giovedì 31 marzo 2011

Tokio, 31 marzo 2011

Ci consigliano (?)  di non mangiare pesce. Abbiamo già escluso verdure, frutta e latte. E' sera, ormai. Mi affaccio alla finestra, ventiquattresimo piano di questo palazzo fatto di cristallo, cemento e acciaio... Sbircio fuori: la città sembra un cimitero silenzioso, fiocamente illuminato dal chiarore di lampade votive, ma io, Mishika Takiri, sono viva. Viva! Gli ammortizzatori sui quali poggia il palazzo hanno funzionato: abbiamo ballato, ma gli edifici, scossi dal terremoto come alberi centenari squassati da un vento di tramontana, hanno retto. Ho avuto paura ma ho provato anche un senso d'orgoglio. Ho chiamato Kangoo, il mio ragazzo, ma il telefonino non funzionava. Ho tentato di contattare i miei genitori... Impossibile! Kangoo e io ci siamo conosciuti all'università a Tokyo, ma veniamo dal Nord del paese, dalla zona di Fukushima. Ho sentito, stridulo, il suono delle sirene...
Quanto tempo è passato prima di sapere? Chi ha parlato per primo di tsunami? Quando la televisione ha mandato in diretta le immagini del disastro? Tutto il disastro, o soltanto una parte, per non scatenare il panico?
Kangoo e io abbiamo tentato di raggiungere Fukushima, ma siamo stati fermati. Quando digitiamo i numeri di telefono dei nostri genitori nessuno risponde, i loro nomi sono nelle liste dei dispersi. Liste chilometriche. Noi continuiamo a cercare e, poiché non possiamo scavare nel fango, tra i detriti, scaviamo nella nostra memoria.
Io ho sognato mia madre. Giovanissima, sorridente: avvolta nel kimono nuziale, così come appare in una fotografia che tengo sulla mia scrivania. Dove sarà quel kimono a fiori azzurri? Il mare l'avrà portato con sé negli abissi e forse un giorno lo abbandonerà su una spiaggia insieme a una manciata di conchiglie? Non ho una tomba su cui pregare, non potrò cremare i loro corpi, né quello di mia sorella. Sono sola, con una manciata di fotografie, una di ricordi... e tanta paura che vena di rosso l'angoscia, il dolore.
Nonno Sazoki, curvo e rugoso, scuoteva la testa dicendo: "E' una follia! Una follia!" e poi raccontava... di Hiroshima, di Nagasaki e della guerra. Mio padre sibilava tra i denti parole contenute di disapprovazione e lanciava oblique occhiate a mia madre.
Io ridevo: ero una bambina. Il mare era azzurro quando mio padre mi portava in barca a vela a pescare e i ciliegi, in primavera, profumavano di buono come la pelle di mia madre.
Il terremoto, terrore dei nostri vecchi, ruggiva a volte, ma era una tigre domata. Kangoo è ingegnere, io pubblicitaria: a Tokyo avevamo amici, un lavoro sicuro, progettavamo di andare a convivere. Mia madre era un po' delusa dal mio rifiuto di sposarmi. E il kimono a fiori azzurri? E un nipote da coccolare?
Ma poi - era un'ottimista - finiva con quella frase che m'infastidiva un po', quasi volesse ipotecare il mio futuro, decidendone lei: "Hai tanto tempo davanti... Non si sa mai".
La radioattività continua a salire: i ciliegi sono in fiore. Qualche fiore ha il pistillo azzurro e un petalo di troppo.
Ho deciso di abortire.
Kangoo è d'accordo.

Tokyo, 31 marzo 2011

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