Cosa scriverei se fossi sincera? Scriverei che non ce la faccio più, che il mondo è diventato grigio, di un grigio piombo che a tratti si accende di rosso, quando il dolore del corpo si fa poco sopportabile e poi insopportabile, e allora non sai se pregare o bestemmiare, anche perché non credi in Dio e sei stata educata al controllo da un padre austro- ungarico.
La primavera invade la mia casa/prigione con i suoi colori e i suoi odori: non vederla, non sentirla, sarebbe impossibile. Una coppia passa, mano nella mano; sento un tubare di tortore. Lo immagino? Lei ha una camicia leggera: a fiori. Camminano, i movimenti naturali, elastici delle persone sane. Normali.
Com'era camminare, forzare l'andatura, rallentare per osservare qualcosa, chinarsi a raccogliere un fiore, un sasso, una conchiglia? Non lo ricordo più: sono bastati pochi mesi per dimenticarlo, per piegarmi le gambe, farle strisciare, accorciare il passo...
Camminare è ormai sinonimo di dolore e fatica. E paura. Paura di cadere perché la testa gira, l'equilibrio è instabile. Basterebbe una sporgenza o una crepa nell'asfalto a sbilanciarmi. E allora proverei anche vergogna.
Lo so che è stupido, ma i sentimenti si fanno un baffo della razionalità, quella mia razionalità di cui andavo così fiera e che ora è limite, impaccio, rigore consequenziale incapace di dare conforto.
Mia figlia, la mia piccola manager milanese, dura e combattiva, quando mi vede, strizza gli occhi, improvvisamente troppo lucidi, poi il suo sguardo scivola via, lontano, come quando, da piccola, le dicevo che su padre non sarebbe venuto a trovarla per un imprevisto impegno di lavoro. "Come va?" mi chiede, e io rispondo "Bene" e sorrido. Come allora ormai siamo diventate abili a mentire. "Scrivi?" mi chiede. "Pochissimo... ". "Perché?" domanda. "Non ho più niente da dire".
Poi riparte per Milano, in fretta, quella pena nello sguardo che mai avrei voluto potesse dipendere da me ...
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