A mia nipote non leggerò Cenerentola, la storia di questa bella fanciulla che spazzando, pulendo e lustrando aspetta che "qualcuno" si accorga della sua bravura, della sua bontà e della generosità che alberga nel suo cuore, in netto contrasto con la durezza, la stupidità e la superbia della madre e delle sorellastre. Non le racconterò che una fatina un po' distratta accorrerà in suo aiuto per consentirle di andare al ballo a incontrare il suo principe e men che meno che abbandonerà i suoi stracci e le sue scope perché lui la porterà all'altare, dopo averla ritrovata facendo indossare la scarpina di cristallo a tutte, o quasi, le fanciulle da marito del Regno (della pia illusione) fino ad arrivare a lei, meschina nei suoi stracci, ma fulgida di virtù, soprattutto domestiche!
Sarebbe bello e sano per lei strutturarsi e diventare adulta senza immedesimarsi in stereotipi stantii (ma potenti), come questa "peppa lessa". Sarebbe interessante ipotizzarle una Cenerentola, che ne so, che scappa alla sera per frequentare un corso serale d'informatica, si cerca un lavoro e se ne va da casa a scoprire il mondo e anche l'amore, certamente, ma rapportandosi alla pari e non facendosi "salvare" da un improbabile principe azzurro, turchino o violetto, attratto da lei sì, ma tutta intera, audacia, intelligenza e intraprendenza comprese.
Mentre un libro si può commentare e soprattutto scegliere (e la letteratura per l'infanzia ci consente un'ampia scelta) la tv, troneggiante al centro del salotto, se venisse oscurata o scaraventata fuori dalla finestra farebbe sentire la mia nipotina diversa rispetto ai compagni di scuola e agli amici. Che fare? Stare lì accanto a lei e farle prendere il veleno a piccole dosi per immunizzarla, approfittando di ogni domanda per spiegare potenziando il suo senso critico? E' così che sono stata, mio malgrado, costretta a seguire programmi che non conoscevo. E' così che ho potuto vedere lo stereotipo femminile veicolato dalla tv. Stereotipo o archetipo di una nuova civiltà/inciviltà?. L'immagine della donna - filtrata da quello schermo spettacolo dopo spettacolo in un crescendo di sguaiatezza e volgarità, di volti pietrificati dal bisturi e bocche spalancate su penosi squittii - non riuscivo a definirla. Non reale, ma nemmeno immaginaria o virtuale. Falsa?! Come spiegare a un bambino quella falsità? Come spiegare che si mente sapendo di mentire perché l'obiettivo non è informare ma incrementre l'audience, costi quel che costi, fregandosene della responsabilità che dovrebbe assumersi chi fa e dà informazioni? Sembrebbe essere la moda corrente, ma come spiegarlo a una bambina che ha già le prime curiosità dell'adolescente che diventerà? Che senso ha eliminare i giochi di genere quando la televisione ci propina certi programmi?
Mentre leggevamo "Il complesso di Cenerentola" e "La sindrome di Biancaneve" di Colette Dowling aprendo gli occhi sugli stereotipi insiti nelle favole, Karl Popper cercava di richiamare la nostra attenzione su un pericolo più subdolo che come un Cavallo di Troia penetrava nelle nostre case senza che capissimo che avrebbe invaso ben più dei nostri salotti. Era lo strapotere televisivo che ha consegnato il Paese a Berlusconi. Ho trovato tra le mie scartoffie un articolo del '97 di Massimo Ammaniti titolato "La tv non crea mostri" scritto su Repubblica.
Oggi lo se la sentirebbe ancora di sottoscriverlo o darebbe ragione a Sir Karl Popper?
domenica 29 novembre 2009
venerdì 27 novembre 2009
Il corpo batte un colpo (2)
Penso al corpo - quello femminile soprattutto, con la superba simmetria delle sue curve, sfumate, perfette come la linea delle colline sullo sfondo del cielo, la pelle fine, setosa dei vent'anni, la geometria che la storia personale disegna sui volti un po' più maturi, velo a sbiadire la bellezza ma anche accenno a un'individualità che con gli anni si farà inconfondibile - e mi chiedo se sia possibile accostarsi a tutto ciò con angoscia, con sofferenze a volte quasi intollerabili. Sembrerebbe di sì. I canoni estetici che ingabbiano la bellezza sono mutevoli, ma perché virano in una direzione invece che in un'altra? E perché questo vale soprattutto per le donne?
Il corpo maschile che è nell'immaginario femminile l'espressione della forza non richiede un profilo perfetto, ma piuttosto una struttura che questa forza sia in grado di supportare. Forza e attitudine al comando, forse. Penso alle divise militari: cappelli, pennacchi, giacche imbottite, il tutto finalizzato a ingrandire e allungare, a dare maggior presenza fisica in funzione di una maggiore prestanza fisica.
E la donna? La moda femminile è ancora più significativa. Se escludiamo il Settecento con la leziosità dei cicisbei, espressione della decadenza di una classe (quella nobiliare)che la borghesia nascente spazzerà via, l'abito maschile non fu mai d'intoppo all'espressione della forza. Ben diverso risulta l'abito femminile che, indipendentemente dalle variazioni che assume, mantiene intatta una costante: la scomodità, esasperata fino alle estreme conseguenze. Gli esempi si sprecano: gonne lunghe a intralciare il passo, busti stretti fino a deformare la struttura dello scheletro, acconciature arzigogolate a ingabbiare i capelli e a pesare sulla testa. Ma anche i jeans a pelle della mia giovinezza, i reggiseni a balconcino, i tacchi a stiletto da dodici centimetri, lo stivaletto cinese che spezzando le dita del piede dava alle donne orientali quella particolare andatura che veniva considerata seducente. La moda sottintende il riferimento praticamente costante a due archetipi che abitano l'immaginario maschile e femminile. L'uomo seduce con la forza e l'autorevolezza, la donna seduce esasperando i canoni estetici che ne definiscono la bellezza e forse la fragilità.
Fino alle nostre nonne - e per me che sono nata nella Seconda Guerra Mondiale anche alle nostre madri - le donne avevano un obiettivo prioritario: trovare un marito e, subito dopo, avere dei figli. Un destino biologico che diventava destino sociale o tout court, destino. Il femminismo ha cambiato profondamente il mondo femminile: la donna di oggi può scegliere.
Siamo sicuri che possa scegliere?
A livello normativo non è mai stata tanto tutelata (processo breve permettendo), non è mai stata tanto libera di scegliere il proprio futuro, non ha mai avuto a disposizione una tecnologia così perfezionata per modificare il proprio aspetto fisico... Allora perché dal mondo femminile sale quel lamento di fondo, quella insoddisfazione profonda e quel disagio che trovano proprio nel corpo il bersaglio sul quale si infrangono, come onde di tempesta, le contraddizioni femminili?
Le donne oggi studiano più dei maschi e sono libere come i maschi. Ma, a livello lavorativo, hanno le stesse opportunità dei maschi? Direi di no e le "quote rosa" lo evidenziano. A parità di titolo di studio e capacità, verificate con test attitudinali, il datore di lavoro sceglie un maschio. Perché l'eventuale paternità non inciderà sul suo lavoro. Perché anche se non più destino sociale la maternità resta struttura portante della femminilità e il bambino, vero o fantasticato, una realtà con la quale le donne devono fare i conti. Esiste allora una "mistica della maternità"? Esiste un approccio alla maternità diverso da quello maschile alla paternità e molto più coinvolgente. Quindi più colpevolizzante? E in che misura ancora legato a modelli codificati dalla ripetitività di comportamenti indotti?
Ecco che il corpo torna prepotente alla ribalta come corpo materno segnato dalla gravidanza, dall'allattamento che sono o possono essere vissuti come attentati alla seduttività. Ma oggi il corpo materno è attentato anche alla carriera della donna. E quali sono le donne in carriera: quelle che hanno certi requisiti professionali o anche quelle che vengono scelte da maschi potenti soltanto per la loro bellezza? E anche qui è sul corpo che si accendono in modo nuovamente contraddittorio le luci dei riflettori.
Inoltre, mai come al giorno d'oggi tante carriere femminili consentono l'accesso solo alle donne belle o a quelle considerate tali secondo i correnti canoni estetici. All'ultimo concorso per Miss Italia ho visto sfilare ragazze con corpi identici, talmente eguali da sembrare fatte in serie. Ricordo le attrici dei miei tempi, ognuna bella in modo profondamente diverso (la Taylor, la Monroe o Sofia Loren erano diversissime), che della diversità facevano motivo d'orgoglio.
Ampliandosi le possibilità e/o le progettualità femminili nuove contraddizioni sono esplose nelle donne di oggi, mettendoci nella condizione di incominciare a capire le difficoltà che queste ragazze si trovano ad affrontare. Se poi le inseriamo in un contesto storico di crisi economica e le collochiamo in un mercato finalizzato solo al profitto e regolato ancora da comportamenti "pensati" da maschi, forse il loro disagio diventa più comprensibile e meritevole di attenzione. E anche il corpo assume un rilievo, un'importanza e un peso che giustificano la sua collocazione nuova, e il diverso approccio che anche la letteratura, con la sua intrinseca capacità di anticipare i cambiamenti all'interno della società, gli ha riservato.
Il corpo maschile che è nell'immaginario femminile l'espressione della forza non richiede un profilo perfetto, ma piuttosto una struttura che questa forza sia in grado di supportare. Forza e attitudine al comando, forse. Penso alle divise militari: cappelli, pennacchi, giacche imbottite, il tutto finalizzato a ingrandire e allungare, a dare maggior presenza fisica in funzione di una maggiore prestanza fisica.
E la donna? La moda femminile è ancora più significativa. Se escludiamo il Settecento con la leziosità dei cicisbei, espressione della decadenza di una classe (quella nobiliare)che la borghesia nascente spazzerà via, l'abito maschile non fu mai d'intoppo all'espressione della forza. Ben diverso risulta l'abito femminile che, indipendentemente dalle variazioni che assume, mantiene intatta una costante: la scomodità, esasperata fino alle estreme conseguenze. Gli esempi si sprecano: gonne lunghe a intralciare il passo, busti stretti fino a deformare la struttura dello scheletro, acconciature arzigogolate a ingabbiare i capelli e a pesare sulla testa. Ma anche i jeans a pelle della mia giovinezza, i reggiseni a balconcino, i tacchi a stiletto da dodici centimetri, lo stivaletto cinese che spezzando le dita del piede dava alle donne orientali quella particolare andatura che veniva considerata seducente. La moda sottintende il riferimento praticamente costante a due archetipi che abitano l'immaginario maschile e femminile. L'uomo seduce con la forza e l'autorevolezza, la donna seduce esasperando i canoni estetici che ne definiscono la bellezza e forse la fragilità.
