martedì 30 giugno 2009

I Dellapicca

La porta si spalancò e Sigismondo entrò di prepotenza, le mani che gli tremavano, mentre il suo sguardo scivolava sulla levatrice che, impacciata, borbottò qualcosa d’incomprensibile.
Teresina non si voltava, immobile, la testa china sui due fagotti dai quali provenivano quei lamenti simili al pigolio di un pulcino. Nel disordine delle lenzuola, sfigurata dallo sforzo del parto, giaceva Maria. L’uomo si avvicinò alla serva chiedendo: “Sono maschi?”mentre con la mano scostava il panno in cui erano avvolti per guardarli. Teresina mormorò “Femmine” con una strana esitazione nella voce, non osando nemmeno alzare gli occhi sul padrone.
Il volto del Veneziano, quando lo rialzò, era livido. Sulla stanza calò un silenzio minaccioso, appena incrinato da quel pigolio infantile. Poi senza degnare nemmeno di uno sguardo la moglie si rivolse a Teresina.” Vieni con me!” le ordinò, perentorio, facendole cenno di riconsegnare le neonate alla levatrice.
La serva obbedì sollecita e tremante, seguendo il padrone che apriva la porta per uscire dalla stanza.
La levatrice emise un sospiro di sollievo e si avvicinò alla donna che giaceva silenziosa sul letto, adgiandole accanto le neonate: una chiara come la madre, una peluria dorata a incorniciarle il viso rotondo ancora un po’ tumefatto dal parto, l’altra la pelle nera come la notte e gli occhi scuri.
“ Anima mia, ma proprio con un negro dovevate tradirlo vostro marito? Questi sono peccati che non si possono nascondere.”
Maria non rispose, lo sguardo che scivolava, sgomento, sulle figlie.
(continua...)

lunedì 29 giugno 2009

Legami

Mi alzo dolorante, ogni muscolo che sembra volersi muovere per conto suo quasi a riflettere l’anarchia delle mente, insofferente a regole e confini. Metto la moka sul fuoco, mi riempio la tazza di caffè e accendo il computer. E’ un’abitudine, ormai. Per me, che vivo sola e che, ogni tanto, rimpiango il balcanico disordine che si muoveva intorno ai miei tre figli, in quelle case piene di libri, giocattoli, urla e risate, in quella vita snervante al servizio di tutti, è un modo come un altro di tenere a bada la solitudine. Mentre aspetto, l’occhio mi cade sull’agenda dalla quale sporge l’angolo di un foglio. Sarà un appunto da ricordare? La memoria ogni tanto fa scivolar via qualcosa, come un colabrodo la pastina minuta.
Apro il foglio: disseminato di cuoricini rossi, reca scritto “Il me corazon batte per te”.
E’ di Martina, mia nipote.
E’ una goccia d’amore, ma basta a riconciliarmi con la vita.

I Dellapicca ( Il parto)

La giovane donna, avvinghiata alla poltrona, fissava quella macchia scura che si andava allargando sulla gonna.
“ Oh Madonna benedetta, oh Gesù Maria…” strillava Teresina, mentre Maria si inarcava sotto la spinta di un’altra doglia sussurrando: “ Chiama il padrone e la levatrice…” e poi , vedendo che la domestica non si muoveva, alzando la voce: “ Muoviti! Va, vai…” le gridava, prima di ripiombare sullo schienale, le mani arpionate al ventre e gli occhi vitrei di dolore e paura.
Aveva la sensazione di essere azzannata alle reni da un animale feroce: il dolore arrivava a ondate, s’impossessava di lei, scendeva dai fianchi alle cosce, invadeva il ventre. Poi si ritirava, veloce come una marea, lasciandola per alcuni minuti spossata e intontita prima di riafferrarla, come una foglia in balia del vento, sbattendola a destra e manca a suo piacimento. Perché nessuno veniva ad aiutarla? Dov’era finita la domestica? Mentre il dolore la riafferrava, sentì confusamente dei passi lungo il corridoio e, subito dopo, due braccia solide che  la sollevavano, adagiandola sul letto.
Aprì gli occhi e vide il marito che, chino su di lei, apriva la bocca per parlare, riuscendo a dirle soltanto “Stai calma, andrà tutto bene” prima di essere sbattuto fuori dall’ostetrica in modo brusco.
“ Non è posto per uomini, questo. Poteva pensarci prima! Ora non è di voi che ha bisogno” concluse la donna mentre le sue mani si muovevano sicure sul corpo della partoriente.
“ Sta per nascere?” sussurrò Maria e la donna davanti a lei scosse il capo, dicendo: “E’ soltanto l’inizio e lei ne deve scodellare due…Si faccia forza, siamo appena al’inizio ”
“ E’ sicura!”
“ Sento due testoline e sono anche belli grossi…”
Maria cacciò un urlo.
“ Urlare non le servirà a nulla; risparmi le forze” disse l’ostetrica, aggiungendo “ Arriva l’acqua calda?”, mentre uno scalpiccio di passi precedeva l’ingresso della serva che portava un catino pieno d’acqua.
Poi sulla stanza calò il silenzio che, a intervalli sempre più ravvicinati, veniva rotto dai lamenti della ragazza, dalle sue invocazioni d’aiuto e dalle risposte secche della levatrice, che seduta accanto al letto, controllava la situazione con la calma autorevolezza di un capitano sul ponte di comando.
Le ore passavano lente. Ogni tanto dalla porta socchiusa faceva capolino Sigismondo, il volto teso, la bocca chiusa e un’espressione interrogativa nello sguardo che non aveva bisogno di parole. L’ostetrica scuoteva il capo e la porta si richiudeva.
Maria spossata, fradicia di sudore, si lamentava ormai quasi ininterrottamente, mentre le doglie si susseguivano senza concederle tregua, e le ombre della sera invadevano la stanza e Teresina accendeva le candele, borbottando preghiere.
“ Morirò!” La voce della ragazza si levò, alta e chiara, nella stanza.
“ Non dite sciocchezze, cercate di farvi forza…” le rispose la levatrice, sentendo che un brivido le percorreva la schiena,e la serva, che piangendo istericamente, sussurrava: “L’ha sempre detto che sarebbe morta di parto, la mia padrona l’ha sempre detto”.
“ Fate silenzio! Bell’aiuto siete per la vostra padrona: qui non morirà nessuno…Stiamo calmi”
Si tolse dalla tasca una bottiglietta e ne versò alcune gocce su un cucchiaio che fece scivolare tra le labbra della partoriente.
“ Forza Teresina che adesso si balla. Mettetele le mani sul ventre e, quando ve lo dirò io, premerete con tutte le vostre forze…”
Maria spalancò gli occhi, un urlo strozzato nella gola.
“ Spingi”
Altro urlo.
“ Spingi Teresina, spingi…Maria spingi anche tu”
Lamenti, invocazioni, singhiozzi e “ Spingi, spingete..”
Altro urlo, da animale ferito, azzannato.
“ Spingete, vedo la testolina, ci siamo…”
Un pianto di neonato si levò stizzito.
“ E’ una bellissima bambina”
“ Arriva il secondo. Forza! Spingete, questo è più piccolo….”
“ Spingete! Spingete di più. Eccolo!”
Altro pianto di neonato.
Poi silenzio, innaturale.
Maria spossata aprì gli occhi: i bambini tra le braccia di Teresina.
“ Ecco perché non voleva farli nascere!” e la voce della levatrice aveva un timbro strano, secco mentre il battere di nocche sulla porta aumentava d’intensità.
All’interno della stanza nessuno diceva “Avanti”.
(continua...)

