L’ingresso dell’ospedale era animato da un incessante flusso, in entrata e in uscita, di gente che si portava dietro il sapore della nebbia, il
primo freddo dell’autunno. Aspettava su quella panca scomoda, rabbrividendo nella vestaglia troppo larga. Quando li vide entrare, la faccia tirata che accomuna spesso i visitatori di questi
luoghi di sofferenza, fece loro un cenno, esitante. I figli la raggiunsero e si sedettero davanti a lei.
Si mise a piangere quasi subito, mentre la osservavano impacciati.
Quella malattia neurologica, progressiva e degenerativa,
diagnosticata da poco più di un anno, pur non avendole tolto ancora molto in
autonomia, le aveva devastato l’anima.
Aveva paura.
Aveva tentato, com’era nel suo carattere temprato da una
vita difficile, di ingabbiare quella paura nelle maglie strette della
razionalità, di neutralizzarla con l’ironia, di tenerla a bada con la speranza che la ricerca scoprisse un farmaco miracoloso o si
avventurasse in un trapianto di cellule staminali… Tutto inutile!
Perché a lei, dopo tanti guai, dopo tanta fatica… Perché
proprio a lei?
Perché a lei che non aveva fumato, né bevuto, mangiato in
modo sano: perché? L’unica risposta che aveva trovato – ed era una donna piena
di fantasia – era stata: “E perché no?”
“Non ce la faccio più!” disse.
Silenzio, rotto solo dallo scalpiccio dei passi e da voci
estranee.
Alzò la testa e li osservò, uno a uno, cercandone lo sguardo, come un naufrago cerca un salvagente nel pieno di una
tempesta.
Il figlio maggiore aveva un tono forzatamente calmo,
volutamente rassicurante quando si decise a guardarla. “Ci sono case-famiglia…
“ borbottò. E sorrise, quel sorriso con cui l’aveva conquistata fin da bambino.
La figlia maggiore sbottò: “Devi darti una smossa, ho
parlato con il neurologo… Starai molto peggio di come stai ora”.
Ma cosa ne sai di come sto? – pensò.
“Stai drammatizzando, stai esagerando! Ragiona!”
Non ci riesco – risposero muti i suoi occhi.
“Prenditi degli antidepressivi, degli ansiolitici e…
rimettiti in piedi. Io non posso, nessuno di noi può occuparsi di te, abbiamo
la nostra vita”.
La figlia piccola sobbalzò e incrociò il suo sguardo. Lei vi lesse disperazione, ansia; la sua stessa impotenza.
Aveva fatto di tutto e di più per preservarli dal dolore del
mondo, aveva combattuto contro tutto ciò che aveva o avrebbe potuto procurare loro ansia,
preoccupazione dolore, angoscia. Nelle loro battaglie l’avevano avuta accanto…
Sempre.
Si alzò; si alzarono anche loro: impacciati come bambini
sorpresi a rubare la marmellata, la abbracciarono uno a uno, le sfiorarono le
guance con un bacio.
“Ti accompagniamo al reparto?”
“Vado da sola” rispose.
Quando rientrò in camera la vicina di letto le disse: “Sono
venuti i suoi ragazzi a trovarla, eh, lei è fortunata: ha tre figli… e due
nipotini “
“Eh sì” rispose.
Ora i nipotini erano diventati tre e alla paura si era
abituata. Come al dolore del corpo e a quello dei distacchi, degli abbandoni troppe volte subiti. Nulla poteva
contro la malattia, nulla contro la solitudine che – quasi sempre –
l’accompagna. La piccola si era dimostrata la più forte e la più tenera. Il
maschio era fuggito lontano ma consapevole delle sue scelte, assumendosene la responsabilità. La figlia maggiore
e i nipotini li intravedeva, a volte, per strada. Un po’ impacciati i bambini,
aggressiva lei: come, quasi sempre, i più fragili.
Ciao Falilulela,
RispondiEliminaquanta malinconia e solitudine in questa lettera...mi commuove.
Come madre e come nonna, la protagonista si è mai chiesta come mai il figlio maggiore è fuggito lontano e la figlia maggiore le riserva quel trattamento ? E come mai i nipotini, anzichè attaccarsi al collo della nonna per manifestarle affetto rimangono impacciati ? Non è che in tutta questa storia può avere "sbagliato", sebbene in buona fede, anche la protagonista ?
