I Morabito erano la famiglia più ricca del paese. Erano di loro proprietà le greggi che, riempendo l’aria di belati e digrignar di zanne dei cani da pastore, in autunno scendevano dai pascoli sul Gran Sasso chiazzando di bianco la montagna. Erano padroni delle terre a valle, abitate e coltivate dai mezzadri, dei vigneti che si arrampicavano sulle colline, dei frutteti e delle porcilaie. L’intero paese apparteneva ai Morabito e più precisamente a mio padre e a suo fratello, lo zio Checco.
Beh, lo zio Checco era una persona straordinaria e in lui tutto era insolito, originale: dal modo di vestire alle scelte di vita che l’avevano portato in giro per il mondo. Era bellissimo, nero di occhi e capelli, come diceva sua madre, e quando ritornava dai suoi viaggi in terra d’Africa, bruciato dal sole, vestito di bianco, il sorriso da eterno ragazzo sulle labbra, le donne impazzivano per lui.
Le notti estive si animavano allora nella vecchia casa di fruscii inconsueti. Nel corridoio che portava alla sua stanza scivolavano, impalpabili come ombre soltanto immaginate, figure femminili.
Girava il mondo, questo zingaro di lusso, coltissimo e curioso, mandandomi cartoline illustrate dai posti più strani dai quali faceva ritorno carico di regali dal tocco esotico. Una volta mi regalò una scimmia impagliata e dalla Cina arrivò con uno splendido aquilone di seta rossa, dalla testa di tigre che fluttuando nell’aria sembrava spalancasse la bocca per azzannare il vento.
Per noi bambini, quando sentivamo la sua voce gridare “ Ehi di casa, è così che si accoglie il figliol prodigo”, rimbombando nell’atrio in penombra che consentiva l’accesso al corridoio che portava alla cucina, era una vera e propria festa.
“ E’ un incantatore di serpenti” esclamava mia madre, aggiungendo “ li rincretinisce di fole” , ma dopo avere servito aranciata ghiacciata e dolci, si sedeva anche lei ad ascoltare assorta, mentre il sole corteggiava i picchi bianchi di neve delle montagne e le valli si riempivano d’ombra.
Quando le prime luci si accendevano nelle case, che dal terrazzo di casa nostra si dominavano con lo sguardo, la cameriera veniva ad avvertire che era pronta la cena. Arrivava anche mio padre, il panciotto di seta che s’intravvedeva sotto la giacca e l’orologio a cipolla che apriva con uno scatto metallico, borbottando: “Quando arrivi tu Checco, porti l’anarchia. Siamo in ritardo di mezz’ora sul nostro abituale orario di cena. E come se non bastasse ecciti i bambini a tal punto, con le tue storie, da far loro perdere l’appetito…” e si vedeva che era un po’ invidioso di quella vita libera che il fratello si era scelto, mentre lui si dannava con i mezzadri a controllare che non rubassero sull’olio o il vino e non facessero sparire qualche sacco di mandorle, ché lui nemmeno del suo fattore si fidava.(continua)
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