Fino alle nostre nonne - e per me che sono nata nella Seconda Guerra Mondiale anche alle nostre madri - le donne avevano un obiettivo prioritario: trovare un marito e, subito dopo, avere dei figli. Un destino biologico che diventava destino sociale o tout court, destino. Il femminismo ha cambiato profondamente il mondo femminile: la donna di oggi può scegliere.
Siamo sicuri che possa scegliere?
A livello normativo non è mai stata tanto tutelata (processo breve permettendo), non è mai stata tanto libera di scegliere il proprio futuro, non ha mai avuto a disposizione una tecnologia così perfezionata per modificare il proprio aspetto fisico... Allora perché dal mondo femminile sale quel lamento di fondo, quella insoddisfazione profonda e quel disagio che trovano proprio nel corpo il bersaglio sul quale si infrangono, come onde di tempesta, le contraddizioni femminili?
Le donne oggi studiano più dei maschi e sono libere come i maschi. Ma, a livello lavorativo, hanno le stesse opportunità dei maschi? Direi di no e le "quote rosa" lo evidenziano. A parità di titolo di studio e capacità, verificate con test attitudinali, il datore di lavoro sceglie un maschio. Perché l'eventuale paternità non inciderà sul suo lavoro. Perché anche se non più destino sociale la maternità resta struttura portante della femminilità e il bambino, vero o fantasticato, una realtà con la quale le donne devono fare i conti. Esiste allora una "mistica della maternità"? Esiste un approccio alla maternità diverso da quello maschile alla paternità e molto più coinvolgente. Quindi più colpevolizzante? E in che misura ancora legato a modelli codificati dalla ripetitività di comportamenti indotti?
Ecco che il corpo torna prepotente alla ribalta come corpo materno segnato dalla gravidanza, dall'allattamento che sono o possono essere vissuti come attentati alla seduttività. Ma oggi il corpo materno è attentato anche alla carriera della donna. E quali sono le donne in carriera: quelle che hanno certi requisiti professionali o anche quelle che vengono scelte da maschi potenti soltanto per la loro bellezza? E anche qui è sul corpo che si accendono in modo nuovamente contraddittorio le luci dei riflettori.
Inoltre, mai come al giorno d'oggi tante carriere femminili consentono l'accesso solo alle donne belle o a quelle considerate tali secondo i correnti canoni estetici. All'ultimo concorso per Miss Italia ho visto sfilare ragazze con corpi identici, talmente eguali da sembrare fatte in serie. Ricordo le attrici dei miei tempi, ognuna bella in modo profondamente diverso (la Taylor, la Monroe o Sofia Loren erano diversissime), che della diversità facevano motivo d'orgoglio.
Ampliandosi le possibilità e/o le progettualità femminili nuove contraddizioni sono esplose nelle donne di oggi, mettendoci nella condizione di incominciare a capire le difficoltà che queste ragazze si trovano ad affrontare. Se poi le inseriamo in un contesto storico di crisi economica e le collochiamo in un mercato finalizzato solo al profitto e regolato ancora da comportamenti "pensati" da maschi, forse il loro disagio diventa più comprensibile e meritevole di attenzione. E anche il corpo assume un rilievo, un'importanza e un peso che giustificano la sua collocazione nuova, e il diverso approccio che anche la letteratura, con la sua intrinseca capacità di anticipare i cambiamenti all'interno della società, gli ha riservato.
giovedì 26 novembre 2009
Scherzando, scherzando...
Se c'è un uomo assai deciso
questo è il prode Calderoli
Qua si tratta di trovare in un caso cosa fare,
in un altro cosa dire
I quartieri a luci rosse a lui sembrano carini
quelle case che eran chiuse alle donne e ai bambini
lui le affida al buon Casini
che nel nome ha già il destino di allestire un bel casino.
Tv pubblica o privata?
Dice il prode Calderoli che la pubblica
è accozzaglia di programmi assai scadenti
Vespa in testa, Fede in coda,
la penisola la inchioda
a seguire quel geniaccio che
sull'intrattenimento
(e anche sull'inquadramento)
dir dobbiamo che è un portento
Ma il nostro Calderoli deve ancora fare i conti
con coloro che son pronti sul lavoro a cazzeggiare.
Dice il prode Calderoli di lasciarli a casa a oziare
ma Brunetta s'alza ritto sullo scranno
urla strepita e fa danno:
fannulloni dentro o fora?
Calderoli e il buon Brunetta
qui Disfida è di Barletta
Ma mentre il Belpaese aspetta
fannulloni dentro o fora
il Paese va in malora!
questo è il prode Calderoli
Qua si tratta di trovare in un caso cosa fare,
in un altro cosa dire
I quartieri a luci rosse a lui sembrano carini
quelle case che eran chiuse alle donne e ai bambini
lui le affida al buon Casini
che nel nome ha già il destino di allestire un bel casino.
Tv pubblica o privata?
Dice il prode Calderoli che la pubblica
è accozzaglia di programmi assai scadenti
Vespa in testa, Fede in coda,
la penisola la inchioda
a seguire quel geniaccio che
sull'intrattenimento
(e anche sull'inquadramento)
dir dobbiamo che è un portento
Ma il nostro Calderoli deve ancora fare i conti
con coloro che son pronti sul lavoro a cazzeggiare.
Dice il prode Calderoli di lasciarli a casa a oziare
ma Brunetta s'alza ritto sullo scranno
urla strepita e fa danno:
fannulloni dentro o fora?
Calderoli e il buon Brunetta
qui Disfida è di Barletta
Ma mentre il Belpaese aspetta
fannulloni dentro o fora
il Paese va in malora!
mercoledì 25 novembre 2009
Donne e violenza
Era un pomeriggio d'autunno. Pioveva, una pioggia sottile e insistente che affogava quel che restava del giorno e sembrava forare l'ombrello che la riparava. Andava a ritirare le scarpe dal calzolaio e camminava in fretta Lodovica. Non si stupì quando il ragazzo, spuntato da una stradina alla sua sinistra, il cappotto inzuppato d'acqua, il viso giovane dove gli occhi scuri avevano una luce strana, da febbre, le chiese di ripararsi sotto l'ombrello, insinuandosi sotto quel precario riparo. Lo sentì ansimare e quando le sue mani l'afferrarono stava pensando avesse corso per sfuggire alla pioggia. Aveva sedici anni Lodovica, un morosino da pochi mesi: pochi baci e tante parole, mano nella mano lungo le strade di quella cittadina tranquilla, dove tutti si conoscevano e le giornate, come la gente, avevano un che di noto nella loro ripetitività un po' monotona. Anche quel ragazzo aveva avuto l'impressione di conoscerlo... Aprì la bocca per urlare: la via, poco frequentata, era deserta. La prima casa s'intravedeva un po' più avanti e, alla sua sinistra, uno spiazzo erboso non edificato costeggiava la strada scivolando con una piccola scarpata in un terreno gonfio di erbacce tra cespugli umidi di pioggia. Le uscì un grido dalla gola contratta, sentì quelle mani che le si stringevano intorno al collo, poi il pugno e il sapore del sangue che le finiva in bocca. Mi ammazza - pensò mentre quelle mani, più decise, rafforzavano la stretta, il volto del ragazzo che sovrastava il suo. Le mancò il respiro. Agì d'istinto fingendo di piegarsi, di accettare quella bocca che cercava la sua... Lui spostò le mani sul suo corpo,e quando l'aria le scivolò lungo la gola lei alzò la gamba e lo colpì con una violenta ginocchiata al basso ventre facendogli mollare la presa. Si piegò su se stesso gemendo. Lodovica aveva perso una scarpa, ma se ne rese conto soltanto dopo alcuni minuti di una corsa pazza, il piede nudo che picchiava sul'asfalto sollevando l'acqua delle pozzanghere, il sangue che le vorticava nelle orecchie.
Al Pronto Soccorso dovettero occuparsi di sua madre che vedendo i lividi che aveva sul collo si era sentita male.
Sono passati cinque anni, Lodovica soffre di attacchi di panico, il suo assalitore non è mai stato trovato, ogni tanto di notte suona il telefono e una voce mormora:"Prima o poi, ti becco!" Alla polizia che ha messo il telefono sotto controllo risultano telefonate fatte da cabine telefoniche. Nella tranquilla cittadina d provincia qualcuno comincia a dire che Lodovica è matta, che si è inventata tutto. Non ha amiche perché temono il maniaco e i parenti borbottano: "Avrebbe fatto meglio a non denunciare... In questi casi il silenzio è d'oro!"
Al Pronto Soccorso dovettero occuparsi di sua madre che vedendo i lividi che aveva sul collo si era sentita male.
Sono passati cinque anni, Lodovica soffre di attacchi di panico, il suo assalitore non è mai stato trovato, ogni tanto di notte suona il telefono e una voce mormora:"Prima o poi, ti becco!" Alla polizia che ha messo il telefono sotto controllo risultano telefonate fatte da cabine telefoniche. Nella tranquilla cittadina d provincia qualcuno comincia a dire che Lodovica è matta, che si è inventata tutto. Non ha amiche perché temono il maniaco e i parenti borbottano: "Avrebbe fatto meglio a non denunciare... In questi casi il silenzio è d'oro!"
domenica 22 novembre 2009
Sfrattati dal paradiso
Ricordo che la prima volta in cui sentii quella frase "Eh sì ragazzi, oggi il lavoro lo dovete inventare!" ci rimuginai su, abbastanza infastidita. Prima dote richiesta la fantasia? Per svolgere un lavoro e soprattutto un lavoro creativo - pensai. Io mi muovevo allora all'interno di categorie ben definite, memore di un mondo e un'esperienza, la mia, completamente diversi. Il mercato del lavoro nel quale io ero cresciuta aveva conosciuto la realtà, oggi inimmaginabile, della piena occupazione, con conquiste sindacali ottenute da sindacati forti e agguerriti, che avevano dato al lavoratore un ampio margine di sicurezza. Nel corso di una generazione il mercato del lavoro si è trasformato in uno degli ultimi gironi dell'inferno. La televisione mostra, se e quando lo fa, solo la punta dell'iceberg: operai issati sui tetti delle loro fabbriche, sparpagliati - una manciata appena - a bloccare la partenza di un treno o il flusso del traffico su un'autostrada, rinserrati a occupare una fabbrica, appollaiati sulle gru... nel tentativo disperato di farsi sentire. E i padroni cosa fanno? Nel nostro Paese ci sono "padroncini" (molti), e padroni. Tutti si muovono nell'ottica del profitto e la fabbrica la tengono aperta fino a quando rende: se non rende più la chiudono! E la Cassa Integrazione, all'italiana maniera copre e parzialmente solo le grandi imprese che costituiscono una percentuale molto bassa della realtà imprenditoriale del Paese. E gli altri? A casa, a girarsi i pollici, a tenere i bambini e fare la spesa? Qualcuno dà fuori di matto, molti passano la giornata al bar davanti a un bicchiere, quasi tutti vanno in depressione. Il clima in famiglia si fa pesantissimo, i vecchi (con la pensione e la casa di proprietà) li tengono a galla pagando le rate del mutuo o ospitandoli, dato che dove si mangia in due si può mangiare in cinque! (per un po', ma rapidamente si scopre che non è così!) All'inizio questi uomini e donne quaranta/cinquantenni cercano lavoro, battono come segugi le agenzie di lavoro interinale. Rifiutano le prime proposte (che non soddisfano le loro competenze) fino a quando, portandosi dentro le occhiate di fastidio, le recriminazioni, le sbuffate e il disagio delle famiglie che hanno alle spalle accettano quei bocconi, quei brandelli di lavoro che le agenzie (istituzionalizzazione del caporalato) offrono loro: quindici giorni in un call center, una settimana a fare il magazziniere, tre settimane (a Natale) dietro a un bancone a fare le commesse. Poi ci sono i tempi morti, i periodi di non lavoro, in cui i pensieri si fanno ripetitivo/ossessivi, gli amici che lavorano non hanno tempo e i depressi alla lunga stancano, la moglie o il marito, e spesso pure i figli, ti guardano con occhi diversi, all'autorevolezza che vantavi si sostituisce l'autoritarismo, volano ceffoni e la trama minuta, quotidiana del vivere si tarla, si spezza. Togliere il lavoro è togliere la dignità!