domenica 28 giugno 2009

I Dellapicca

Sigismondo stava entrando in quell'età della vita in cui, pur avendo noi ancora tutte le caratteristiche della giovinezza, lo sguardo ci cade su chi, fino a quel momento ignorato, quasi non visto, più giovane non è. E ci si ferma a parlare, ad ascoltare, percependo che è scattata la curiosità, fino al giorno in cui si sbotta con quel ”Voi giovani”che, nell'asprezza con cui lo pronunciamo, già evidenzia il rimpianto e la rabbia che sono propri di tutti gli esclusi. Inizia allora quel volgersi indietro, quella nostalgia del passato, il cui tempo si sta divorando, sempre più goloso, il nostro futuro. Quale aggancio più valido per ancorarvisi, al futuro, del mettere al mondo un figlio, per marcare quel territorio, ancora inesplorato e che forse non vedremo, con un segno, una presenza che si porti dentro qualcosa di noi?
E così Sigismondo, ormai quarantenne, ingravidò la moglie, accogliendo con grande soddisfazione la notizia che sarebbe diventato padre. Maria non sembrò altrettanto contenta. I primi mesi di gravidanza furono orribili: le nausee mattutine non le davano tregua. Si alzava pallida come uno spettro, ma non gli preparava più la colazione perché il profumo del caffè la nauseava. Si sedeva accanto alla finestra, gli occhi, che il viso smagrito rendeva enormi, quasi sbarrati sul mare come fosse in attesa di qualcosa o qualcuno. Quando il marito le si avvicinava, si ritraeva, e solo allora Sigismondo ritrovava quel sorriso enigmatico che aveva inchiodato, quando l'aveva conosciuta, la sua attenzione.
Si era rivolto allo speziale migliore della città, che le aveva somministrato misteriose tisane per attenuare i suoi disturbi, senza ottenere il minimo risultato, ma contribuendo a aumentare l’ansia di Sigismondo con la notizia che, probabilmente, il parto sarebbe stato gemellare. L’uomo aveva scosso il capo preoccupato, dicendo: ”Con quei fianchi esili come un giunco avrebbe faticato a fare un figlio, non so proprio come riuscirà a portare a termine una duplice gravidanza e a partorirne due…” “ Ma non si potrebbe fare qualcosa?” “ Pregare” aveva risposto lo speziale e Sigismondo, borbottando, l’aveva pagato, accompagnandolo alla porta.
L’estate era passata, cambiando la luce che, ora, dava corposità all’infinita gamma dei rossi, dei gialli e degli aranciati che macchiavano le colline a ridosso della città. La bora, che aveva ripreso a soffiare, bora scura portatrice di tempesta, ululava da qualche giorno, infilandosi in ogni fessura, facendo scricchiolare, vibrare, dondolare tutto ciò che sfiorava, in una sarabanda che da sempre alimentava e giustificava la superstizione e la passione per il mistero e i fantasmi degli abitanti della città.
Maria, tonda come una vela gonfia di vento, sprofondata sulla poltrona più comoda, si lagnava del tempo, del bambino – che si ostinava a considerare unico - della bora, chiamando in continuazione Teresina che, sbuffando, in dialetto le gridava: “ Sto cusinando, la gabbi pazienza” poi “ Rivo, rivo…” quando la padrona, lamentosa, ricominciava con quel “Teresina, Teresina…” che invadeva le stanze della casa e aveva il timbro angosciato di un singhiozzo. Ma quel giorno l’urlo che invase la casa, quel “Teresina, aiutami!” strozzato e seguito da un mugolio di animale ferito, fece rabbrividire e accorrere immediatamente la serva che, lasciando cadere il pentolame che stava lavando, uscì dalla cucina, precipitandosi lungo il corridoio, gli zoccoli che battevano sul pavimento come colpi forsennati di martello.xiyc5qyxiq

Il fantasma esce di scena

Il grande Philip Roth riappare sulla scena, inquietante come un fantasma, il fantasma di se stesso.
Perché cos’è un uomo che la vecchiaia ha aggredito e vinto se non l’immagine sfocata di ciò che è stato? La sessualità è un ricordo che si fa di giorno in giorno più sbiadito, l’aggressività è scomparsa sperperata in mille battaglie inutili, spesso asservita al gioco sessuale per colpire la fantasia di una donna o per sentirsi potenti quando l’impotenza avrebbe richiesto uno sforzo di fantasia, non l’opposto.
Il protagonista non è l’autore, settantenne, acciaccato, incontinente, che è solo pretesto per descrivere l’ultima fase della vita, quella in cui tutto è insulto, quasi a rendere la fine liberatoria, un alzare bandiera bianca alla morte, diventata finalmente più attraente della vita.
Ironico, caustico, pervaso di malinconia aspra, che aggredisce come solo la cultura ebraica sa fare in una descrizione minuta, da cesello, di caratteri che emergono, sbalzati, dalla sua penna, precisi e inconfondibili, e che sono quelli che ci circondano, ci opprimono, ci eccitano e ci infastidiscono, perché la messa a fuoco è perfetta e il dolore, la rabbia , il rimpianto, da lui provati, ce li regala scontroso, senza volere ringraziamenti, né gratitudine, soltanto per dare loro un senso, o illudersi, per l’ultima volta, di darlo.
Quale titolo, per questo splendido libro, migliore de “Il fantasma esce di scena”?
Grande, grande, grandissimo Philip Roth!

venerdì 26 giugno 2009

I Dellapicca

Il Moro era partito e questa volta il viaggio sarebbe stato più lungo e pericoloso: cercava mercanzia da acquistare a buon mercato e da rivendere a Trieste. Era riuscito a convincere Sigismondo che non aveva condiviso il suo entusiasmo per la nuova impresa, anche perché senza il socio, che trattava pur sempre con condiscendenza, il Veneziano si sentiva perso. La giovane e bellissima moglie gli era già venuta a noia. Una volta ottenuto ciò che voleva, soddisfatta quella sua ingordigia di femmine, la sua incapacità di amare qualcuno al di là del suo egocentrismo era riemersa e lui non aveva fatto nulla per nasconderla. Maria, che a sua volta l’aveva sposato spinta dall’ambizione della madre, si era resa conto ben presto di avere sposato un uomo inconsistente, capriccioso come un bambino, anche lui abbagliato dalla sua bellezza che si stava rivelando per lei una vera e propria iattura, uno schermo al di là del quale c’era una donna che nessuno sembrava voler né conoscere, né capire. Il marito le aveva affiancato una servetta, una ragazzina che veniva da una famiglia numerosa con troppe bocche da sfamare e Maria si era affezionata a Teresina che era rapidamente diventata la sua confidente. La moglie del Veneziano, abituata a lavorare duramente, aveva preso subito in mano le redini della casa e il controllo del magazzino di cui il marito, abituato a stare a letto fino a tardi e a girovagare a vuoto la sera, si occupava in modo discontinuo, preferendo passare le ore nel suo studio a leggere o dietro a qualche gonna. Era ancora un bell’uomo anche se intorno agli occhi gli s’infittiva un reticolo di rughe e i baffi e la barba, che si radeva ogni mattina, incominciavano a ingrigire. Invecchiando, il rimpianto per la sua città si era fuso aggrovigliandosi alla nostalgia per la vita che aveva fatto e per l’uomo che era stato. In realtà, come tutti, aveva selezionato i ricordi a supporto dell’idea di sé che aveva deciso di avere e l’uomo, che riteneva essere stato, esisteva ormai soltanto nella sua fantasia e nei suoi desideri: un fantasma inconsistente, ma capace di condizionarlo e turbarlo con l’innegabile forza di uno spettro.
A mezzogiorno, quando si alzava dal letto e si affacciava alla finestra, quella distesa azzurra, inondata di sole o grigio riflesso di nuvole gonfie di pioggia, lo aggrediva infastidendolo. Sì, lui si sentiva aggredito da quella natura tracotante, irrispettosa: odiava la bora, il suo sibilo che diventava urlo, raffica incontenibile. Odiava quel mare che il vento arruffava in onde che battevano i moli, con il rumore sordo di uno schiaffo. E alla memoria gli tornava quell’acqua verdognola, che accarezzava i palazzi e riluceva di ori riflessi, percorsa dalle gondole, eleganti come cigni neri, curvilinee come corpi femminili. E le conversazioni colte, la musica, la grande musica veneziana, una geometria perfetta di note, cascate di note tintinnanti dove Albinoni, il suo preferito, fondeva le sonorità dei fiati con quelle degli archi. E le sinfonie... a riempire il cuore di dolcezza. Venezia un salotto raffinato e perduto…
E, approfittando del Carnevale, nascosto sotto la maschera, tornare? Anche per un giorno soltanto rituffarsi nell’incrocio delle calli e delle piazzette? (continua...)