Un anonimo – uno/a che ha raccolto nel mare dello spazio virtuale – il tuo grido di dolore. Certo, avresti dovuto tenere la bocca chiusa, ricacciartelo dentro quell’urlo, a viva forza, ma non ci sei riuscita…
EliminaChissà chi è? Uno/a che ti conosce, che sa chi sei, che sa – qualcosa o molto - della tua storia? O che non sa nulla e si è limitato a fare un commento generico, a buttare là un’ipotesi scontata. Non lo sai e non è che abbia poi molta importanza. Si è limitato a suggerirti, a bassa voce, educatamente, di porti delle domande. Almeno queste avranno una risposta, magari errata, incompleta o falsa… ma, comunque, una risposta.
Ti suggerisce di chiederi il perché di tanti, troppi(?) abbandoni.
E allora ti torna alla mente quella nave – maestosa, imponente – naufragata a pochi metri da terra e abbandonata, in tutta fretta, si fa per dire, da alcune migliaia di persone in fuga.
Si abbandona la nave che sta per affondare, che non è più asilo, conforto, rifugio, ma sta per diventare (è diventata?) trappola, trappola mortale che potrebbe ucciderti. Ecco, anche tu, come la Costa Concordia, non sei più asilo, conforto e rifugio. Non sei divertente, non puoi più essere d’aiuto, non puoi più dare, dare, dare. Neanche affetto?
Qui hai un brivido e, fulminea, ti sfiora l’ombra del dubbio. L’affetto cos’è? Se non è amore, è un suo parente stretto, è di più… è dell’amore, che potrebbe anche essere freddo, glaciale, l’aspetto più comunicativo: è il calore di uno sguardo che ti avvolge, complice, è una carezza che ti sfiora, è un abbraccio stretto quando sai che le parole potrebbero non bastare. La figlia piccola e il figlio grande ti abbracciano stretta quando ti vedono e, in fondo non chiedi di più. Un abbraccio e una battuta ironica, perché, quando ti commuovi, non vuoi farlo vedere. Sei pudibonda in fatto di sentimenti e l’ironia a cosa serve se non a nasconderli dietro alla maschera di un sorriso?
La figlia maggiore non ti abbraccia mai; porge una guancia fredda e dà un bacio altrettanto freddo. Formale - ti ricorda quei baci scambiati tra generali russi alle parate militari – freddo come la bora triestina, ma privo della sua allegria. E tu? Tu ti geli, cerchi il suo sguardo e, se e quando lo incroci,
è più gelido e solitario di una steppa ghiacciata. Ti respinge, ti chiede di sparire, di andartene, di non disturbare… E tu lo fai. Vai a fare il tè, con le tue mani impacciate, rovesci lo zucchero, non riesci a scartare i biscotti. Lei ti guarda, non ti aiuta. I nipotini si piazzano davanti alla televisione o ti chiedono di usare il pc. La madre non lascia loro spazio: parla, parla, un torrente di parole che ti sommergono, che pongono domande ma non chiedono risposte: servono soltanto a rendere meno sonoro il vuoto tra voi. Sai che non ti chiederà: “Come stai?” Lo vede da sé e… la disturba.
In quel mare di parole… affoga il “non detto” che nessuna delle due pronuncia.
