Ieri sera su Rai Tre è andato in onda il disastro americano, lasciandomi sconcertata per un particolare, apparentemente insignificante ma, a mio avviso, non irrilevante: non la dimensione del disastro, già analizzato e valutato in tutte le sue drammatiche componenti, ma quella delle persone, perché gli intervistati erano quasi tutti oversize.
In questo paese - dove i grattacieli incombono dall’alto dei loro innumerevoli piani, le macchine sono grandi come case, i panini sono extra large - il gigantismo, condizione dei luoghi, è diventato condizione dell’esistenza e quindi dell’anima. Gli spazi sterminati che questo popolo ha domato lo hanno forse abituato a pensare in grande, tanto in grande da provocare anche la più devastante crisi economico/finanziaria degli ultimi cento anni. Quegli spazi sconfinati, che hanno dato loro il senso e quindi il valore della libertà, sono diventati simbolo di arroganza per buona parte del paese. Emergeva dalle interviste la bulimica abitudine di un popolo che non consuma per vivere, ma vive per consumare, che non mangia per vivere, ma vive per mangiare. Provvisorietà e sicurezze inesistenti si delineavano attraverso le parole degli intervistati: uomini d’oro – gli dei di Wall Street - che erano diventati di cacca nello spazio di ventiquattro ore. Il bisogno, non il desiderio che è libera anche se discutibile scelta, di consumare e quindi acquistare, ha portato in primo piano la necessità di guadagnare: tanto, sempre di più.
Il denaro si è, quindi, fatto largo, diventando il valore, il fine, l’obiettivo a cui puntare, a cui tutto e tutti devono essere sacrificati. Nel vuoto di quegli appartamenti nei grattacieli, che sembrano sfiorano la volta celeste, si è forse avuta l’impressione che bastasse alzare una mano per cogliere una stella perché la tecnologia può tutto, ma il mistero dei sentimenti, e delle emozioni che ne derivano, scatena paure incontrollate. La dicotomia impotenza/onnipotenza si è fatta stridente in questo popolo di bambini e adolescenti non cresciuti. Inseguiti da quell’ansimare da bestia feroce della metropoli che ti alita sul collo, si è pensato di dover correre, in fretta, sempre più in fretta, non importa dove, non affrontando le paure, esorcizzandole con lo shopping e l’attrazione fatale per il frigorifero, in uno scricchiolio di mascelle che sostituiva le sinapsi di un cervello funzionante… E allora ho pensato alla disastrosa qualità della scuola pubblica americana: la scuola dei quartieri ghetto, immortalata da tanti film, che è parcheggio di giovani e non scuola di vita, non insegnamento, non valori, non acquisizione di capacitò critica, non pensiero, non riflessione, non gusto, né bellezza e, con un brivido mi sono sfilati davanti agli occhi i giovani incontrati negli ultimi anni del mio insegnamento e, in una Milano che si andava imbarbarendo, i loro eroi: Berlusconi e Bossi.
Negli zainetti troppe merendine, troppi jeans firmati…Pochi pensieri, scarse e scarne riflessioni, il deserto dei valori …non per tutti, ma per troppi. I grandi spazi sono anche grandi vuoti e uno su tutti è pericolosissimo: il vuoto culturale. Per gli americani? Non soltanto per loro.
E’ questo il futuro che si va delineando anche per il nostro Paese? Saranno queste le conseguenze dello scempio perpetrato nel campo dell’istruzione?
E’ un’ipotesi e non remota.
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