Una società senza madri

“Il Presidente è una persona stupenda, generosa, buona, un….Un papà” gracchia dallo schermo televisivo l’ennesima velina intervistata, mentre io, pensando ai tanti padri offesi, mi sento avvampare di rabbia, ma forse è soltanto desolazione.
Non è sorpresa.
So, e da molto tempo, che non c’è persecutore senza vittima e che il problema del masochismo femminile è serio e doloroso. Conosco la realtà delle donne, assoggettate in famiglia alla violenza di ogni tipo da parte dei mariti, che non denunciano, ritenendosi in fondo meritevoli di pugni e schiaffi.
Un uomo che ti paga – a volte nemmeno quello, promettendoti in cambio una raccomandazione nel suo mondo di amici degli amici, per una prestazione sessuale di una notte, che potrebbe esserti nonno, che è potente, che si sceglie le ragazzine minorenni da un book, ospitandole in una sorta di castello degli orrori – dovrebbe farti sentire un oggetto di piacere, una cosa, una bambolina tutta tette e culo. E invece ti senti una prescelta, una fortunata, una vincitrice, in ciò confermata dal tuo potere di seduzione!
Ma tua madre non è riuscita a insegnarti nulla? E tuo padre? Nemmeno. E la scuola? Nessuna insegnante, non dico femminista, donna, semplicemente donna a parlarti per una volta, almeno per una volta della complessità della condizione femminile, a metterti in guardia contro i vecchi che offrono caramelle alle bambine?
Che esempio abbiamo dato, noi madri, di dignità e orgoglio femminile, dove si è spezzato il filo rosso di una cultura non scritta da passare alle figlie, per renderle orgogliose non solo del proprio aspetto fisico, ma della propria qualità di persone?
Queste carrettate di ragazzine offerte su un piatto d’argento all’ennesimo vecchio, laido e potente, non mette in discussione solo il potere e la credibilità del presidente del Consiglio, getta una luce inquietante anche sul mondo femminile, sulla trasmissione dei valori che le madri, lavoratrici, hanno passato alle figlie. Quella presenza di donne adulte che è venuta a mancare nelle case nei lunghi pomeriggi invernali ha avuto conseguenze? Quali? E quale messaggio ha fatto passare la baby- sitter televisiva?
Sono tante le domande che noi donne dovremmo porci di fronte alla squallida realtà che sta emergendo e ai complessi rapporti tra il femminile e il potere. Chissà perché mi emerge nebuloso un ricordo: le donne tedesche osannanti davanti a Hitler e le brave massaie italiane in estasi davanti al Duce…
Se ripartissimo da lì? Che ne dite, forse non sarebbe una cattiva idea.

mercoledì 24 giugno 2009

I Dellapicca

Lo sposo attendeva impaziente, lo sguardo fisso sul riquadro luminoso dell’ingresso della chiesa. Refoli di vento scivolavano lungo la navata incrociando i raggi di sole che, spiovendo dal rosone della facciata, accendevano d’oro il pulviscolo polveroso che il vento sollevava.
Si passava una mano tra i capelli, Sigismondo, mordicchiandosi il labbro.
La sposa, come di dovere, tardava.
Finalmente, ebbe l’impressione di udire un cigolio di ruote, poi una nuvola di tulle occupò l’ingresso mentre, in omaggio alle sua Venezia, le note dell’Adagio di Albinoni cadenzavano il lento avanzare della sposa lungo la navata e Sigismondo si chiedeva, stupito, le ragioni di quel matrimonio che lui, scapolo impenitente e inguaribile ‘cotoler’, aveva accettato di contrarre. L'unica risposta che era riuscito a darsi era che che sarebbe stato l’unico modo di avere finalmente quella donna che, fin dal primo momento in cui l’aveva vista, gli aveva incendiato il sangue, quella donna che per lui era diventata un’ossessione, un pensiero fisso che gli rodeva l’anima e gli annebbiava, come una sbornia mal smaltita, il cervello.
Di quella giornata avrebbe ricordato poi lo stupore spaventato nello sguardo di Maria, le sue mani scure sulla pelle della giovanissima sposa, i fiocchi strappati, e il vestito che volava giù dal letto, come una nuvola in corsa in un cielo estivo. Dei singhiozzi di Maria non avrebbe saputo nulla. Addormentato sulla sua spalla mentre, al piano inferiore, il pranzo di nozze si dilungava in una serie infinita di portate, inframmezzate da battute salaci, e ripetuti brindisi, il Veneziano, ora, russava sonoramente. Il sole scivolava nella stanza illuminando il grande letto posto al centro, con il baldacchino dorato e le tende che lo racchiudevano, imprigionandolo come una gabbia.
Maria, che si era avvicinata alla finestra, guardava il mare rabbrividendo nella camiciola di tela di Fiandra.
“Aveva fatto ciò che voleva sua madre” pensò, mentre il sole iniziava la sua parabola discendente verso il mare, quel mare che lei tanto amava e che, quasi a suggellare un sacrificio, si stava tingendo del colore del sangue…
“Era la contessa Dellapicca, era la contessa Dellapicca” continuava a ripetere a se stessa, lasciando cadere lo sguardo sulla camiciola che la copriva appena facendola sembrare una bambina spaventata più che una donna alla sua prima notte di nozze. (continua...)

cotola = gonna
cotoler = chi va dietro alle gonne

martedì 23 giugno 2009

I Dellapicca.

I giocolieri lanciavano gli anelli e li riacciuffavano tra gli applausi del pubblico, mentre l'acrobata ruzzolava sul pavimento e si esibiva in piroette e volteggi. Il gran finale vedeva una piramide umana con i due giocolieri e l'acrobata appollaiati sulle spalle del Moro, mentre un cane ammaestrato percorreva in lungo e in largo la pedana, allestita per i musicisti e lo spettacolo, ritto sulle zampe posteriori. La festa si animava e dalla cantina salivano i servitori con le ceste colme di bottiglie, mentre gli ospiti si scatenavano in balli meno compassati e la sarabanda e la ciga prendevano il sopravvento. Il Veneziano, sotto lo sguardo vigile della madre di Maria, tentò un paio di volte di indurla a seguirlo sulla terrazza o nello studio, ma la ragazzina assunse immediatamente quell'atteggiamento che l'aveva colpito nella locanda: un distacco composto e fermo, addolcito da quel sorriso appena accennato. Poco dopo sua madre, dopo essersi complimentata per la riuscita della festa, si allontanava accettando soltanto di essere accompagnata dal Moro fino alla locanda, per evitare spiacevoli incontri nella notte.
Sigismondo, deluso, si guardò attorno: molti ospiti ciondolavano ubriachi, altri avevano iniziato a cantare stonati nel loro dialetto, avanzi di cibo macchiavano le tovaglie e molte candele si erano sciolte attenuando la luce nel salone, mentre i partecipanti alla festa cominciavano a andarsene, dopo averlo salutato sprofondandosi in tentativi scomposti di inchini. Si versò un bicchiere di vino e con la caraffa in mano si avvicinò alla porta che dava sul terrazzo.
La notte, scura e senza stelle, sapeva di mare. S'intravedevano le sagome dei velieri e le chiazze chiare delle vele, qualche oblò illuminato dalla luce di una candela rompeva l'oscurità e nel silenzio arrivava fino a lui il suono della risacca che il canto sguaiato di qualche ubriaco per un attimo sovrastava. Una donna gli si avvicinò: indossava un costume da odalisca cucito maldestramente. Ai piedi, zoccoli. Zoccoli! Belloccia e invitante esibiva una femminilità greve, priva di sfumature. Ridacchiava borbottando qualcosa. Sigismondo pensava al raffinato gioco seduttivo a cui era abituato, a quelle feste che si protraevano fino all'alba, alle danze aggraziate, al gioco dei ventagli che, come quello dei nei, invitava o negava, maliziosamente. La notte e la delusione di non avere nel suo letto Maria gli davano una sensazione profonda di malinconia e solitudine facendo affiorare il vuoto che la sua anima celava. A quel nulla che lo spaventava, si sottrasse chiudendo gli occhi e sprofondando tra le braccia di quella sconosciuta alla quale, senza chiedere nemmeno il nome, si aggrappò, trascinandola, un po' brillo, fino alla sua camera da letto.
Poco dopo, un baluginio fosco sul mare, annunciava la nascita di un nuovo giorno. (continua...)
http://www.facebook.com/note.php?note_id=94515786601&ref=nf

Vi invito a leggere questa lettera....

