Questa mattina mi sono svegliata molto presto, la casa era gelida, l'inverno qui in Emilia è arrivato di botto, come in questo periodo di variazioni climatiche intense e sottilmente angoscianti succede, e per approdare alle otto del mattino e a una temperatura accettabile, ho preso un libro a caso nel ripiano di quelli ancora da leggere. L'ho aperto: incipit da grande scrittore: "Lo svedese. Negli anni della guerra, quando ero ancora alle elementari, questo era un nome magico..." Philip Roth così comincia "Pastorale Americana" partendo in sordina e conducendomi per mano in quella cittadina, quelle strade, case, giardini, aule e campi sportivi che ognuno di noi si porta dentro, palcoscenici, che il ricordo ha cristallizzato, di infanzie vissute sperimentando tutta la gamma della felicità e infelicità infantile: le profonde insicurezze, i progetti faraonici, le devastanti delusioni, le immotivate esaltazioni. In contrapposizione netta con le dimensioni fisiche dell'infanzia, tutto esorbita nel bambino travalicando i suoi striminziti confini: tracima e fa strage o salva facendo rifulgere un coraggio che è tale più nei presupposti che nei fatti. Se lo scrittore è Roth (cognome, come ho già scritto in un mio post, che sembrerebbe inchiodare chi lo porta alla scrittura, come un Cristo alla croce), capace di descrivere non un'infanzia ma l'infanzia, il processo d'identificazione è immediato e la sottoscritta... era lì, tornata bambina - bava alla bocca - a smaniare per il ragazzo o la ragazza che assommavano in sé il meglio di tutto ciò che il sole illumina ogni giorno sulla terra. Il mito, ciò che avremmo voluto, e nei sogni più arditi, anche potuto essere. Se...Se? Be', se avessimo avuto una famiglia diversa - grande alibi la famiglia d'origine, anche perché effettivamente una certa influenza nel bene e nel male chi si sentirebbe di negargliela, e ciò dà all'alibi una certa consistenza - se il destino ci avesse consegnato alla nascita qualche dono in più, che ne so, il naso di zia Maria invece della patata, grossa e adunca, che si mangia il viso di mio padre e che con l'età ha assunto una colorazione sanguigna che gli dà l'aria da pagliaccio anche quando fa o tenta di fare quello serio. E poi? Poi tutto il resto che il destino, distratto, ha dimenticato sul fondo della borsa e che è andato a finire sull'ignaro capo di quello che di conseguenza è diventato il Mito.
Riemergo, grazie allo squillo della sveglia e al diffuso tepore che mi riconcilia con l'inverno, dal libro dove in sessanta paginette Roth mi mostra come si scrive. Come lui scrive. Come scrive uno scrittore. E un velo di malinconia scivola sulla domenica ottobrina che mi si spalanca davanti: alla mia domanda "scrittrice o scribacchina" Lui ha già risposto. Lui: Roth. Il grande, grandissimo Roth.
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