Cara Falilulela,
Eliminascusa se mi sono permessa di entrare, senza chiedertelo, nella tua vita...perchè da quello che sembrava un racconto come tanti ora è chiaro che è di te e della tua esperienza di cui si parla. Una persona che non ha vissuto ciò che tu hai narrato non risponde con tanta rabbia e tanto "odio" nei confronti di quella persona, la mia persona, che ha posto delle domande, forse scontate ma pertinenti. Per te io sono e rimango nessuno, per questo ho commentato come "aninimo". Anche se avessi indicato un nome, un cognome, un soprannome, per te sarei rimasta solo ed esclusivamente un anonima. Non ti conosco, però è come se la tua storia la conoscessi. Anche io sono passata, da madre e da nonna, in una storia in cui cambiavano i contesti ma dove il contenuto è stato il medesimo. Posso dirti "è stato" perchè fortunatamente e, vivaddio, è passato. E mi sono accorta che, nascosto nel mio orgoglio, giaceva il problema. Tu, menzionando la figlia maggiore, cerchi una carezza, una parola, un gesto, un movimento, qualsiasi cosa che possa mostrare il suo affetto, il suo interessamento, il suo sostegno. Perchè è quello che ti interessa da lei. Ma tu non lo ottieni, perchè crescendo con te ha imparato a chiudersi nel suo orgoglio, l'orgoglio di una figlia che, con ogni probabilità, non ha mai ricevuto quella carezza che tu le richiedi. Forse perchè è stata la figlia maggiore, forse perchè è stata considerata quella che aveva meno bisogno di te, forse perchè è così che doveva andare la vita...Prova a leggere e rileggere le tue ultime parole. E' tutto li il segreto, il "non detto" che nessuna delle due pronuncia. Il figlio grande ha deciso di vivere la sua vita e, come ben sai, da genitori è difficile approvare le scelte dei figli. Quasi sempre c'è qualcosa che non va. Però non è fuggito da te, lui che probabilmente aveva ricevuto le tue attenzioni, se ne è andato perchè ha fatto una scelta. E' la sua scelta, la sua vita ed è giusto che sia così...La figlia piccola è sempre la più viziata! Permettimi di sdrammatizzare ma non è una colpa...i più piccoli ci comprano con pochi soldi, noi li crediamo perennemente indifesi e bisognosi di affetto. E per questo noi lo diamo, prescindendo dalla loro richiesta. Forse perchè i più piccoli li abbiamo avuti in una età adulta, forse perchè abbiamo sulle spalle le esperienze avute con gli altri e, ascoltami bene, forse perchè la vita ci ha plasmato, sono quelli che "crediamo" siano i migliori. Poi c'è la figlia maggiore, quella che pur essendo stata la più piccola rispetto al figlio è, purtroppo, nata in un periodo sbagliato della nostra vita. In una età dove non si vive la gioia del primo figlio e dove non abbiamo le attenzioni che riserviamo al più piccolo. In questo limbo è cresciuta tua figlia, è cresciuta mia figlia...Da quando mi sono resa conto di questo ho capito tante cose e sono stata in grado di valutare i miei errori. Capendo "me stessa", ho capito che mia figlia non era la "peggiore" degli altri e nemmeno la più fragile : era semplicemente la figlia a cui ho dato di meno e lei, la mia Alessandra, si era protetta dietro ai sacchi di sabbia, come nei Paesi in guerra ci si ripara dal nemico.
PROSEGUO :
EliminaI nipotini poi, cara Falilulela, così come possono essere la gioia degli ultimi attimi della nostra esistenza, possono diventare anche severi giudici dei nostri comportamenti. Sono quelli che sanno giudicare, liberi da pregiudizi, antipatie, invidie...loro sì, sono "puliti" dentro e sono i primi che intuiscono che aria tira intorno a loro. Prova a ricordare quanto probabilmente ti hanno stupito i tuoi figli che, ancora neonati, erano felici quando noi lo eravamo ed erano "noiosi" quando in noi qualcosa non funzionava. Tutto questo perchè è la natura, fantastica, che gli fa cogliere tutto, perfino il cambio del tono di voce. Del resto, quali nipotini, al giorno d'oggi, non si piazzano davanti ad una televisione, un PC od un videogioco...e noi magari li osserviamo felici, dietro all'angolo della stanza, felici di vederli stare bene e di essere in quel momento partecipi della loro felicità. Scusami ancora se mi sono permessa di entrare nella tua vita; io, una qualsiasi persona che spera di averti aiutato.
Condivido molte delle cose che mi hai scritto, soprattutto il discorso sui nipotini e la difficoltà di essere il/la figlio/a "di mezzo". Il tono che ho usato voleva essere ironico, semplicemente scherzoso... Sono arrabbiata e ferita, ma non con te. Essendo passata attraverso esperienze in parte simili(la difficoltà del rapporto madre/figlia) forse hai voluto indicarmi un'ottica di osservazione diversa: quella che a te ha consentito di superare il problema.
EliminaTi ringrazio per questo, anche se ogni storia, uguale per i sentimenti che provoca, risulta diversa nell'intreccio... e un abbraccio a te, alla tua Alessandra e ai nipotini.