Leggere Lolita a Teheran

Anni fa, mi capitò tra le mani “Leggere Lolita a Teheran”, la storia di Azar Nafisi, insegnante universitaria iraniana e delle sue ragazze, un gruppo di studentesse che si riunivano nella casa di Azar, per leggere e discutere di letteratura occidentale. Sveglie, intelligenti e piene di curiosità cosa volevano sapere? Cosa si dicevano in quei pomeriggi tra una tazza di tè, un cioccolatino e un rombo di aerei nemici che sorvolava la città, scaricando bombe sulle loro case?
Volevano conoscere l’altra faccia della luna, quella che nel loro Paese veniva negata, messa all’indice. Volevano sapere per discuterne tra loro, liberamente. Volevano parlare di politica e diritti, sessualità e libertà. Sì, volevano parlare di tutto, senza censurare i pensieri e le parole che avrebbero usato per esprimerli. Volevano leggere gli scrittori occidentali e cominciarono da Nabokov, da quel libro “Lolita” considerato scandaloso, osceno.
Ricordo quella loro cresciuta intellettiva e umana, le confidenze che si facevano più spinte, i discorsi sulla sessualità, il bisogno di libertà che faceva capolino e cresceva mentre le vesti nere che indossavano diventavano, per alcune, mortificazione di una bellezza che non era più soltanto del corpo, ma anche della mente. La capacità critica emergeva prepotente, i processi logici si facevano stringenti, consequenziali mentre il desiderio di libertà diventava più forte di giorno in giorno. La loro insegnante, liberandone le menti, le sospingeva verso la libertà dei corpi, delle idee, delle parole. Sempre più difficile risultava paludarsi in neri abiti, nascondere i capelli, accettare la proibizione anche del canto, mentre cominciava a apparire assurdo non uscire con un uomo, non scegliersi un compagno, chinare la testa e continuare a essere sottomesse.
Vedendo morire quella giovane, bellissima ragazza, i jeans macchiati di sangue, le mani disperate del suo ragazzo a raccoglierne il capo, a cercare di frenare l’emorragia di sangue che se la sarebbe portata via in pochi minuti, ho pensato a quel libro.
Ho pensato a Azar e a quelle ragazze.
A tante oscure Azar.
A tante oscure ragazze.
Alla stupidità di chi pensa che il bisogno di libertà si possa soffocare, quando esplode.
A colpi di pistola.

domenica 21 giugno 2009

I Dellapicca (Il Ballo)

Il padrone di casa si fece largo tra gli ospiti che, rispettosi, si scostavano facendogli ala. Un cenno d’intesa con i musicisti e le note della musica si levarono alte a dominare il chiacchiericcio: il salone per un istante sembrò immobilizzarsi, mentre Maria si voltava e Sigismondo, già alle sue spalle, s’inchinava, gli occhi che cercavano una verifica finale di cui il suo istinto maschile non avrebbe avuto bisogno. Le offrì il braccio mentre qualcuno si affiancava: poi, alla luce delle candele, prese il via la danza. Maria era un po’ impacciata ma il Veneziano, a suo perfetto agio, la conduceva con le movenze aggraziate e quasi leziose che quel ballo richiedeva.
La madre di Maria, impacciata ma orgogliosa, mangiava fritòle con il mignolo alzato, sproloquiando con alcuni ospiti che si complimentavano per il costume, ma soprattutto per la bellezza, della figlia mentre, le guance flosce vistosamente arrossate e le mani rovinate dal lavoro in agitazione, si godeva quel momento di gloria che riscattava tutta la sua miserabile vita, ancora incredula per l’invito ricevuto e per l’evidente interesse del Veneziano per la figlia. Di nascosto dal marito, aveva dato in pegno la catenina del battesimo, la fede nuziale e gli orecchini regalati a Maria per la Cresima, ottenendone in cambio una piccola somma che le aveva permesso di far confezionare l’abito della figlia dalla stessa cucitrice che aveva preparato i due abiti più belli della festa. Non aveva badato a spese nella speranza di accalappiare quello che le era sembrato un ottimo partito per la figlia.
“ Siete bellissima questa sera e, se permettete, qui nessuno è in grado di valutare il vostro travestimento meglio di me” e, lasciandole scivolare addosso uno sguardo ammirato, Sigismondo concluse dicendo ” Se vi avessi incontrata a Venezia, vi avrei seguita proponendomi come vostro cavaliere e non avrei avuto occhi che per voi”.
" Perché nessuno meglio di voi..?"
" Perché a Venezia il Carnevaleè un modo di essere, di vivere, è uno sprazzo di follia che il Senato della Repubblica tutela, è rimescolamento di carte nel gioco della vita che concede di essere sotto la maschera ciò che non si è."
Maria lo ascoltava attenta, affascinata.
" Ho visto costumi degni di una regina trasformare per una notte una popolana in una nobile e viceversa" concluse Sigismondo.
Maria arrossì e non rispose, mentre l'uomo, che nella danza incrociava, le chiedeva:
“ Perché la luna? E’ stata una vostra idea?”
“ Perché amo la notte …
“ E il mistero?” lui le chiese, interrompendola.
“ Potreste essere una veneziana “ aggiunse mentre lei gli si avvicinava sfiorandolo per un istante.
“ Perché non una triestina?”
“ La vostra città è una pietra preziosa di valore, ma grezza..”
“ E Venezia com’è?” lei chiese, curiosa
“ Come voi: unica e inimitabile. “
Domande e risposte s'incrociavano tra loro come dame e cavalieri nella quadriglia...
In quel momento la musica cessò e il Moro si fece largo tra la gente seguito da due giocolieri e un acrobata, i campanelli del berretto che tintinnavano, mentre saliva sul palco e dava inizio allo spettacolo. (continua…)