Quando l'occhio indiscreto della telecamera inquadra la faccia di questi disoccupati o occupati che rischiano la disoccupazione, è lo sguardo che mi strazia, è l'umiliazione che affiora nelle parole e negli occhi che faccio fatica a sopportare e mi monta la rabbia, che è frutto dell'impotenza, e mi serpeggia dentro la paura perché queste tensioni familiari e personali cumulate, sommate diventeranno tensioni sociali. E dove andranno a parare? Questo potenziale emotivo/distruttivo prima o poi esploderà? Con quali conseguenze? La crisi toglierà dalla naftalina, come i cappotti a novembre, gli operai ridisegnandoli in componente socio/politica all'interno della società, in classe? Classe operaia?!
Doloroso però vederla ricompattarsi per discendere, sfrattata dal paradiso, a prendere possesso dell'inferno. 6H4R66FYJVB4
Quando l'occhio indiscreto della telecamera inquadra la faccia di questi disoccupati o occupati che rischiano la disoccupazione, è lo sguardo che mi strazia, è l'umiliazione che affiora nelle parole e negli occhi che faccio fatica a sopportare e mi monta la rabbia, che è frutto dell'impotenza, e mi serpeggia dentro la paura perché queste tensioni familiari e personali cumulate, sommate diventeranno tensioni sociali. E dove andranno a parare? Questo potenziale emotivo/distruttivo prima o poi esploderà? Con quali conseguenze? La crisi toglierà dalla naftalina, come i cappotti a novembre, gli operai ridisegnandoli in componente socio/politica all'interno della società, in classe? Classe operaia?!
Doloroso però vederla ricompattarsi per discendere, sfrattata dal paradiso, a prendere possesso dell'inferno. 6H4R66FYJVB4
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venerdì 20 novembre 2009
Il corpo batte un colpo
Barbara Gozzi parla di corpi e letteratura con modalità che mi colpiscono e che sento in parte mie, anche se io sono partita dal corpo (lei credo dalla letteratura) e scorrendo il suo post mi è venuta la voglia di spingermi oltre, ripensando ai libri letti ultimamente nell'ottica da lei proposta. Dove l'ho scovato, vagabondando su internet, il corpo? E in quali forme? Quella di rito, tutta muscoli al maschile e tutta curve al femminile, talmente esasperata e scontata da essere paradossalmente più disturbante che pericolosa? Anche quella, ma poi sono incappata in una zona grigia, più ambigua, dove il corpo è immagine evocata dalle parole che qui assumono una valenza significativa. Con quali parole ci si riferisce ai corpi? Carne, pelle, sangue, odorato, tatto? La pelle vince sulla carne perché è meno greve, meno corporea: è l'involucro esterno che contiene e filtra una carnalità fatta di arterie, vene, mucose, escrezioni ed escrementi. La carne si omologa verso il basso: si appiattisce sulla sessualità, la malattia, la decadenza della vecchiaia. La pelle veleggia alta verso il desiderio, la bellezza, l'amore, la sensibilità. Avverto o mi sembra di avvertire l'esigenza di una virtualizzazione del corpo resa possibile dalla tecnologia informatica che ha modificato il concetto di spazio e tempo, ma contemporaneamente ho la sensazione che sia la problematicità legata al rapporto con il proprio corpo - soprattutto nelle donne - che favorisca questa tendenza. Perchè il corpo è! E con il corpo dobbiamo fare i conti: conti che non quadrano, che sembrerebbero essere sistematicamente in rosso. Angoscianti. Più nella donna che nell'uomo perché i confini corporei che ci delimitano sono oggetto di continue modificazioni che la maternità soprattutto, ma anche la pubertà o la menopausa ci impongono. E su questo punto filtra dalla Rete
un malessere, un'angoscia, un disagio che sarebbe impossibile non cogliere.
Se lo scrittore ha, come solitamente avviene, la sensibilità per percepirla non può non affiorare nella sua narrazione e scrittura una problematica di questo tipo.
Penso a un libro letto recentemente, "Sappiano le mie parole di sangue" di Babsi Jones. La guerra che descrive, con parole per narrare e del narrare che trasudano sangue, lo stesso sangue che inzacchera il corpo violato e ferito (che fa impazzire anche la mente e sradica l'anima dai tempi e modi del vivere civile)dalle armi ma che è, prima di tutto, "carne da macello". La Jones è, come la sua scrittura, carnale fino al midollo, immersa in tutto ciò che siamo abituati a non guardare, a celare, a sottintendere e il risultato é, a mio avviso, sconvolgente. E' l'uomo/corpo che viene catapultato sulla scena, perchè la guerra è una distesa sterminata di cadaveri, come l'olocausto è odio e ferocia, ma è soprattutto sei milioni di morti uno sopra l'altro massacrati e sventrati, come ben ci mostra Jonathan Littel ne "Le benevole" o "Gomorra" di Saviano che inchioda la mafia a quell'immagine di lenzuola macchiate di sangue che misericordiose coprono corpi massacrati nei vicoli di Napoli, dalle armi della camorra. Mi passa davanti agli occhi anche "Il fantasma esce di scena" di Philiph Roth che di fronte all'aggressione che l'età sferra al suo corpo opta per l'immaterialità del fantasma, ma come scelta razionale elaborata per sottrarsi a quella ingombrante e totalizzante presenza, che il libro evoca, e che è un corpo anziano e malato, prigione feroce di una mente e "un sentire" che quel corpo condiziona e ormai nega.
Il corpo che la morale corrente ha reso libero (apparentemente) di denudarsi, di piacere e di trarre piacere da ciò che lo circonda, il mercato lo ha ingabbiato, usato e ne ha abusato riproponendo con modalità più subdole e invischianti nuove prigioni. Penso al corpo violato dall'anoressia delle modelle e penso a quello slogan che le femministe scandivano "Riprendiamoci il corpo, riprendiamoci la vita"...di cui oggi colgo, forse più di allora, la validità e l'attualità.
un malessere, un'angoscia, un disagio che sarebbe impossibile non cogliere.
Se lo scrittore ha, come solitamente avviene, la sensibilità per percepirla non può non affiorare nella sua narrazione e scrittura una problematica di questo tipo.
Penso a un libro letto recentemente, "Sappiano le mie parole di sangue" di Babsi Jones. La guerra che descrive, con parole per narrare e del narrare che trasudano sangue, lo stesso sangue che inzacchera il corpo violato e ferito (che fa impazzire anche la mente e sradica l'anima dai tempi e modi del vivere civile)dalle armi ma che è, prima di tutto, "carne da macello". La Jones è, come la sua scrittura, carnale fino al midollo, immersa in tutto ciò che siamo abituati a non guardare, a celare, a sottintendere e il risultato é, a mio avviso, sconvolgente. E' l'uomo/corpo che viene catapultato sulla scena, perchè la guerra è una distesa sterminata di cadaveri, come l'olocausto è odio e ferocia, ma è soprattutto sei milioni di morti uno sopra l'altro massacrati e sventrati, come ben ci mostra Jonathan Littel ne "Le benevole" o "Gomorra" di Saviano che inchioda la mafia a quell'immagine di lenzuola macchiate di sangue che misericordiose coprono corpi massacrati nei vicoli di Napoli, dalle armi della camorra. Mi passa davanti agli occhi anche "Il fantasma esce di scena" di Philiph Roth che di fronte all'aggressione che l'età sferra al suo corpo opta per l'immaterialità del fantasma, ma come scelta razionale elaborata per sottrarsi a quella ingombrante e totalizzante presenza, che il libro evoca, e che è un corpo anziano e malato, prigione feroce di una mente e "un sentire" che quel corpo condiziona e ormai nega.
Il corpo che la morale corrente ha reso libero (apparentemente) di denudarsi, di piacere e di trarre piacere da ciò che lo circonda, il mercato lo ha ingabbiato, usato e ne ha abusato riproponendo con modalità più subdole e invischianti nuove prigioni. Penso al corpo violato dall'anoressia delle modelle e penso a quello slogan che le femministe scandivano "Riprendiamoci il corpo, riprendiamoci la vita"...di cui oggi colgo, forse più di allora, la validità e l'attualità.
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giovedì 19 novembre 2009
Passione e desiderio
Dov'è finita la passione? E' passata di moda, non si usa più? La passione vera, che ti ingoia in un boccone, ti fa sentire la fame soltanto all'ora di cena, mentre ti stai chiedendo "Ma cosa cavolo ho mangiato a pranzo che non me lo ricordo?" e ci pensi pure su per qualche secondo prima di realizzare che sei a digiuno... Perché la passione è famelica, oggi diremmo bulimica, si nutre di sé, si sazia dell'oggetto del proprio amore. E divora.
Gli amanti spesso sono magri, quasi febbricitanti, in preda - il linguaggio è significativo direbbe Lacan - al desiderio, l'altra faccia della passione, che non è voglia, ambizione, simpatia o attrazione. E' una domanda che non può essere elusa, è tuono, boato, urlo, attesa che si fa spasmodica rendendo il tempo lento come la Quaresima. Se passione d'artista è brama di perfezione, irragiungibile ma perseguibile. E' marchio di diversità, è giogo a cui si deve sottostare. E' la schiavitù che aprirà le porte della Terra Promessa.
Circola? La cogliete in giro? O ne cogliete soltanto la recita stantia?
Ti chiede l'anima, il tuo tempo, la tua forza, il tuo talento; in cambio cosa ti dà?
Non c'è scambio: può darti tanto, poco o nulla: è un patto leonino che nessun codice regolamenta. E' dare senza avere, è fare senza chiedere, è velegggiare nei grandi spazi senza paura.
