La Capinera risaliva l'Adriatico e tra il Moro e Geremia, l'ebreo sefardita imbarcato a Salonicco, lo scambio verbale scontato dei primi giorni si arricchiva di considerazioni personali mentre, nelle lunghe sere passate davanti a una bottiglia di vino, i due uomini si lasciavano andare a confidenze sempre più intime e personali. Avevano in comune, al di là della differenza di razza e religione, vite difficili che li avevano resi attenti e pronti a cogliere il pericolo, astuti e abili a trarsi d'impiccio nelle situazioni difficili. Geremia, che in realtà si chiamava Amos, non aveva fatto cenno a quell'incarico che l'anziano più autorevole del ghetto triestino, il vecchio Gospez, aveva fatto circolare di bocca in bocca, rendendolo alettante con un compenso in denaro non disprezzabile, e che invitava tutti gli ebrei a drizzare le orecchie e aguzzare la vista per stanare e riportare a Trieste dal suo ex padrone un nero, sulla cui forza e audacia si favoleggiava, che veniva chiamato "Il Moro" così come il suo padrone, ora socio, era ormai conosciuto da tutti come "Il Veneziano". Geremia tentava di tenere sotto controllo la situazione nel tentativo di percepire un compenso - senza avere in realtà fatto nulla - dal rabbino, ma anche di dare una mano al Moro che aveva deciso di tornare a Trieste soprattutto per rivedere Maria, con la speranza di indurla a seguirlo, abbandonando il marito.
Geremia che, rimasto vedovo con una figlia piccola affidata alle cure della nonna, conosceva il dolore per la perdita della propria donna, diffidava, però, di quella storia che non lo convinceva affatto e tentava - invano - di indurre l'amico a togliersi quella donna dalla testa. "Mai sposare una femmina troppo bella" gli aveva detto, aggiungendo "lascia che se la tenga il marito...Di notte tutte le gatte son bigie, sono altre le doti che deve possedere una moglie..." ma il Moro, guardandolo ridendo, gli rispondeva:" Questa gatta non è come le altre, la distinguerei tra mille e nella notte più nera" e lo sguardo degli occhi scurissimi si addolciva. Geremia, sentendo un brivido percorrergli la schiena, borbottando un saluto si alzava e se ne andava a dormire. Allora il Moro, insonne, andava sul ponte di comando a scrutare il mare, lo sguardo che inseguiva i ricordi mentre, come un animale selvaggio costretto in gabbia, lo percorreva in lungo e in largo, gli occhi che nell'oscurità brillavano di desiderio e impazienza. Ma un mattino, cogliendo qualcosa in lontananza, un tremolio lontano di luci, che non era il riflesso delle ultime stelle che sbiadivano in cielo specchiandosi nell'acqua, afferrò il cannocchiale: sulla superficie del mare si alzava la linea morbida e sinuosa della terraferma e, mentre l'emozione che ogni uomo di mare prova nello scorgerla lo prendeva alla gola, dietro a lui qualcuno gridava " Trieste all'orizzonte, siamo a casa, siamo a casa!" e la Capinera sembrava mettere le ali. Il sole nascente illuminava la costa che appariva sempre più nitidamente. Affioravano incerti i contorni dei palazzi e i riflessi di sole sulle vetrate mandavano lampi di luce, mentre il Moro dava ordine ai marinai che, veloci come gatti, si arrampicavano obbedendo, d'imbrigliare le vele, sottraendole al sospiro del borin, per manovrare meglio la Capinera nella fase di attracco al molo.
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