I Dellapicca

Nella casa di Sigismondo, il salone riluceva alla luce delle candele mentre il Moro, addobbato da giocoliere con un costume rosso fuoco e un cappello a sonagli, una torcia ben salda nella mano sinistra, accoglieva le carrozze che, una dopo l'altra, si fermavano davanti all'ingresso.
La via, nella sera che incupiva, si animava di colori, sete sgargianti, piume, broccati, velluti e voci, frusci e ticchettio di tacchi che salivano i gradini che portavano all'ingresso. I cocchieri schioccavano ordini sonori ai cavalli, tagliava l'aria qualche colpo di frusta, mentre si aprivano gli sportelli delle carrozze da cui sbocciavano, ampie e morbide come fiori sfatti, gonne femminili.
Il padrone di casa, nella sua stanza, si rimirava nello specchio. Si era fatto confezionare un abito da paggio, con le brache corte a sbuffo di velluto viola e azzurro, le calze, in lana color verde muschio, che sottolineavano le gambe dritte e muscolose e una giacchetta con le maniche che esplodevano a palloncino , intonata alle calze e alle brache. In testa, una parrucca a caschetto, la frangia che sfiorava gli occhi scuri, dandogli un'aria da ragazzo.
Raddrizzate le spalle, Sigismondo gonfiò il petto e sorrise, compiaciuto, all'immagine di sé che lo specchio gli rimandava, prima di scendere a controllare che tutto fosse pronto. Per un istante ebbe quasi la sensazione di essere tornato a Venezia, nel palazzo sul Canal Grande, ma subito si rese conto che la scenografia che lo circondava era nettamente inferiore, quasi una replica in tono minore, se non una caricatura, di ciò a cui era abituato. Nel salone, che si andava riempiendo di gente e di colori, risuonava un'altra parlata e molte maschere erano soltanto un'accozzaglia di indumenti diversi dai quali sarebbe stato impossibile risalire a personaggi definiti. I pochi nobili, che vivevano in città, avevano declinato l'invito e la folla, che andava animando il salone, ruotava intorno o era parte del mondo che lui e il Moro frequentavano...Ma era, comunque, un suo piccolo trionfo personale quello che in quella sera si consumava e, inoltre, il suo pensiero andava alla figlia del locandiere, a quella giovane donna di nome Maria, che era deciso a avere, e che aveva invano cercato di dimenticare tra le braccia di alcune fra le donne, che gli erano appena sfilate di fronte, ammiccando maliziose e misurandosi in inchini un po' maldestri.
Ma dov'era Maria? Pensò per ben due volte di averla identificata, ma mentre la delusione gli cancellava il sorriso dal volto, nei suoi occhi lo sguardo tornava a posarsi con insistenza sulla porta nel cui vano si inquadravano ancora le ultime maschere in arrivo.
E se non fosse venuta? Nell'ingresso la pendola batteva cupa e sorda le ore e il cicaleccio aumentava. Intorno a una delle donne appena entrate si accalcavano uomini, resi arditi dal mascheramento. La risata della donna lo disturbava: aveva un timbro alto e sciocco. Notò che indossava un vestito da pavone. Animale bello ma stupido - pensò, mentre l'interesse per la festa scemava in lui e la delusione gli si disegnava sulla bocca che la maschera non copriva.
Lanciò un ultimo sguardo all'ingresso, prima di chiedere a un servitore di sprangare il portone, quando nel vano della porta apparve una figura femminile che rimase un attimo ferma, quasi incerta tra l'entrare e il voltare le spalle e uscire.
Era una maschera che alludeva alla luna: vestita d'argento dalla testa ai piedi, capelli di un biondo quasi bianco, intrecciati a stelle che brillavano a ogni movimento del capo, avanzava con la grazia di una damina veneziana da carillon. Avvolta in un mantello di seta che le scendeva dalle spalle, camminava, lasciando intravedere un abito di pizzo color ghiaccio
e scarpine di seta chiara, ricamate a stelle d'argento.
La maschera incorniciava soltanto gli occhi, svelando nel sorriso enigmatico il suo inconfondibile fascino.
Sigismondo, come un viaggiatore sperso in una notte buia, la seguì, mentre intorno il cicaleccio si spegneva e Maria avanzava splendente e intrigante come una luna d'agosto.

sabato 20 giugno 2009

Sapevo che la maschera, a lungo andare, diventa il volto...

venerdì 19 giugno 2009

I Dellapicca

Calava il sole sul mare in quella sera d’estate e Sigismondo e il Moro bevevano uno alla salute dell’altro, soddisfatti dalla piega che stavano prendendo i loro affari. Il Moro si era rivelato un ottimo capitano, conoscitore di tempeste e di uomini, coraggioso senza essere temerario, freddo nel prendere le decisioni ma, allo stesso tempo, capace di calarsi, quasi la riconoscesse, nella sofferenza o nell’angoscia dei suoi uomini. Uomini strani i marinai: poco amanti delle regole, incuranti della sicurezza, e capaci, in certe sere di bonaccia, d’intravedere tra acqua e cielo, dietro una coltre di nebbia, vele vuote di vento e di voci. Il Moro, per far credere ai suoi uomini di essere sotto l’effetto dell’alcol, li metteva di guardia in compagnia di una fiasca di rum, perché lui, che aveva passato la vita in mare, più di una volta aveva avvistato spettrali velieri, carichi di cadaveri, navigare veloci come se gli equipaggi fossero ai remi. In quelle sere di bonaccia, in cui gli uomini cantavano canzoni d’amore, sottolineate dal suono del clarino che illanguidiva i ricordi tingendoli di rimpianto, il Moro si chiudeva nella propria stanza, i pugni contratti, gli occhi, fissi sulla parete, che s’incupivano…
Sigismondo alzò il boccale, piacevolmente stordito dall’alcool e voltandosi verso il locandiere borbottò: “Brindo alla vostra bellissima figlia e al fortunato che se la sposerà”. L’oste ridacchiò alzando il bicchiere che l’altro gli aveva riempito. Il Moro taceva concentrato sulla tenda che si era scostata lasciando intravedere qualcuno che spiava. Maria occhieggiava, lasciando scorrere lo sguardo su Sigismondo che, alto e sprezzante, alzava il bicchiere continuando a fissare la tenda dietro la quale lei si riparava. Perché quell’uomo, nonostante quello che era successo, continuava a frequentare il locale? Cosa voleva? Si vociferava che lui e il Moro fossero molto abili nel trattare gli affari e che si stessero arricchendo. Il Veneziano, come veniva ormai da tutti chiamato, stava ampliando e arredando la casa in cui viveva. In giro, si diceva che avesse ricavato un salone, rilucente di specchi e ori,dal vecchio magazzino e che avrebbe dato una festa, cogliendo a pretesto il Carnevale, con l’obbligo di presentarsi in maschera e su invito. Sigismondo, al bancone, poco dopo salutando l’oste gli allungò un invito. “ Sarei onorato di avere nella mia casa, che inaugurerò a Carnevale la vostra splendida figli e …sua madre, naturalmente” mormorò, prima di uscire, un po’ malfermo sulle gambe, dal locale, seguito dal servo, la veste di seta nera che frusciava a ogni passo e lo spadino che s’intravedeva quando nel passo, come ali di rondine in volo, la veste si apriva, scostandosi dal corpo.
(continua…)