In un mondo dominato dal denaro è fuori luogo, imbarazzante, sguaiata. Imprevedibile, quindi temibile. Se non è presa a piccole gocce è un veleno. Comprata, diventa l'ombra di se stessa, il fantasma dell'Opera, la museruola per un cane, il dejà vu. Quella che ci circonda della passione vera è solo lo sbiadito ricordo.
Gli amanti spesso sono magri, quasi febbricitanti, in preda - il linguaggio è significativo direbbe Lacan - al desiderio, l'altra faccia della passione, che non è voglia, ambizione, simpatia o attrazione. E' una domanda che non può essere elusa, è tuono, boato, urlo, attesa che si fa spasmodica rendendo il tempo lento come la Quaresima. Se passione d'artista è brama di perfezione, irragiungibile ma perseguibile. E' marchio di diversità, è giogo a cui si deve sottostare. E' la schiavitù che aprirà le porte della Terra Promessa.
Circola? La cogliete in giro? O ne cogliete soltanto la recita stantia?
Ti chiede l'anima, il tuo tempo, la tua forza, il tuo talento; in cambio cosa ti dà?
Non c'è scambio: può darti tanto, poco o nulla: è un patto leonino che nessun codice regolamenta. E' dare senza avere, è fare senza chiedere, è velegggiare nei grandi spazi senza paura.
In un mondo dominato dal denaro è fuori luogo, imbarazzante, sguaiata. Imprevedibile, quindi temibile. Se non è presa a piccole gocce è un veleno. Comprata, diventa l'ombra di se stessa, il fantasma dell'Opera, la museruola per un cane, il dejà vu. Quella che ci circonda della passione vera è solo lo sbiadito ricordo.
Amour fou
Si chiedeva spesso da quale frase infelice fosse partita la discussione che l'aveva lasciata estenuata, ferita e dubbiosa. Se lo domandava ma non riusciva a darsi una risposta: loro non discutevano, monologavano misurandosi in una lotta all'ultimo sangue. Non aveva molta importanza l'oggetto del contendere: importante era il contendere. E quindi tutto sarebbe potuto andare bene.
"Divertente l'ultimo film di Woodie Allen"
"Be', un po' scontato" e l'espressione di lui era quella del puma pronto ad attaccare.
"A me è piaciuto molto: a parte la capacità di infilare una battuta dietro l'altra(che non è da tutti) mi ha colpita la capacità dell'uomo, che sta dietro al regista, di osservare il modo con distacco e... tolleranza."
Lui la guarda e lei penso che una simile occhiata non la rivolgerebbe nemmeno a una cacca pestata per strada, poi, sollevando un sopracciglio:
"A parte una certa ripetitività nelle e delle battute, il distacco e la tolleranza non sono caratteristiche del mondo ebraico... ".
Lo interrompe "Yiddish o sefardita?"
Puntigliosa.
"Yiddish" e poi guardandola "naturalmente!" prima di concludere: "Gli ebrei sono tignosi: quando si attaccano a un argomento lo sviscerano e lo rivoltano come un calzino".
Lei ci va a nozze: "Da quando in qua sei antisemita?"
"Io non sono antisemita".
"Mi è sempre sembrato strano che una persona con il tuo carattere non fosse antisemita" attacca, come un botolo ringhioso, e lui "Sono abituato a valutare i fatti o le persone in base a ciò che fanno..." Lo interrompe "Balle! Il distacco e la tolleranza di cui hai appena parlato sono un chiaro esempio di generalizzazione, indicativo del tuo modo di essere" conclude mentre lui: "Hai intenzione di litigare?"
e la voce è tagliente.
"Soltanto perché non condivido il tuo giudizio su un film?"
Lui si volta e sibila "Sai che sei str...a!"
"Passa alle offese chi non ha altri argomenti" lei butta là, ma è livida.
Erano le otto di sera, lei scodellavo la pasta con le zucchine e il formaggio.
A mezzanotte erano ancora lì a insultarsi. A lei si era bloccata la digestione: odiava lui e Woodie Allen.
"Perché non vi lasciate? Litigate dalla mattina alla sera!" Il bar profumava di croissant e di caffè. Lei piangeva: gli occhi gonfi di una notte insonne.
"Lo amo troppo, non potrei vivere senza d lui..."
Forse perché lui è l'alibi che giustifica il suo malessere?
"Divertente l'ultimo film di Woodie Allen"
"Be', un po' scontato" e l'espressione di lui era quella del puma pronto ad attaccare.
"A me è piaciuto molto: a parte la capacità di infilare una battuta dietro l'altra(che non è da tutti) mi ha colpita la capacità dell'uomo, che sta dietro al regista, di osservare il modo con distacco e... tolleranza."
Lui la guarda e lei penso che una simile occhiata non la rivolgerebbe nemmeno a una cacca pestata per strada, poi, sollevando un sopracciglio:
"A parte una certa ripetitività nelle e delle battute, il distacco e la tolleranza non sono caratteristiche del mondo ebraico... ".
Lo interrompe "Yiddish o sefardita?"
Puntigliosa.
"Yiddish" e poi guardandola "naturalmente!" prima di concludere: "Gli ebrei sono tignosi: quando si attaccano a un argomento lo sviscerano e lo rivoltano come un calzino".
Lei ci va a nozze: "Da quando in qua sei antisemita?"
"Io non sono antisemita".
"Mi è sempre sembrato strano che una persona con il tuo carattere non fosse antisemita" attacca, come un botolo ringhioso, e lui "Sono abituato a valutare i fatti o le persone in base a ciò che fanno..." Lo interrompe "Balle! Il distacco e la tolleranza di cui hai appena parlato sono un chiaro esempio di generalizzazione, indicativo del tuo modo di essere" conclude mentre lui: "Hai intenzione di litigare?"
e la voce è tagliente.
"Soltanto perché non condivido il tuo giudizio su un film?"
Lui si volta e sibila "Sai che sei str...a!"
"Passa alle offese chi non ha altri argomenti" lei butta là, ma è livida.
Erano le otto di sera, lei scodellavo la pasta con le zucchine e il formaggio.
A mezzanotte erano ancora lì a insultarsi. A lei si era bloccata la digestione: odiava lui e Woodie Allen.
"Perché non vi lasciate? Litigate dalla mattina alla sera!" Il bar profumava di croissant e di caffè. Lei piangeva: gli occhi gonfi di una notte insonne.
"Lo amo troppo, non potrei vivere senza d lui..."
Forse perché lui è l'alibi che giustifica il suo malessere?
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domenica 15 novembre 2009
Pensieri sparsi sulla scrittura
La parola, materia prima dello scrittore, è ancora per me un mistero e il modo di usarla, la combinazione capace di comunicare al meglio ciò che mi ha indotta a sceglierla mi riporta a un concetto tipico dei numeri, che è quello di infinito. Ricordo che da studentessa questo concetto matematico mi dava una sensazione di angoscia: spazi sterminati e libertà? Lungi da me! L'infinito evocava in me sensazioni di freddo, il gelo di un'alba invernale. Silenzio. Solitudine. Perché chi scrive è solo: tra lui e il mondo la distesa delle parole e la possibilità di mischiarle tra loro, intrecciandole per farne ghirlande da morto o bouquet da sposa, coltelli da macellaio o bombe a orologeria. Il collante per costruire cattedrali puntate verso il cielo o distruggere un uomo con una frase? Fantasia, tecnica e un dono o una iattura: la coazione a scrivere, che non significa scrivere bene, pagine belle e/o concetti giusti, ma dover scrivere. Significa vedere dove gli altri si limitano a guardare perché chi scrive ha accesso a un mondo parallelo che deve essere descritto, partorito, dato alla luce, diviso da sé e condiviso con gli altri in una sfida continua e all'ultimo sangue tra il reale e l'immaginifico.
Trieste e Joseph Roth
Sto rileggendo "La cripta dei cappuccini", in questi primi giorni di novembre in cui più acuta si fa la nostalgia della mia città... Tra le pagine il post che ho scritto tempo fa e che mi sento di riproporre.
Roth è un cognome ebraico che sembrerebbe inchiodare chi lo porta alla scrittura.
Joseph tra i Roth scrittori è il mio preferito, e come potrebbe essere diversamente? In lui ritrovo il rimpianto di un mondo perduto, quello stesso mondo che nel 1918, pochi giorni dopo la sconfitta, si riversò sulle bancarelle del ghetto ebraico della mia città, Trieste. I magazzini traboccarono di mobili biedermeier, cristalli di Boemia e porcellane tedesche, mentre intere biblioteche venivano messe in vendita denunciando la cultura raffinata dei funzionari austriaci, mandati da Vienna previa un’accurata selezione a reggere una delle più turbolente province dell’impero. In quella Trieste dove i morti riposano in sette diversi cimiteri e molte, troppe bandiere differenti avrebbero nei trent’anni successivi sfidato il vento a braccio di ferro, l’identità è una scelta d’appartenenza, ma legata a cosa? Al profumo di una fetta di presniz, a un nonno austriaco o croato o sloveno che aiutava a fare i compiti e raccontava favole in dialetto, a una gita in barca, a una passeggiata sul Carso quando il sommacco cambia colore o fioriscono le ginestre, e in quella terra di confine che separa l’Occidente dall’Oriente si mangiano dolci dai nomi aspri come la crudeltà che secoli di dominio turco ha inciso nei tratti e nell’anima della gente slava che vive a cavallo del confine.
Troppe chiese per pregare, troppi rancori non dichiarati, troppi dialetti, e cibi che hanno nomi impronunciabili, e donne che sono le più libere e fiere del Mediterraneo. Troppo vento e troppo azzurro in quel mare che si fonde con il cielo. Ma Trieste non amalgama, non fonde, non è certo crogiuolo (come affermava anche uno dei suoi figli più raffinati, quel Bazlen che ne traccia un ritratto fedele e accorato) di razze né di culture.
Permangono antichi e nuovi rancori, la sensibilità della decadenza, il ricordo del passato in cui ci si rifugia per non affrontare il presente, e soprattutto il futuro, che fa paura e che potrebbe non esserci.
“Viva là e po’ bon” affermano i triestini, riassumendo in questa frase il loro particolare senso del presente come unica realtà prefigurabile.
Alla nascita ti hanno dato in dono catenine d'oro e malinconia slava, superstizioni e proverbi che sono la filosofia di chi non ha avuto tempo o soldi per andare a scuola.
La sensazione di precarietà e l'ansia che ne consegue affinano l'orecchio a cogliere i segnali del crollo definitivo. Il bisogno di ordine cozza contro il desiderio di anarchia, ci si rifugia nelle certezze per poterle sbriciolare. I figli dell'Impero che ne hanno succhiato gli umori si sono intossicati dei suoi miasmi.
