Non mi ero mai cimentata in un romanzo a puntate, cominciato per gioco alla metà di maggio, ma dopo aver ruminato e scritto parecchio su due città, Trieste e Venezia, alle quali mi lega un rapporto ombelicale, carnale.
Città complesse, difficili, alle quali mi avvince una Storia che non è amore, è passione che ti chiede l'anima, restituendotela, se e quando lo fa, ammaccata e ferita. Noi abitanti, quella Storia, la portiamo nei cromosomi...Su Venezia è stato scritto di tutto e non mi azzarderei a confrontarmi con i mostri sacri.
Il mio approccio è di pelle, di suoni che mi sono rimasti dentro - soprattutto a Venezia, che è una città che va ascoltata, oltre che vista - e di albe, tramonti e stagioni che mutano ,cambiando l'intensità della luce che filtra nelle stanze e la qualità dell'aria, il suo odore.
Trieste mi manca sempre, oserei dire, sempre di più. Mi manca proprio ciò che più m'infastidiva: quel suo dialetto greve che è rimasto, per me, la lingua della disperazione, della rabbia e della gioia. " Voglio bene a quella bambina " è ingessato, incolore e inespressivo: vuoi mettere " Ghe voio un ben de l'anima a quela muleta "? Amore che si sente, trabocca, ma venato d'ironia, musicalità della parola che diventa canto. E la sarabanda del vento che in un carosello infernale tutto fa volare, sbattere, stridere popolando il sonno di incubi sonori...Siamo ben strani noi esseri umani! Mi manca pure quella!
Di Venezia, invece, rimpiango il sembrare più reale dell'essere, il sottile gioco dell'ambiguità che la gran signora, dimenticando come me di essere vecchia, fa cadere dall'alto fino a quando il suo riflesso nell'acqua, obbligandola a riemergere dalle sue illusioni, la ricarica della noia del reale, del suo peso, della prevedibilità, ma provocando la sua reiterata decisione di azzerarli in un battere di ciglia. Opterà sempre per la recita e la maschera: fa parte del suo Dna. Il Carnevale non era forse tutelato dalla legge, non durava per mesi e era diventato un modo di essere, non soltanto di vivere?
E così ho ambientato la mia storia in queste due città, nelle strade strette dei loro ghetti, usando un linguaggio colorato d'azzurro per descrivere foreste di alberi che crescono sull'acqua e il fruscio delle vele che sfidano il vento. Navi che scompaiono nella nebbia, per riemergere come fantasmi quando meno te l'aspetti, cariche di mercanzie e... di bugie, quelle che i marinai hanno sempre raccontato alle donne che in ogni porto, mai stanche, ne attendono il ritorno.
Il protagonista, il nobile Sigismondo, sfatto e decadente, incapace di staccarsi da un mondo che si è già staccato da lui - un mondo che va scomparendo sfaldandosi come un trucco troppo pesante su un volto decrepito - alimenta la sua vita di rimpianti. La moglie, bellissima figlia di un locandiere e dei tempi nuovi, è il futuro ed è già parte di quella borghesia emergente e indaffarata che alla festa data da Sigismndo travolgerà madrigali e minuetti con l'arroganza vitalistica e rozza dalla sarabanda e della ciga.
E' 'il nuovo che avanza ' nella Trieste della fine del Settecento che sfidava Venezia, sotto la spinta non soltanto del vento delle steppe, ma anche delle prime avvisaglie del tornado napoleonico...
Inventare, giorno dopo giorno, è una sfida non facile, credete, ma intrigante: molto intrigante.
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