martedì 16 giugno 2009

La diversità è ricchezza

Nel mio post precedente rispolvero ricordi d’infanzia e nel farlo, mi colpisce quell’immagine di ragazzina che non leggeva i quotidiani, che si annoiava assistendo a Tribuna Politica.
Era considerata “roba da uomini”, come il calcio, fare a pugni, o smadonnare.Le studentesse leggevano “Grazia”, le sartine e le commesse fotoromanzi.
Come viveva negli anni Sessanta una ragazza di estrazione piccolo borghese, in una cittadina di provincia?
Beh, devo dire che ciò che mi rendeva particolarmente diversa era la presenza di quel padre, così ingombrante in tutti i sensi. Troppo diverso dagli altri padri e incredibilmente severo, non disponibile a concedere, a me e mia sorella, la minima libertà a meno che le nostre richieste non avessero alla base una valenza culturale.
Andare a un festino - si facevano in casa con quattro aranciate, qualche panino e il giradischi - era un’impresa epica. Valenza culturale: inesistente. Permesso di andarci: negato.
I maschi uscivano, le femmine, blindate.
Capii in quegli anni quanto il modo di vivere la sessualità, che mi sembrava eguale, fosse diverso. Poi l’università: laurea in economia e commercio, matrimonio e nascita del primo figlio. Ai colloqui di lavoro, storcevano il naso sentendo che avevo un bambino. La mia famiglia era lontana, mio marito lavorava all’estero. Cercai un lavoro che mi consentisse di conciliare …l’inconciliabile: maternità e professione. Avrei scoperto, anni dopo, che le poche donne che si erano laureate con me avevano “scelto”, in massa, l’insegnamento.
La maternità aveva istituzionalizzato la diversità: la disparità era aumentata a dismisura. Nato da un uomo e una donna, mio figlio fu allevato da un genitore soltanto: è facile immaginare quale. Battagliai per il secondo, chiedendo aiuto e collaborazione. Con il terzo figlio subentrò la rassegnazione.
Mi sentivo tradita …e non era soltanto una sensazione.
Il marito aveva fatto carriera, lui; era sempre in giro per il mondo, lui, mentre io percorrevo in lungo e in largo il perimetro della mia casa prigione. Una sera, complici la stanchezza di troppe notti perse e la luce tenue del comodino, nello specchio mi sembrò di vedere mia madre. Il cerchio si chiudeva intorno a me: ero di nuovo prigioniera. I tradimenti divennero spudorati, appena venati d’imbarazzo.
Io tacevo e pativo.
Mio marito mi guardò sorpreso, vagamente seccato, quando gli comunicai la mia decisione di andarmene. Pensava che con tre bambini piccoli non ce l’avrei fatta.
Si sbagliava.
La dura scuola alla quale ero cresciuta mi salvò. Ma ce la feci perché, vissuta in un ambiente politicizzato, avevo coscienza dei miei diritti, ero economicamente autonoma perché lavoravo, la laurea mi aveva dato una preparazione che mi permise, quando il mio ex marito non pagò più gli alimenti, di investire in borsa, uscendone prima del disastro.
Fu durissimo e senza la protezione familiare (mio padre era morto, mia madre non aveva approvato la mia scelta di separarmi, indicandomi la via della sopportazione e/o rassegnazione) mi resi conto di quanto fosse difficile vivere la condizione femminile, senza un uomo accanto e con tre figli piccoli. La ventata di libertà del ’68 , la speranza di poter avere “tutto e subito” non era più nemmeno un borin…
Le donne della mia generazione, avendo conquistato il diritto di divorziare, abortire, vivere la propria sessualità, hanno avuto una facoltà di scelta che le madri non ebbero, ma il filo rosso della continuità tra le generazioni, impostato sull’accettazione, la rinuncia, il sacrificio femminile connessi alla dipendenza, anche e soprattutto economica, si era spezzato. Avevamo scelto di non identificarci in modelli femminili che consideravamo perdenti e per molte la lacerazione dalle madri, che si sentirono spesso tradite, fu pesante. Il buon senso, la saggezza femminili, noi che avevamo vissuto il ’68, li avevamo gettati a mare, crescendo le figlie in modo nuovo, diverso, muovendoci su un terreno sconosciuto. La complicità, che si espresse nella sorellanza, fece emergere l’invidia femminile, i piccoli ambigui giochi di potere di chi non avendone, era stato abituato a tramare nell’ombra. Queste figlie senza padre, con madri impegnate nel lavoro, hanno avuto, diventate adulte, non pochi problemi. Nonne e madri contrapposte e spesso in aperto conflitto provocarono perdita di radici comuni e, quindi, di sicurezza, difficoltà a identificarsi, ma anche a separarsi acquisendo una individualità autonoma. Il tutto in un tourbillon di nuovi compagni e compagne dei genitori che, allargando le famiglie soltanto in senso quantitativo, toglievano loro spessore. Il femminismo ci aveva dato molto, ma ci aveva lasciate anche con le ossa rotte, frantumate in pezzi che non si sarebbero mai fusi del tutto.
C’è una specificità femminile che ci rende diverse, profondamente, dagli uomini e questo primo limite del movimento femminista, che ci voleva trasformate in maschietti secondo un ingenuo concetto di parità, io ( come molte altre donne) l’ho vissuto sulla mia pelle e dolorosamente.
Il nocciolo duro della diversità è la maternità, che ha ben poco a che fare con la paternità. C’è una sessualità che ha una valenza emotiva diversa più esigente e coinvolgente. Noi siamo madri anche se non abbiamo figli, siamo intessute di maternità, così come i maschi pensano e agiscono in funzione della sessualità. Al di là del mondo maschile, logico e razionale, non c’è il vuoto, c’è un’altra cultura, legata alla natura, al corpo, a tempi biologici stringenti che ritmano un altro mondo, quello femminile, che non è inferiore, è soltanto diverso.
Ma il potere, quello economico/finanziario, è nelle mani dei maschi. Saldamente. E qui la diversità diventa inferiorità. E, a questo punto, nella attuale realtà economico/sociale di grande crisi, questa inferiorità alza un muro davanti alle donne, che sono le prime a perdere il posto di lavoro e le ultime a trovarne uno nuovo.
La tregua che sarebbe potuta nascere, capendo finalmente che la diversità non va combattuta, ma accettata e valorizzata, che non deve far paura, ma incuriosire, che non è scarsità, ma ricchezza, si è rotta nuovamente tra maschi e femmine. Questo è un altro pesante problema che possiamo addebitare alla crisi e non è un problema da poco.

lunedì 15 giugno 2009

Risposte

Prima delle elezioni europee e amministrative, ho posto a me stessa e ai miei lettori una serie di domande alle quali tenterò, per evitare comportamenti alla Berlusconi, di dare una risposta, anche se necessariamente soggettiva.

1° - Sono nata a Udine, ma da parecchi anni, quando qualcuno mi pone la domanda “ Di dove sei o da dove vieni?”, io rispondo “Sono triestina” con molto orgoglio e una punta di malinconia, perché in quella splendida città non vivo più da molti anni. Se qualcuno mi chiede “Sei italiana?” ho invece un’esitazione che spesso mi induce a rispondere “Quasi…”
Trieste ha una storia complessa che fa parte di me, alberga nei miei geni e mi ha fatto sposare un abruzzese di madre spagnola e nonni napoletani, nonostante nonna Angelina alla presentazione in famiglia dell’abruzzese avesse scosso la testa borbottando “ Moglie e buoi dei paesi tuoi…”.
Quali paesi sarebbe stato interessante da scoprire essendo io il risultato di una mescolanza di friulani, istriani, croati e dalmati. Posso dire che i nostri figli, miei e dell’abruzzese, con questi diversi apporti alla radice, sono venuti piuttosto bene. Ho sempre ritenuto la diversità una ricchezza, sono cresciuta, a mio completo agio, tra lingue e dialetti differenti e l’unica appartenenza che mi riconosco è a questa terra ventosa e aspra, che non mi ha nemmeno vista nascere, e che, per prima, non ha un’appartenenza. Terra che non è crogiolo di razze, ma soltanto convivenza di razze, a volte astiosa, a volte infastidita, ma che alla fine dà il vero volto alla città, che è un Giano bifronte riflesso in un mare che a sua volta raddoppia o quadruplica l’immagine che trasmette. Ho scritto a mio completo agio, forse sarebbe stato più corretto dire con un disagio sottile e costante che è diventato alla fine l’essenza del mio interagire con i luoghi. Credo di essere caratterialmente una zingara, che ha sempre privilegiato l’andare allo stare, e, ora che problemi di salute mi inchiodano a un luogo, continuo a vagabondare con la fantasia, andando a zonzo per il mondo grazie a quella settima meraviglia tecnologica che è Internet. Da ragazza feci uno stage in Francia, passando parecchi giorni a Parigi e mi trovai benissimo. A Londra o in Danimarca, in Austria o Svizzera mi sentivo a casa, ma semplicemente perché la “casa” per me è sempre stata il luogo in cui piantavo le tende nel mio peregrinare di città in città. Quello che mi fa sentire sicura è avere accanto le persone che amo e i miei libri.
L’appartenenza è legata al posto con cui si entra in sintonia, quello che, idealmente, si sceglie come proprio, consci, però, di essere cittadini del mondo. Posso capire la nostalgia per i propri luoghi, ma rimango basita davanti agli atteggiamenti alla Bossi & Co.
Le camicie verdi mi spaventano non poco perchè mi ricordano altre camicie...
La diversità non rassicura, ma arricchisce, e arroccarsi nel proprio castello, alzando il ponte levatoio, oggi sarebbe anacronistico, prima che stupido.
I bambini che nascono da incroci di razze non sono forse i più belli? Guardate i brasiliani.
Pardon, le brasiliane. E, dopo, se non siete convinti, guardate i leghisti, anche soltanto i loro rappresentanti. E ascoltateli anche...Pura razza padana?Technorati Profile