In Roth affiora il senso costante della perdita di un mondo e dell'acquisizione forzata, meccanica di un altro, dove colori, suoni e umori sembrano sempre fondali di cartapesta allestiti alla meno peggio per uno spettacolo in parrocchia.
Per questo Roth mi è fratello e padre.
Roth è un cognome ebraico che sembrerebbe inchiodare chi lo porta alla scrittura.
Joseph tra i Roth scrittori è il mio preferito, e come potrebbe essere diversamente? In lui ritrovo il rimpianto di un mondo perduto, quello stesso mondo che nel 1918, pochi giorni dopo la sconfitta, si riversò sulle bancarelle del ghetto ebraico della mia città, Trieste. I magazzini traboccarono di mobili biedermeier, cristalli di Boemia e porcellane tedesche, mentre intere biblioteche venivano messe in vendita denunciando la cultura raffinata dei funzionari austriaci, mandati da Vienna previa un’accurata selezione a reggere una delle più turbolente province dell’impero. In quella Trieste dove i morti riposano in sette diversi cimiteri e molte, troppe bandiere differenti avrebbero nei trent’anni successivi sfidato il vento a braccio di ferro, l’identità è una scelta d’appartenenza, ma legata a cosa? Al profumo di una fetta di presniz, a un nonno austriaco o croato o sloveno che aiutava a fare i compiti e raccontava favole in dialetto, a una gita in barca, a una passeggiata sul Carso quando il sommacco cambia colore o fioriscono le ginestre, e in quella terra di confine che separa l’Occidente dall’Oriente si mangiano dolci dai nomi aspri come la crudeltà che secoli di dominio turco ha inciso nei tratti e nell’anima della gente slava che vive a cavallo del confine.
Troppe chiese per pregare, troppi rancori non dichiarati, troppi dialetti, e cibi che hanno nomi impronunciabili, e donne che sono le più libere e fiere del Mediterraneo. Troppo vento e troppo azzurro in quel mare che si fonde con il cielo. Ma Trieste non amalgama, non fonde, non è certo crogiuolo (come affermava anche uno dei suoi figli più raffinati, quel Bazlen che ne traccia un ritratto fedele e accorato) di razze né di culture.
Permangono antichi e nuovi rancori, la sensibilità della decadenza, il ricordo del passato in cui ci si rifugia per non affrontare il presente, e soprattutto il futuro, che fa paura e che potrebbe non esserci.
“Viva là e po’ bon” affermano i triestini, riassumendo in questa frase il loro particolare senso del presente come unica realtà prefigurabile.
Alla nascita ti hanno dato in dono catenine d'oro e malinconia slava, superstizioni e proverbi che sono la filosofia di chi non ha avuto tempo o soldi per andare a scuola.
La sensazione di precarietà e l'ansia che ne consegue affinano l'orecchio a cogliere i segnali del crollo definitivo. Il bisogno di ordine cozza contro il desiderio di anarchia, ci si rifugia nelle certezze per poterle sbriciolare. I figli dell'Impero che ne hanno succhiato gli umori si sono intossicati dei suoi miasmi.
In Roth affiora il senso costante della perdita di un mondo e dell'acquisizione forzata, meccanica di un altro, dove colori, suoni e umori sembrano sempre fondali di cartapesta allestiti alla meno peggio per uno spettacolo in parrocchia.
Per questo Roth mi è fratello e padre.
sabato 14 novembre 2009
Fooooza Italia
C'era una volta una banda di ragazzini che, sgominati i rivali, scorrazzava nel quartiere. Alla loro guida un capo che era una vera carogna, ma una carogna con i fiocchi. Era costui un ragazzotto corto di gamba ma lungo di lingua. Sfoderatore di sorrisi, ammaliatore, la lacrima facile, falso fino al midollo, animato da un'ambizione divorante che lo catapultava di traguardo in traguardo goloso fino alla bulimia di tutto ciò che era d'altri: denaro, altezza, donne, onori...
Il Capo era riuscito a mettere le mani sul teatrino delle marionette della piazzetta, luogo privilegiato da quasi tutti i bambini del quartiere, dove tirando i fili dei suoi burattini in un tourbillon di scherzi volgarucci, corsi full immersion per rubare nel portafogli di mamma senza essere scoperti nonché falsificazioni di firme genitoriali (a modico prezzo)aveva finito per incantarli con la malia di un pifferaio magico. Ma il nostro aveva un cruccio:voleva più potere, ambiva a diventare il Capo dei bambini di tutto il Paese. Ma come fare? Si era già reso conto che i ragazzini che marinavano la scuola per venire a seguirlo in piazzetta non volevano storie vere, volevano sogni. E lui era un fuoco d'artificio di fantasia, lui li osservava attento mentre le sue storie vedevano emergere i mediocri, i furbetti che si alzavano poveri e alla sera si coricavano ricchi. Aveva fatto sue le pensate più stucchevoli degli adulti dal "pensare positivo" a "ultimo a scuola, primo nella vita" passando attraverso la vendita di amuleti magici, l'iniziazione a riti woodoo ma, soprattutto lui li irretiva propagandando se stesso. "Uno su mille ce la fa?". Quello era stato il suo motto, lui era riuscito dove 999 avevano fallito. Bastava far credere a quei beoti che seguendolo avrebbero conseguito gli stessi traguardi. Ma era entrato in rotta di collisione con i genitori che venivano a riprendersi i marmocchi riportandoseli a casa e vietando loro di frequentare la piazzetta. E lui aveva sfoderato tutto il repertorio del perseguitato, di quello che lotta per un ideale. Lui era lo zucchero e il miele, lui era il Paese dei balocchi, l'Isola che non c'è, l'alternativa alle lacrime e al sangue del sacrificio e della fatica.
Driin driin... Ma cosa cavolo era? La sveglia!? Solo un sogno di ragazzino?, ma lui ormai era adulto. Si affacciò alla finestra e il suo sguardo scivolò sulla fiancata del bus e lo immaginò con quel "Fooooza Italia". Si sentì dentro un rimescolio, quasi un gorgoglio in gola e nel cervello.
I sogni son desideri...
Il Capo era riuscito a mettere le mani sul teatrino delle marionette della piazzetta, luogo privilegiato da quasi tutti i bambini del quartiere, dove tirando i fili dei suoi burattini in un tourbillon di scherzi volgarucci, corsi full immersion per rubare nel portafogli di mamma senza essere scoperti nonché falsificazioni di firme genitoriali (a modico prezzo)aveva finito per incantarli con la malia di un pifferaio magico. Ma il nostro aveva un cruccio:voleva più potere, ambiva a diventare il Capo dei bambini di tutto il Paese. Ma come fare? Si era già reso conto che i ragazzini che marinavano la scuola per venire a seguirlo in piazzetta non volevano storie vere, volevano sogni. E lui era un fuoco d'artificio di fantasia, lui li osservava attento mentre le sue storie vedevano emergere i mediocri, i furbetti che si alzavano poveri e alla sera si coricavano ricchi. Aveva fatto sue le pensate più stucchevoli degli adulti dal "pensare positivo" a "ultimo a scuola, primo nella vita" passando attraverso la vendita di amuleti magici, l'iniziazione a riti woodoo ma, soprattutto lui li irretiva propagandando se stesso. "Uno su mille ce la fa?". Quello era stato il suo motto, lui era riuscito dove 999 avevano fallito. Bastava far credere a quei beoti che seguendolo avrebbero conseguito gli stessi traguardi. Ma era entrato in rotta di collisione con i genitori che venivano a riprendersi i marmocchi riportandoseli a casa e vietando loro di frequentare la piazzetta. E lui aveva sfoderato tutto il repertorio del perseguitato, di quello che lotta per un ideale. Lui era lo zucchero e il miele, lui era il Paese dei balocchi, l'Isola che non c'è, l'alternativa alle lacrime e al sangue del sacrificio e della fatica.
Driin driin... Ma cosa cavolo era? La sveglia!? Solo un sogno di ragazzino?, ma lui ormai era adulto. Si affacciò alla finestra e il suo sguardo scivolò sulla fiancata del bus e lo immaginò con quel "Fooooza Italia". Si sentì dentro un rimescolio, quasi un gorgoglio in gola e nel cervello.
I sogni son desideri...
mercoledì 11 novembre 2009
I gattopardi
E bravo Fini, dopo qualche discorso a effetto, anche lei si è seduto al tavolo dell'Imperatore, e quando le è stato chiesto di dare la zampa l'ha fatto, come un bravo cane ammaestrato. L'accordo ha partorito un gattino cieco, ma gli squilli di tromba sono stati quelli delle grandi occasioni. Sono mancati soltanto i colpi di cannone sparati per annunciare la nascita dei pargoli regali.
La durata dei processi era eccessiva? Oppla! Ora ci sarà il processo breve che non dovrà però il suo contenimento temporale alla rimozione delle cause all'origine delle lungaggini, ma a una geniale trovata dell'impareggiabile Ghedini. Se in prima istanza la durata del processo supererà i due anni, il tutto sfumerà in una bolla di sapone. Al posto di un giudice serioso e arcigno, una fatina e una bacchetta magica. Il reato scomparso come la zucca di Cenerentola allo scoccare della mezzanotte. Che sia stata lei a ispirare Ghedini, rivelandoci dell'avvocato l'animo inguaribilmente infantile? Se invece si arriverà alla condanna prima dei due anni, sarà possibile ricorrere in appello, ma anche in questo caso non dovrà essere superato il termine dei due fatidici anni. E' scontato che rispettando tale scadenza sarà possibile ricorrere in Cassazione, ma se entro due anni... stessa tiritera.
Quale sarà la conseguenza pratica? Che si pagherà a peso d'oro un avvocato perché estragga dal cappello a cilindro tutte le eccezioni, i cavilli e gli inghippi necessari per far decorrere le ventiquattro ore successive ai primi due anni. Poi, liberi come l'aria. Sì, questa legge assicura l'ingiustizia, ma - grande novità normativa - in tempi breve. D'altro canto il nostro si era stancato di aspettare ogni volta, per cavarsela, anni e anni. Però, c'è un però: per usufruirne sarà necessario essere incensurati (magari proprio grazie a condanne evitate per prescrizione dei reati). Inoltre, vogliamo fare le cose seriamente? La legge sarà applicata solo ai reati minori. Quali?
Pesco a caso: evasione fiscale, omicidio colposo, furto, scippo, sequestro di persona, stupro(da un governo come questo non mi sorprende). Quali sono i peccatucci del nostro premier? Falso in bilancio, corruzione... Be', non li ricordo tutti, ma i suoi rientrano nella lista.
Quindi riepilogando: una persona rea di corruzione, incensurata e con un ottimo avvocato, con questa legge potrà aggirare la Legge senza fare nemmeno la fatica di aspettare i tempi lunghi della prescrizione del reato. Vi ricorda qualcuno l'esempio che ho fatto?
Venghino, venghino signori, che nel Paese dei gattopardi l'unica cosa che cambia è il nome del marchingegno con il quale viene esercitato il potere.
