Venezia si stordiva nel Carnevale, in un'allegria che lasciava sottintendere rimpianti inconfessabili, trasudanti dalle lacrime disegnate sui volti di gesso dei pierrot e dalle manfrine dei cicisbei al seguito di dame distratte, che lasciavano cadere il fazzoletto o agitavano il ventaglio, in un rituale che andava assumendo un'aria stantia, un dejà vu che Sigismondo, invece, notava con stupore per la prima volta. Come tutti coloro che abbandonato un luogo per troppo tempo lo idealizzano, stentava a riconoscere in quella Venezia, anche se gravida di ricordi, la città che aveva costruito e conservato nella sua memoria. Ciò che vedeva non aveva più nulla a che fare, se non come versione umiliata, con la sua città. Scattava, automatico, il confronto con Trieste, città che si ampliava, cresceva e si abbelliva sulla scia di un porto in piena espansione e del fiume di denaro che traeva origine da uno sviluppo commerciale che non conosceva pause. Provato dalla fatica del viaggio e squassato da emozioni violente, cercava nell'intrico delle vie che la notte, ormai scesa sulla città, rendeva difficilmente distinguibili, una vecchia locanda dalle parti dell'Arsenale, con stanze di poco prezzo e proprietari che non facessero domande.
Il suo passo si andava facendo strascicato, mentre una grande stanchezza lo coglieva e, dentro di lui, franavano, alla vista dell'abbandono che traspariva dai muri scrostati e nell'afrore di marcio che esalava dai canali, il ricordo e l'orgoglio per il suo essere veneziano. La decadenza della città gli rimandava l'immagine della sua disfatta che coglieva con una lucidità inusuale e devastante.
Si sedette per riprendere fiato sui gradini di una chiesa e si prese la testa tra le mani, mentre davanti agli occhi gli passavano i ricordi di una città fastosa e della vita che lui, l'elegante, raffinato conte Dellapicca, vi aveva condotto, sotto lo sguardo amorevole di sua madre che gli sorrideva allungando le braccia per stringerlo a sé...ma un rumore di passi affrettati attirò la sua attenzione, distraendolo dai suoi pensieri. Tre maschere avanzavano verso di lui, guardandosi intorno. Guardinghe. La più colorata, un Arlecchino dai colori sgargianti, gli si parò davanti. Sigismondo, rendendosi conto dell'ora tarda, della piazza deserta, dell'evidente disparità numerica, nonchè fisica, ebbe un moto di paura e si alzò, incerto, fissando l'Arlecchino che stava improvvisando a suo uso e consumo piroette e inchini. Osservandolo più attentamente, Sigismondo ebbe la sensazione di conoscerlo poiché la maschera che portava gli incorniciava solamente gli occhi, lasciando libera una bocca dalle labbra sottili, e un naso, appena arcuato, aristocratico. La sua attenzione si concentrò su quella bocca e sulle mani, ornate di anelli, mentre il cervello gli rimandava l'immagine di una mano maschile che si allungava, bianca, quasi femminea nella sua mollezza, a prendere una carta da gioco.
L'uomo si strappò la maschera dal volto, lasciandola cadere a terra mentre Sigismondo, la bocca spalancata dalla meraviglia, lo riconosceva.(continua...)
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