domenica 14 giugno 2009

Televisione, amore mio

Le favole di tutti i paesi parlano di un pifferaio magico, di una malia che diventa mania collettiva e incanta, ipnotizza, rende dipendenti. Affidarsi è maledettamente comodo. Come credere alle favole. Le ultime elezioni – secondo i dati Censis – hanno visto il trionfo dell’informazione televisiva che ha determinato la scelta di voto del 69,3 per cento degli elettori, con percentuali ancora più alte tra i meno istruiti, le casalinghe e i pensionati.
Questo è il primo dato inquietante che emerge dall'analisi.
Tenendo conto dell’astensionismo elevato, delle schede annullate di fatto e di diritto (quelle sotto il 4 per cento) , una vittoria ottenuta con il 35 per cento del Paese mette anche in discussione il consenso plebiscitario del presidente del Consiglio.
Scoprendo inoltre che un quarto degli elettori si è formato un’opinione sui giornali, si comprende meglio l’accanimento contro la carta stampata, colpevole di rompere l’incanto, riportando la politica a quello che è, o dovrebbe essere: ponderazione, proposte, decisioni maggioritarie volte a risolvere i problemi del Paese.
C’è poi un irrilevante 2,3 per cento di elettori che si è informato su Internet: dato numericamente basso, ma greve. Si potrebbe dire: pochi ma buoni. La prudenza non è mai troppa e i nativi del web stanno crescendo, con cervelli diversi e telecomando incorporato nel pollice, incantati da melodie a base di bip, bip. E’ già in Parlamento un disegno di legge per zittire anche loro, anche se in questo campo l’ignoranza, anche informatica, dei politici, ci dà un vantaggio operativo.
Demonizzare la televisione è tempo sprecato: insegnare a coglierne le astuzie, mettendo a nudo il pifferaio, potrebbe rompere la malia, spezzare l’incanto. Chi potrebbe farlo? Secondo me la scuola, anche se questo corpo docente, poco pagato, frustrato e reso vagante e incerto dal precariato, è più che un esercito un’armata Brancaleone…ma le donne, che sono la struttura portante del corpo docente, sono abituate a cavarsela con poco. Se i docenti diventassero il cavallo di Troia della situazione?

sabato 13 giugno 2009

I Dellapicca (desiderio)

E così, mia cara Mielita, Sigismondo si mise in affari, instaurando con il suo socio uno strano e ambiguo rapporto. Il Moro infatti gli era indispensabile perché lui non era in grado di fare nulla se non protestare su tutto, lagnarsi costantemente di qualcosa e rimpiangere il mondo nel quale era nato e cresciuto. Allo stesso tempo, però, la vita gli aveva offerto l’opportunità di vivere un cambiamento, di misurarsi con difficoltà per lui impensabili. Era sempre arrogante, perché nel suo mondo l’arroganza si succhiava con il latte materno, ma, essendo un uomo intelligente, aveva cominciato a riflettere. Lo incuriosiva la personalità del Moro, era affascinato dalla sua forza, dal coraggio e dalle capacità di quell’uomo che gli avevano consentito di ricominciare a vivere e che, ora, gli stavano permettendo anche di arricchirsi. Anche Sigismondo però serviva al Moro. Il mondo cosmopolita triestino che ruotava intorno al porto, formato da disgraziati che venivano reclutati come equipaggio sulle navi, ma anche da un ceto che stava emergendo assumendo le caratteristiche di una nascente e ricca borghesia, si inchinava ancora davanti a quell’uomo che proveniva da un ambiente di cui si sparlava, che si disprezzava, ma che essendo proibito era comunque oggetto d’invidia. Sigismondo, per intenderci, era uomo di rappresentanza e, quando si trattavano affari di un certo livello e era necessario ben figurare, era a Sigismondo, al Conte Dellapicca, che ci si rivolgeva.
Non viveva più alla locanda e si era trasferito con il Moro in una casa dalle parti del porto: un ex magazzino, che era stata ristrutturato alla meno peggio, ricavandone un appartamento al piano superiore, un deposito e ricovero merci e un ufficio, al pianterreno.
Sigismondo, nonostante i suoi ripetuti tentativi di prendersi Maria, anche con la forza, di prepotenza, come gli era sempre sembrato naturale nei confronti di una donna che non fosse del suo ceto, non era riuscito più quasi neppure a vederla. “Aveva forse raccontato qualcosa alla madre?” pensava il veneziano, spiando oltre la tenda, che separava quelle due stanze in cui viveva la famiglia del proprietario della locanda. Maria non si vedeva quasi più e sua madre lo guardava, il viso pieno e un po’ ottuso che assumeva un’espressione ambigua con le labbra atteggiate al sorriso e gli occhi sospettosi e foschi.
Ma a Sigismondo non era mai capitato di non avere una donna che in qualche modo lo avesse attratto. O con le moine e i giochi da cicisbeo, o con le carnevalate e i costumi sontuosi, i regali e lo sfoggio di tutto il suo sapere di uomo colto e di mondo, le aveva sempre avute tutte e, ora, quella ragazzina povera, ignorante, che inaspettatamente gli aveva tenuto testa dimostrandogli di possedere oltre a quella inquietante bellezza, anche un notevole carattere, gli era entrata nel sangue.
Per la prima volta nella sua vita desiderava qualcosa senza riuscire ad averla. Non riusciva nemmeno a vederla, a parlarle. “E’ una ragazzetta qualunque” pensava “non vedendola lavoro di fantasia, mi invento una donna che non c’è, la adatto ai miei desideri” ma, quando improvvisamente, dopo molte visite a vuoto nella locanda, gli si parava davanti, restava basito a guardarla con la sensazione che diventasse ogni giorno più bella. Si cominciava a favoleggiare in città sulla bellezza della figlia del locandiere e molti l’avevano già chiesta in moglie, ma ricevendone in risposta dal padre un sistematico rifiuto.
(continua...)

venerdì 12 giugno 2009

Non potendo imbavagliare le coscienze, si imbavaglia l’informazione?