Con la soddisfazione di coloro ai quali un ubriaco ammazzerà il figlio, investendolo, o delle donne che subiranno uno stupro se non uno scippo o un furto o un sequestro.
Ma... i partiti al governo non avevano fatto della sicurezza dei cittadini (Maroni in testa)uno degli obiettivi del loro programma di governo? O sbaglio?
La durata dei processi era eccessiva? Oppla! Ora ci sarà il processo breve che non dovrà però il suo contenimento temporale alla rimozione delle cause all'origine delle lungaggini, ma a una geniale trovata dell'impareggiabile Ghedini. Se in prima istanza la durata del processo supererà i due anni, il tutto sfumerà in una bolla di sapone. Al posto di un giudice serioso e arcigno, una fatina e una bacchetta magica. Il reato scomparso come la zucca di Cenerentola allo scoccare della mezzanotte. Che sia stata lei a ispirare Ghedini, rivelandoci dell'avvocato l'animo inguaribilmente infantile? Se invece si arriverà alla condanna prima dei due anni, sarà possibile ricorrere in appello, ma anche in questo caso non dovrà essere superato il termine dei due fatidici anni. E' scontato che rispettando tale scadenza sarà possibile ricorrere in Cassazione, ma se entro due anni... stessa tiritera.
Quale sarà la conseguenza pratica? Che si pagherà a peso d'oro un avvocato perché estragga dal cappello a cilindro tutte le eccezioni, i cavilli e gli inghippi necessari per far decorrere le ventiquattro ore successive ai primi due anni. Poi, liberi come l'aria. Sì, questa legge assicura l'ingiustizia, ma - grande novità normativa - in tempi breve. D'altro canto il nostro si era stancato di aspettare ogni volta, per cavarsela, anni e anni. Però, c'è un però: per usufruirne sarà necessario essere incensurati (magari proprio grazie a condanne evitate per prescrizione dei reati). Inoltre, vogliamo fare le cose seriamente? La legge sarà applicata solo ai reati minori. Quali?
Pesco a caso: evasione fiscale, omicidio colposo, furto, scippo, sequestro di persona, stupro(da un governo come questo non mi sorprende). Quali sono i peccatucci del nostro premier? Falso in bilancio, corruzione... Be', non li ricordo tutti, ma i suoi rientrano nella lista.
Quindi riepilogando: una persona rea di corruzione, incensurata e con un ottimo avvocato, con questa legge potrà aggirare la Legge senza fare nemmeno la fatica di aspettare i tempi lunghi della prescrizione del reato. Vi ricorda qualcuno l'esempio che ho fatto?
Venghino, venghino signori, che nel Paese dei gattopardi l'unica cosa che cambia è il nome del marchingegno con il quale viene esercitato il potere.
Con la soddisfazione di coloro ai quali un ubriaco ammazzerà il figlio, investendolo, o delle donne che subiranno uno stupro se non uno scippo o un furto o un sequestro.
Ma... i partiti al governo non avevano fatto della sicurezza dei cittadini (Maroni in testa)uno degli obiettivi del loro programma di governo? O sbaglio?
domenica 8 novembre 2009
Ancora e sempre scrittura
Il pino che scorgo dalla mia finestra trasuda acqua e la gatta, dopo aver annusato l'odore stantio che sale dalla terra inzuppata del giardino, cambia idea e rinuncia all'abituale passeggiata acciambellandosi sulla mia stampante. Dividiamo equamente due cosce di pollo e un po' di malinconia. Ieri ho scritto l'ultima puntata de I Dellapicca, iniziato qualche mese fa un po' per gioco e un po' per curiosità.
Un racconto lungo(che è diventato lunghissimo) partito dall'idea iniziale di una contrapposizione tra due città, Venezia e Trieste alla fine del Settecento. La prima - il mondo è fatto a scale - che già coglie nell'afrore dei canali che la percorrono l'odore della sua inarrestabile decadenza, la seconda che aspira a prenderne il posto nell'Adriatico, dopo essere diventata lo sbocco sul mare dell'impero austriaco. La storia è incentrata su tre figure: un nobile veneziano (rappresentante di una classe sociale corrotta, arrogante e fatua, ma anche raffinata e ancora memore della propria potenza) una triestina (poco istruita, rozza e bellissima) che ha in sé la forza e la capacità di reazione, che mancano al suo debosciato marito, nonché l'attaccamento al denaro e l'ambizione che saranno le caratteristiche della nascente borghesia triestina, e un uomo di colore, prima schiavo, poi predone, poi ambiguo socio/servo del nobile veneziano. Il rapporto che li unisce in una spirale di odio, invidia, bisogno e ammirazione ruota intorno alla donna che, pur sposando il Veneziano, porterà sempre nell'anima l'amore per il Moro e il ricordo di quell'unica notte passata con lui, ma responsabile della nascita di due gemelle.
Premetto che della storia, quando ho iniziato a scriverla, avevo in mente soltanto l'inizio e l'ho costruita quindi puntata dopo puntata. Avevo deciso che ogni puntata, essendo scritta su un blog, fosse breve(intorno alle 2000/2500 battute) e nelle mie intenzioni avrebbe dovuto mantenere una sua autonomia narrativa e concludersi suscitando nel lettore la curiosità, la voglia di leggerne il seguito. Credo di aver centrato l'obiettivo inizialmente, poi quando ho avuto l'impressione che i personaggi avessero cominciato a girare su se stessi diventando ripetitivi, ho cambiato completamente il contesto descrivendone le nuove caratteristiche (personaggi, ambiente, usi ecc.) e, dopo una successiva serie di puntate, ho fatto confluire le due storie. Sullo sfondo, a spizzico, una voce narrante: la nonna raccontava alla nipote la storia di questa antenata, ricostruita nebulosamente ritrovandone tracce sperse collegate tra loro anche col supporto della fantasia.
Ma non ha funzionato: per tutta una serie di motivi ma soprattutto perché questa scrittura - in diretta - non consente ripensamenti.
A lavoro finito cosa mi ha insegnato? Parecchio direi, soprattutto in negativo: non come fare, ma come non fare.
Tentando un riepilogo:
1 - La storia avrei dovuto averla già costruita nella sua struttura portante.
2 - Come primo tentativo non si dovrebbe andare oltre le 10/15 puntate, una sorta di racconto lungo insomma.
3 - Schede intestate ai personaggi (in alcuni punti la mia memoria ha fatto cilecca)
4 - Il romanzo a puntate richiede rispetto a quello scritto, visto e rivisto nella solitudine della propria casa, nervi molto più solidi perché lo si vive con il giudizio dato alla fine di ogni pagina, quindi il fiato sul collo del lettore turba sia quando c'è, sia quando non c'è.
5 - Credo vada scritto come scaletta per ogni puntata, prima e tutto, e solo rimpolpato di volta in volta.
6 - La suspense tenuta costantemente alta lo colloca nel feuiletton (a meno che non ci si chiami Balzac)
7 - Il blog con le sue regole(velocità, scorrevolezza...) non si presta perché non consente né approfondimenti né descrizioni particolareggiate. Quindi spunta le armi di chi scrive e richiede doti di sintesi e capacità non indifferenti. (vedi richiamo a Balzac)
8 - Preferibilmente fare perno su pochi personaggi circondati da una folla confusa che dia solo colore, quasi scenico, e appoggio ai protagonisti, senza acquisire una individualità che obblighi a perdersi in rivoli che finirebbero per togliere spessore alla narrazione.
Considerazioni positive?
Misurarsi. Sperimentare una modalità espressiva, nel mio giocare con le parole, completamente nuova. E difficile. E questa poi, a ben pensarci, la molla che ci tiene non in vita, ma vivi: prendere le misure ai nostri limiti e ricominciare da capo un po' più ricchi di esperienza e, come quasi sempre succede in questi casi, di umiltà.
Mi piacerebbe sentire il vostro parere.
Un racconto lungo(che è diventato lunghissimo) partito dall'idea iniziale di una contrapposizione tra due città, Venezia e Trieste alla fine del Settecento. La prima - il mondo è fatto a scale - che già coglie nell'afrore dei canali che la percorrono l'odore della sua inarrestabile decadenza, la seconda che aspira a prenderne il posto nell'Adriatico, dopo essere diventata lo sbocco sul mare dell'impero austriaco. La storia è incentrata su tre figure: un nobile veneziano (rappresentante di una classe sociale corrotta, arrogante e fatua, ma anche raffinata e ancora memore della propria potenza) una triestina (poco istruita, rozza e bellissima) che ha in sé la forza e la capacità di reazione, che mancano al suo debosciato marito, nonché l'attaccamento al denaro e l'ambizione che saranno le caratteristiche della nascente borghesia triestina, e un uomo di colore, prima schiavo, poi predone, poi ambiguo socio/servo del nobile veneziano. Il rapporto che li unisce in una spirale di odio, invidia, bisogno e ammirazione ruota intorno alla donna che, pur sposando il Veneziano, porterà sempre nell'anima l'amore per il Moro e il ricordo di quell'unica notte passata con lui, ma responsabile della nascita di due gemelle.
Premetto che della storia, quando ho iniziato a scriverla, avevo in mente soltanto l'inizio e l'ho costruita quindi puntata dopo puntata. Avevo deciso che ogni puntata, essendo scritta su un blog, fosse breve(intorno alle 2000/2500 battute) e nelle mie intenzioni avrebbe dovuto mantenere una sua autonomia narrativa e concludersi suscitando nel lettore la curiosità, la voglia di leggerne il seguito. Credo di aver centrato l'obiettivo inizialmente, poi quando ho avuto l'impressione che i personaggi avessero cominciato a girare su se stessi diventando ripetitivi, ho cambiato completamente il contesto descrivendone le nuove caratteristiche (personaggi, ambiente, usi ecc.) e, dopo una successiva serie di puntate, ho fatto confluire le due storie. Sullo sfondo, a spizzico, una voce narrante: la nonna raccontava alla nipote la storia di questa antenata, ricostruita nebulosamente ritrovandone tracce sperse collegate tra loro anche col supporto della fantasia.
Ma non ha funzionato: per tutta una serie di motivi ma soprattutto perché questa scrittura - in diretta - non consente ripensamenti.
A lavoro finito cosa mi ha insegnato? Parecchio direi, soprattutto in negativo: non come fare, ma come non fare.
Tentando un riepilogo:
1 - La storia avrei dovuto averla già costruita nella sua struttura portante.
2 - Come primo tentativo non si dovrebbe andare oltre le 10/15 puntate, una sorta di racconto lungo insomma.
3 - Schede intestate ai personaggi (in alcuni punti la mia memoria ha fatto cilecca)
4 - Il romanzo a puntate richiede rispetto a quello scritto, visto e rivisto nella solitudine della propria casa, nervi molto più solidi perché lo si vive con il giudizio dato alla fine di ogni pagina, quindi il fiato sul collo del lettore turba sia quando c'è, sia quando non c'è.
