Mi sarebbe piaciuta una vecchiaia più rispondente al personaggio: o amorevole, tutta torte, nipotini e storie sussurrate nelle sere fredde, quando fuori piove o nevica e la casa è una cuccia calda, oppure una vecchiaia fiammeggiante, ancora lì a protestare, a chiedere, a pretendere un mondo diverso: più corretto, più equo.
Invece la vita (?) ha deciso diversamente: la mia vecchiaia è dolente e dolorosa, ingabbiata nelle maglie strette di una patologia che non concede spazio...
Della donna che sono stata quasi nulla è rimasto: a volte mi sorprendo a fissare quella sconosciuta che da uno specchio mi sorride. Esitante. Chi sei? - le chiedo, prima di riconoscermi.; solo allora, sconsolata, la faccio entrare. La ospito nella mia casa, già sapendo che "l'ospite è come il pesce; dopo tre giorni puzza"... E convivo con il fetore. A tutto ci si abitua: ci sono giorni in cui non lo sento, anche perché la malattia, benevola, mi ha privato parzialmente dell'olfatto.
Non avrebbe potuto privarmi anche dei dubbi? ( la patologia intendo). E fare piazza pulita delle domande, no? Quelle domande che non trovano risposte, che finiamo per tacitare con risposte vaghe, illogiche, banali.
Troppa grazia! Dubbi e domande, che si alimentano gli uni delle altre e viceversa, punteggiano la mia vita solitaria come pois quel tessuto, passato di moda, che le nonne usavano per confezionare quelle tende vaporose che filtravano la luce nelle camere da letto. "Point d'ésprit" si chiamava quel tessuto, anche se, come la mia attuale vita, non aveva nulla di spiritoso.
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