. In realtà, come tutti, aveva selezionato i ricordi a supporto dell’idea di sé che aveva deciso di avere e l’uomo, che riteneva essere stato, esisteva ormai soltanto nella sua fantasia e nei suoi desideri: un fantasma inconsistente, ma capace di condizionarlo e turbarlo con l’innegabile forza di uno spettro.
A mezzogiorno, quando si alzava dal letto e si affacciava alla finestra, quella distesa azzurra, inondata di sole o grigio riflesso di nuvole gonfie di pioggia, lo aggrediva infastidendolo. Sì, lui si sentiva aggredito da quella natura tracotante, irrispettosa: odiava la bora, il suo sibilo che diventava urlo, raffica incontenibile. Odiava quel mare che il vento arruffava in onde che battevano i moli, con il rumore sordo di uno schiaffo. E alla memoria gli tornava quell’acqua verdognola, che accarezzava i palazzi e riluceva di ori riflessi, percorsa dalle gondole, eleganti come cigni neri, curvilinee come corpi femminili. E le conversazioni colte, la musica, la grande musica veneziana, una geometria perfetta di note, cascate di note tintinnanti dove Albinoni, il suo preferito, fondeva le sonorità dei fiati con quelle degli archi. E le sinfonie... a riempire il cuore di dolcezza. Venezia un salotto raffinato e perduto…
E, approfittando del Carnevale, nascosto sotto la maschera, tornare? Anche per un giorno soltanto rituffarsi nell’incrocio delle calli e delle piazzette? (continua...)
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