5 - Credo vada scritto come scaletta per ogni puntata, prima e tutto, e solo rimpolpato di volta in volta.
6 - La suspense tenuta costantemente alta lo colloca nel feuiletton (a meno che non ci si chiami Balzac)
7 - Il blog con le sue regole(velocità, scorrevolezza...) non si presta perché non consente né approfondimenti né descrizioni particolareggiate. Quindi spunta le armi di chi scrive e richiede doti di sintesi e capacità non indifferenti. (vedi richiamo a Balzac)
8 - Preferibilmente fare perno su pochi personaggi circondati da una folla confusa che dia solo colore, quasi scenico, e appoggio ai protagonisti, senza acquisire una individualità che obblighi a perdersi in rivoli che finirebbero per togliere spessore alla narrazione.
Considerazioni positive?
Misurarsi. Sperimentare una modalità espressiva, nel mio giocare con le parole, completamente nuova. E difficile. E questa poi, a ben pensarci, la molla che ci tiene non in vita, ma vivi: prendere le misure ai nostri limiti e ricominciare da capo un po' più ricchi di esperienza e, come quasi sempre succede in questi casi, di umiltà.
Mi piacerebbe sentire il vostro parere.
venerdì 6 novembre 2009
Ultima puntata de I Dellapicca
Al ritorno a casa dal funerale del Moro, Sigismondo ebbe una sgradita sorpresa: Maria gli comunicò che aveva venduto la locanda e che sarebbe andata a vivere nel paese di Blanko, tra i boschi che salivano rincorrendosi in un mare verde alle spalle del porticciolo. La figlia le aveva confidato di essersi innamorata di Zastros e di aspettare un figlio da lui.
"Perché? Ormai siamo vecchi..." aveva balbettato incredulo Sigismondo, aggiungendo " Ma come è potuto accadere? Mia figlia non sposerà mai quello slavo!"
"Lo immaginavo. Riemergono sempre in te l'arroganza e la presunzione. E' proprio questo che non voglio: che mia figlia soffra come ho sofferto io".
Sulla stanza era calato il silenzio.
"Ho riflettuto su tante cose: avrei dovuto farlo prima" aveva detto Maria, mentre aggressivo il marito le chiedeva: "Perché non lo hai fatto?"
La donna davanti a lui aveva fatto un gesto stanco con la mano: "La gente... il bisogno di sicurezza. Quale sicurezza poi? Ho tirato avanti la baracca da sola, lavorando dalla mattina alla sera..."
Poi rialzando la testa e dicendogli "Adesso ho da fare: devo raccogliere le mie cose" gli aveva lanciato un'ultima occhiata ed era uscita, le spalle dritte, il collo lungo che sosteneva la crocchia di capelli che cominciavano a imbiancare rendendo il volto ancora più chiaro e sempre bello.
"La figlia sposò Zastros, nonna?" chiese Mielita.
"No! Zastros e suo padre vennero uccisi in un agguato teso loro dai Sokol".
"E il figlio che attendeva?"
"Nacque una femmina: una bambina"
Mielita tacque pensosa. Alle sue spalle, appeso al muro, un quadro ritraeva una donna bionda, i capelli raccolti che incorniciavano il volto. Una traccia di sorriso la rendeva ancora più bella, ma soprattutto le conferiva un riserbo, una sorta di distacco, quasi la bellezza della donna che il ritratto evidenziava l'avesse isolata in uno spazio tutto suo.
La bambina accennò con il capo al quadro: "Come lo hai avuto, nonna?"
"Lo trovai da un rigattiere qui a Trieste nella città vecchia, il quartiere che aveva ospitato il ghetto ebraico. Dietro, oltre alla firma del pittore era scritto il nome della donna del ritratto: contessa Maria Dellapicca. Lo acquistai, incuriosita dal cognome che sapevo essere quello della mia bisnonna. E cominciai le ricerche: una mattina sul mio pc scoprii un sito che si chiama "Ritrovarsi e Incontrarsi"...
"Ora capisco l'accenno alla tecnologia che mi facesti iniziando il racconto. Hai trovato i discendenti di Sigismondo e Maria?"
"Be', mia cara Mielita, lo sai che io sono un'inguaribile cantastorie! Ti confesso che qualche aggiunta di fantasia me la sono concessa".
La nipote l'interruppe, poi scherzosamente si avvicinò al quadro e accostando il viso a quello della donna ritratta, chiese: "Le assomiglio?"
La nonna sorrise: un raggio di sole danzò per un istante sulla parete. Mielita aveva gli stessi occhi, azzurri e bellissimi di Maria, gli zigomi alti e il taglio degli occhi tipicamente slavi di Zastros, ma la pelle ambrata e la bocca tumida che indicavano un'ascendenza negroide sbandieravano ancora ai quattro venti il segreto che Sigismondo aveva invano cercato di cancellare e che la natura, beffarda, continuava a rivelare in quelle splendide mulatte che nascevano nella loro famiglia ogni due o tre generazioni, per ricordare, come le acque carsiche che riemergono a sorpresa quando meno te l'aspetti e nei posti più impensati, che nelle loro vene scorreva sangue d'Africa. (fine)
"Perché? Ormai siamo vecchi..." aveva balbettato incredulo Sigismondo, aggiungendo " Ma come è potuto accadere? Mia figlia non sposerà mai quello slavo!"
"Lo immaginavo. Riemergono sempre in te l'arroganza e la presunzione. E' proprio questo che non voglio: che mia figlia soffra come ho sofferto io".
Sulla stanza era calato il silenzio.
"Ho riflettuto su tante cose: avrei dovuto farlo prima" aveva detto Maria, mentre aggressivo il marito le chiedeva: "Perché non lo hai fatto?"
La donna davanti a lui aveva fatto un gesto stanco con la mano: "La gente... il bisogno di sicurezza. Quale sicurezza poi? Ho tirato avanti la baracca da sola, lavorando dalla mattina alla sera..."
Poi rialzando la testa e dicendogli "Adesso ho da fare: devo raccogliere le mie cose" gli aveva lanciato un'ultima occhiata ed era uscita, le spalle dritte, il collo lungo che sosteneva la crocchia di capelli che cominciavano a imbiancare rendendo il volto ancora più chiaro e sempre bello.
"La figlia sposò Zastros, nonna?" chiese Mielita.
"No! Zastros e suo padre vennero uccisi in un agguato teso loro dai Sokol".
"E il figlio che attendeva?"
"Nacque una femmina: una bambina"
Mielita tacque pensosa. Alle sue spalle, appeso al muro, un quadro ritraeva una donna bionda, i capelli raccolti che incorniciavano il volto. Una traccia di sorriso la rendeva ancora più bella, ma soprattutto le conferiva un riserbo, una sorta di distacco, quasi la bellezza della donna che il ritratto evidenziava l'avesse isolata in uno spazio tutto suo.
La bambina accennò con il capo al quadro: "Come lo hai avuto, nonna?"
"Lo trovai da un rigattiere qui a Trieste nella città vecchia, il quartiere che aveva ospitato il ghetto ebraico. Dietro, oltre alla firma del pittore era scritto il nome della donna del ritratto: contessa Maria Dellapicca. Lo acquistai, incuriosita dal cognome che sapevo essere quello della mia bisnonna. E cominciai le ricerche: una mattina sul mio pc scoprii un sito che si chiama "Ritrovarsi e Incontrarsi"...
"Ora capisco l'accenno alla tecnologia che mi facesti iniziando il racconto. Hai trovato i discendenti di Sigismondo e Maria?"
"Be', mia cara Mielita, lo sai che io sono un'inguaribile cantastorie! Ti confesso che qualche aggiunta di fantasia me la sono concessa".
La nipote l'interruppe, poi scherzosamente si avvicinò al quadro e accostando il viso a quello della donna ritratta, chiese: "Le assomiglio?"
La nonna sorrise: un raggio di sole danzò per un istante sulla parete. Mielita aveva gli stessi occhi, azzurri e bellissimi di Maria, gli zigomi alti e il taglio degli occhi tipicamente slavi di Zastros, ma la pelle ambrata e la bocca tumida che indicavano un'ascendenza negroide sbandieravano ancora ai quattro venti il segreto che Sigismondo aveva invano cercato di cancellare e che la natura, beffarda, continuava a rivelare in quelle splendide mulatte che nascevano nella loro famiglia ogni due o tre generazioni, per ricordare, come le acque carsiche che riemergono a sorpresa quando meno te l'aspetti e nei posti più impensati, che nelle loro vene scorreva sangue d'Africa. (fine)
giovedì 5 novembre 2009
Bla, bla, bla
Nella carrozza la sua voce querula, con un filo di affettazione riusciva a superare il boato del treno in corsa. Si era attaccata al telefonino come una zecca alla pelle.
Rideva, fasulla.
"Come dici?" Mi sembrava impossibile che qualcuno riuscisse, anche per un solo istante a farla tacere. Infatti!
"No, domani non esisto: voglio comperare una maglietta leopardata, sì leopardata, hai sentito benissimo: non mi ci vedi? E invece mi ci vedrai. Devi andare? Capisco, ci sentiamo".
Le si sarà asciugata la lingua? Trillo imperioso: s'ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra... Be', da un po' a sinistra non risponde nessuno, penso, e tento di appisolarmi, fatta su nel cappotto che mi avvolge.
"Sì mamma sono io. Chi vuoi che sia?"
Questa è la madre.
"No, mamma; la cotoletta di sera mi resta sullo stomaco. Se il treno ritarderà? Per chi mi hai preso: per una veggente? Non mi interessa il tuo programma tv: guardati quello che vuoi. No, non occorre che venga papà a prendermi... ma certo che ho la valigia. Mi metto la roba nel fagotto, me lo piazzo in testa e poi ancheggiando scendo dal treno e sfilo lungo il binario? Mamma viene Franco a prendermi, anzi adesso ti lascio perchè devo avvertirlo. Infastidita "Ciao mamma,ciao" e non gorgheggia più. Spero nuovamente che taccia.
"Ciao amore, cosa fai? Be' non occorre essere maleducati. Comunque" sostenuta "il treno ha sei minuti di ritardo: arriverà alle otto e cinquantadue. Settimana infernale. Ora ti racconto: te la ricordi la Rosy? Quella st...za che era in classe con la sorella della morosa di tuo fratello? Be, l'hanno assunta, sembrerebbe a tempo indeterminato... Come non assumono nessuno? Lei sì! Per me è andata a letto con il Capo del Personale..."
Quando mi alzo e le passo davanti per cambiare vagone, maldestramente a causa di uno scossone del treno le urto il gomito. Il telefonino le cade, mentre io seguo l'arco che disegna e mi preparo. Quando tocca terra allungo la gamba: vorrei schiacciarlo fino a sentirlo scricchiolare sotto il mio tacco. Emettere una sorta di guaito meccanico. Non oso.
Lei è, o sembra, costernata: vorrebbe parlare, ma grazie a Dio è finalmente afona a furia di produrre saliva.
Perché comportarsi in questo modo? Perché salire sul palcoscenico dando vita a quello streotipo femminile: complice con l'amica, insofferente al controllo materno, seducente/aggressiva con il compagno? Mi sono chiesta ascoltandola quanto fosse faticoso. E quanto rassicurante.
E quanto la tecnologia evidenziasse i bisogni. Il desiderio di comunicare, di socializzare non è cambiato: è cambiata la modalità della comunicazione.
Con quali conseguenze?
Rideva, fasulla.
"Come dici?" Mi sembrava impossibile che qualcuno riuscisse, anche per un solo istante a farla tacere. Infatti!
"No, domani non esisto: voglio comperare una maglietta leopardata, sì leopardata, hai sentito benissimo: non mi ci vedi? E invece mi ci vedrai. Devi andare? Capisco, ci sentiamo".
Le si sarà asciugata la lingua? Trillo imperioso: s'ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra... Be', da un po' a sinistra non risponde nessuno, penso, e tento di appisolarmi, fatta su nel cappotto che mi avvolge.
"Sì mamma sono io. Chi vuoi che sia?"
Questa è la madre.
"No, mamma; la cotoletta di sera mi resta sullo stomaco. Se il treno ritarderà? Per chi mi hai preso: per una veggente? Non mi interessa il tuo programma tv: guardati quello che vuoi. No, non occorre che venga papà a prendermi... ma certo che ho la valigia. Mi metto la roba nel fagotto, me lo piazzo in testa e poi ancheggiando scendo dal treno e sfilo lungo il binario? Mamma viene Franco a prendermi, anzi adesso ti lascio perchè devo avvertirlo. Infastidita "Ciao mamma,ciao" e non gorgheggia più. Spero nuovamente che taccia.
"Ciao amore, cosa fai? Be' non occorre essere maleducati. Comunque" sostenuta "il treno ha sei minuti di ritardo: arriverà alle otto e cinquantadue. Settimana infernale. Ora ti racconto: te la ricordi la Rosy? Quella st...za che era in classe con la sorella della morosa di tuo fratello? Be, l'hanno assunta, sembrerebbe a tempo indeterminato... Come non assumono nessuno? Lei sì! Per me è andata a letto con il Capo del Personale..."
Quando mi alzo e le passo davanti per cambiare vagone, maldestramente a causa di uno scossone del treno le urto il gomito. Il telefonino le cade, mentre io seguo l'arco che disegna e mi preparo. Quando tocca terra allungo la gamba: vorrei schiacciarlo fino a sentirlo scricchiolare sotto il mio tacco. Emettere una sorta di guaito meccanico. Non oso.
Lei è, o sembra, costernata: vorrebbe parlare, ma grazie a Dio è finalmente afona a furia di produrre saliva.
Perché comportarsi in questo modo? Perché salire sul palcoscenico dando vita a quello streotipo femminile: complice con l'amica, insofferente al controllo materno, seducente/aggressiva con il compagno? Mi sono chiesta ascoltandola quanto fosse faticoso. E quanto rassicurante.
E quanto la tecnologia evidenziasse i bisogni. Il desiderio di comunicare, di socializzare non è cambiato: è cambiata la modalità della comunicazione.
Con quali conseguenze?
mercoledì 4 novembre 2009
Parole
Quando i tuoi occhi che tutto hanno guardato
per vedere dovranno inventare
allora
soltanto allora,
nelle sere che la notte ingoia nell'oblio
e il silenzio incanta,
potrai prendere in mano la penna
e
la parola,
mare
per farti affogare,
sarà marea per portarti
a riva
per vedere dovranno inventare
allora
soltanto allora,
nelle sere che la notte ingoia nell'oblio
e il silenzio incanta,
potrai prendere in mano la penna
e
la parola,
mare
per farti affogare,
sarà marea per portarti
a riva
lunedì 2 novembre 2009
Principesca solitudine
La sera scendeva sontuosa e il mare si macchiava di rosso all'orizzonte, là dove si fondeva con il cielo. Come muore il giorno nelle terre che non si affacciano sul mare? - si chiese. La sera successiva l'avrebbe vista orfana di tanta bellezza.
La casa era una distesa di scatoloni sigillati: avevano cenato a panini e frutta, la gatta che si aggirava stranita miagolando il suo disagio.
Alle sue spalle il Carso puntava ardito verso il cielo, i viottoli polverosi che costeggiavano le doline e i vigneti dalle piante piccole, contorte da un vento che spadroneggia, rubando beffardo quel po' di terra strappata alla roccia. L'aspettava una terra grassa e ricca: vigneti ad altezza d'uomo e campi verdi di erba medica...
Qual è il suono di un'aria senza vento? Nella sua città il vento era una presenza, aveva mormorato sul sagrato della chiesa quando si era sposata, figurina di Chagall immortalata in una foto sul punto di volar via, il cappotto a ruota color albicocca gonfio come una mongolfiera... Anche Chagall, senza vento, come avrebbe fatto volare i suoi innamorati? Nelle sere in cui il suo urlo zittiva la città, aveva dato l'avvio, rendendolo protagonista, alle storie più truculente "Era una notte cupa e il vento - come questa sera - ululava sinistro..." Gli occhi dei bambini spalancati come stelle. Che storie avrebbe raccontato senza quel canto a due voci di mare e vento? Con la figlia minore, collezionista nata come lei, avevano raccolto conchiglie e sassi levigati dall'acqua e nei disegni dei bambini che tappezzavano la cucina, l'azzurro dominante si era animato di vele, di stelle di mare, di pesci e mostri marini.
Il mattino seguente si alzò prestissimo e uscì sul terrazzo; il mare lo sentiva, ma non lo vedeva: nascosto nelle pieghe della notte profumava di salmastro. Rimase in attesa fino a quando a Oriente il cielo cominciò a schiarire. Prima debolmente, solo un chiarore sfocato, un brillio che aumentava baldanzoso. Anche nei suoi occhi si accendeva una luce.
Le rocce emersero chiare dal buio, si spensero le stelle e andò sbiadendo la luna. Il paesaggio acquistava i rassicuranti contorni di sempre mentre una manciata di gabbiani si gettava in picchiata sull'acqua e i loro stridii fendevano l'aria. Liberi. Qualcosa acquistava contorni precisi anche dentro di lei.
L'alba, sgominate le ultime ombre, esplodeva; il mare non era più color piombo. Il colore della tristezza. Il sole si levava alto nel cielo. Perché le veniva in mente il sole dell'avvenire? "Sole che sorgi, libero..." Il vento spazzava via le nuvole rubandole i pensieri: sul mare una vela bianca solitaria, spersa in quell'azzurro che la circondava, disegnava un triangolo di solitudine: una principesca solitudine.
Il vento s'intrufolò nella cucina che l'alba illuminava quando incominciò a vuotare uno scatolone dietro all'altro facendoli volare nell'aria tersa del mattino.
La casa era una distesa di scatoloni sigillati: avevano cenato a panini e frutta, la gatta che si aggirava stranita miagolando il suo disagio.
Alle sue spalle il Carso puntava ardito verso il cielo, i viottoli polverosi che costeggiavano le doline e i vigneti dalle piante piccole, contorte da un vento che spadroneggia, rubando beffardo quel po' di terra strappata alla roccia. L'aspettava una terra grassa e ricca: vigneti ad altezza d'uomo e campi verdi di erba medica...
Qual è il suono di un'aria senza vento? Nella sua città il vento era una presenza, aveva mormorato sul sagrato della chiesa quando si era sposata, figurina di Chagall immortalata in una foto sul punto di volar via, il cappotto a ruota color albicocca gonfio come una mongolfiera... Anche Chagall, senza vento, come avrebbe fatto volare i suoi innamorati? Nelle sere in cui il suo urlo zittiva la città, aveva dato l'avvio, rendendolo protagonista, alle storie più truculente "Era una notte cupa e il vento - come questa sera - ululava sinistro..." Gli occhi dei bambini spalancati come stelle. Che storie avrebbe raccontato senza quel canto a due voci di mare e vento? Con la figlia minore, collezionista nata come lei, avevano raccolto conchiglie e sassi levigati dall'acqua e nei disegni dei bambini che tappezzavano la cucina, l'azzurro dominante si era animato di vele, di stelle di mare, di pesci e mostri marini.
Il mattino seguente si alzò prestissimo e uscì sul terrazzo; il mare lo sentiva, ma non lo vedeva: nascosto nelle pieghe della notte profumava di salmastro. Rimase in attesa fino a quando a Oriente il cielo cominciò a schiarire. Prima debolmente, solo un chiarore sfocato, un brillio che aumentava baldanzoso. Anche nei suoi occhi si accendeva una luce.
Le rocce emersero chiare dal buio, si spensero le stelle e andò sbiadendo la luna. Il paesaggio acquistava i rassicuranti contorni di sempre mentre una manciata di gabbiani si gettava in picchiata sull'acqua e i loro stridii fendevano l'aria. Liberi. Qualcosa acquistava contorni precisi anche dentro di lei.
L'alba, sgominate le ultime ombre, esplodeva; il mare non era più color piombo. Il colore della tristezza. Il sole si levava alto nel cielo. Perché le veniva in mente il sole dell'avvenire? "Sole che sorgi, libero..." Il vento spazzava via le nuvole rubandole i pensieri: sul mare una vela bianca solitaria, spersa in quell'azzurro che la circondava, disegnava un triangolo di solitudine: una principesca solitudine.
Il vento s'intrufolò nella cucina che l'alba illuminava quando incominciò a vuotare uno scatolone dietro all'altro facendoli volare nell'aria tersa del mattino.
Alda Merini
Abitavamo nella stessa zona, a Milano. Mi capitò un giorno d’incontrarla e salutarla, intimidita e con un certo impaccio. In lei il rifiuto della normalità era obbligo, non scelta. Di Alda Merini ricorderò gli occhi dove dilagava la sciagura, la iattura di essere agnello in un mondo di lupi, e lo sguardo che scivolava sull’interlocutore smarrendosi in altri luoghi, lontani e inviolati, di cui portava nell’anima la meraviglia e sulle spalle il peso. Destinata a descrivere le offese filtrandole in chiare luci di cristallo in prigioni dimenticate, si privò – fu privata? - di ogni difesa.
La guardai avanzare a fatica sul marciapiede sconnesso dei Navigli. Non osai fermarla.
Sontuosamente “diversa”… vestì il dolore di abiti regali, di leggerezza e di bellezza.
Non la dimenticheremo.
La guardai avanzare a fatica sul marciapiede sconnesso dei Navigli. Non osai fermarla.
Sontuosamente “diversa”… vestì il dolore di abiti regali, di leggerezza e di bellezza.
Non la dimenticheremo.
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