Tra i miei ricordi d'infanzia, oggi, mi viene spontaneo ripescare l'immagine di mio padre che, in bicicletta, tornava dal lavoro per l’ora di pranzo; in tasca, immancabili, due quotidiani: L’Unità e Il Corriere della Sera. E, dopo aver mangiato, si trincerava dietro al giornale che mia madre non si sarebbe mai sognata di leggere, anche se ascoltava i commenti, spesso arrabbiati, qualche volta furibondi, di mio padre. Era così che noi tre donne di casa, mia madre, mia sorella e io, venivamo informate sui fatti del giorno. Ho chiarissimo questo ricordo, così come rammento di non avere mai aperto uno di questi giornali fino al giorno in cui varcai, timida insegnante fresca di laurea, la porta di una classe.
Anche se finivano a mollo nella vasca da bagno, per farne delle palle da asciugare al sole sul terrazzo d’estate e utilizzare d'inverno come combustibile povero, quelle due fonti d’informazione - mio padre diceva la linea di partito e la linea di governo - sintetizzavano l’esigenza del suo controllo, di lettore, sulla notizia.
Perché la notizia deve essere verificata a monte e a valle, non può essere soltanto “urlata”e ridotta a immagine ( bisognerebbe almeno sapere a quale criterio e obiettivo s’ispiri la selezione di queste immagini).
Quando arrivò in casa la TV, mio padre non smise di comperare i giornali: ampliò la sue fonti d’informazione, non smettendo di sbraitare nemmeno davanti a quel programma chiamato, se ben ricordo, Tribuna Politica. Spesso, io mi sedevo accanto a lui, ma di solito mi annoiavo; non era divertente, la politica non era ancora diventata spettacolo: era politica, come lo sport era sport e un film era spettacolo su base fantastica.
Quanto rapidamente, annullando la dimensione spazio/ temporale alla quale il giornale è soggetto e rendendo di fatto la notizia, attraverso una spettacolarizzazione sempre più accentuata, uno show, la TV diventò la fonte d’informazione più seguita?
Molto rapidamente.
“L’hanno detto in TV, prof.” avrebbero strillato di lì a poco, facendomi imbufalire, i miei alunni. Questo mezzo d’informazione di massa, assurto, in breve, a nuova bibbia del sapere, cambiò l’approccio all’informazione, relegando nell’angolo i giornali. Ma il “Grande Fratello” di Orwelliana memoria, che entrava ormai in tutte le case, diventando baby sitter gratuita e alternativa chiassosa al vuoto di parole e sentimenti tra coniugi stanchi, poteva essere usato, anche e soprattutto, per ottenere e, successivamente, conservare consenso. Senza arrivare ( si spera) a indottrinare attraverso messaggi subliminali, la TV uniformava, omologandola verso il basso, l’opinione pubblica, appiattiva la società attraverso un impoverimento culturale favorito da scelte di programmi di pessimo gusto improntati alla volgarità, asserviti a nuovi valori emergenti come il successo, misurato dalla visibilità non dalla professionalità, il denaro, l’arroganza, la protervia, che altro non sono se non le caratteristiche del Potere, balzato in groppa e pronto a cavalcare la tigre dell’informazione, manipolandola per ottenere e conservare il consenso.
Nasceva e si sviluppava, intanto, a velocità supersonica, la terza fonte d’informazione: il Web. Un onnicomprensivo calderone dilatabile a dismisura in cui tutti scrivevano, caricando immagini, aggiungendo commenti, informando, sottolineando musicalmente, andando a zonzo nella blogsfera.
Il confine tra reale e immaginario si faceva e si fa, oggi, ancora più labile, le modalità di apprendimento dei nativi del web ne modificano addirittura i circuiti neuronali, la verifica sulle informazioni fornite si fa inconsistente come una tela di ragno. Tutto sfuma: siamo nel regno della contaminazione.
E’ bellissimo. E’ pericolosissimo.
Quali rimedi ci possono garantire un’informazione reale e corretta?
L’uso, critico e attento, di tutto ciò che abbiamo a disposizione: l’anima, filtrata attraverso la testa razionale e precisa, del giornalista e le sue gambe che lo portano in giro a scovare notizie, a chiedere a seguire ogni pista come un segugio, la potenza evocatrice dell’immagine in TV e il cuore, le emozioni e il confronto dei blogger che stanno scoprendo nuove forme di partecipacipazione e informazione dal basso.
E accettabile in un Paese moderno, civile, democratico, alla luce di quanto ho scritto, che il politico più importante del momento controlli in toto, anche se con modalità diverse, la televisione e buona parte della stampa? E che, caso unico in Europa e nel mondo occidentale, istituendo il reato d’informazione, renda punibile con ammenda e/o reclusione il diritto/dovere del giornalista di informare?
Non potendo imbavagliare le coscienze, si imbavaglia l’informazione?
Non dimentichiamo che il giornalista e scrittore Saviano, per avere informato con il suo libro "Gomorra" e i suoi articoli e post i lettori sulla realtà della mafia nel nostro Paese, viaggiava sotto scorta, prima di essere costretto a emigrare.
Vogliamo, dopo l’emigrazione delle braccia, dei cervelli e delle coscienze, diventare il Paese da cui saranno costretti a fuggire anche i giornalisti, per poter fare il loro lavoro, che è soltanto quello di informare?
Vi invito a riflettere e a sottoscrivere l'appello su Repubblica a tutela della libertà d'informazione.

mercoledì 10 giugno 2009

I Dellapicca(la delusione)

Appena entrato nella locanda, il veneziano si guardò intorno cercando Maria con gli occhi, e, quando ne incrociò lo sguardo, si diresse verso il bancone, fissandola con insistenza. Lei sembrò rifugiarsi, acquattarsi come un animale inseguito in quello sguardo che sbiadiva, offuscandolo, lo squallore intorno a lei, mentre le chiedeva: “Avete lavato la mia roba?” e lei rispondeva annuendo, il sorriso, come una fiaccola accesa nell’oscurità della notte, che la accendeva, attirando gli sguardi sulla sua gola piena e sul volto incorniciato dai riccioli chiari, sfuggiti alla treccia, che a ogni movimento sembravano danzarle intorno al viso.
“Vi dispiace portarmela in camera?” e il suo tono era quello che usava con i domestici ma, prima di seguirla, rivolto al Moro gli disse: “ Vi ho fatto sistemare altrove. Ci sentiamo domani” , seguendo con gli occhi la giovane donna che si dirigeva verso la cucina.
Pochi minuti dopo la vide salire lungo la scala che portava al piano superiore, la cesta che posava sulla rotondità del fianco e una mano a sollevare, svelandone le caviglie sottili, la gonna per non incespicare.
Sigismondo la seguiva.
Arrivarono insieme davanti all’ingresso della sua stanza, lui si fece da parte cedendole il passo e lei, ringraziandolo con un cenno del capo, entrò e appoggiò la cesta sul letto togliendone la biancheria pulita. Quando si voltò per uscire, il suo volto s’irrigidì mentre negli occhi affiorava lo stupore. Si voltò, rigida, verso l’uomo che le si stava avvicinando e con voce decisa gli disse: “Aprite per favore”. Poi azionò la maniglia, la mano agitata da un tremito improvviso, tentando di uscire, ma lui era già alle sue spalle, le mani avide che l’afferravano alla vita, il suo fiato sul collo. Aprì la bocca per gridare ma Sigismondo, dopo averle afferrato il viso, gliela tappò con la mano. Poi la baciò. La ragazza voltò la faccia, riuscendo per un istante a divincolarsi, mentre, schifata, si passava il dorso della mano sulle bocca, a cancellarsi di dosso l’impronta di quelle labbra, ma l’uomo, in preda a una eccitazione febbrile, le fu addosso di nuovo.
“ Stai ferma, non ti faccio male…” La spinse sul letto, le sue mani che scivolavano sotto la gonna,
mentre lei si difendeva con tutte le sue forze, cercando nuovamente di gridare, gli occhi sbarrati dalla paura. Poi, sembrò cedere, abbandonarsi…
“ Brava, fai la brava…” ebbe appena il tempo di mormorare Sigismondo prima che una violenta ginocchiata al basso ventre lo facesse mollare la presa. Mentre l’uomo si raggomitolava su se stesso, imprecando, Maria, dopo aver afferrato la chiave della stanza dalla tasca della sua veste si precipitava ad aprire, uscendo di corsa senza nemmeno afferrare la cesta. Sconvolta, rimase un attimo in ascolto, ma il rombo del sangue nelle orecchie sovrastava qualunque rumore. Si annodò la treccia sfatta intorno al capo alla meno peggio, cercando di controllare il tremore alle mani.
Nell'oscurità delle scale, il volto che s’intravedeva appena sembrava conservare più della traccia di quelle mani insolenti la vergogna che lei stava provando e la delusione che affiorava in lei confusamente, mentre cercando di assumere un’aria il più possibile normale, si allontanava dal pianerottolo scendendo a precipizio la scala.
Dalle scale saliva il Moro che si scansò per lasciarla passare, incrociandone per una frazione di secondo lo sguardo, che lei abbassò confusa, mentre una vampata di rossore le accendeva il volto pallido e la bocca s’increspava nello sforzo di trattenere il pianto.
Le mani del Moro si contrassero a pugno e un borbottio aspro e incomprensibile gli usci dalle labbra, mentre riprendeva a salire, ma lentamente, quasi quel suo corpo muscoloso e scattante si fosse afflosciato, perdendo la sua forza come una vela vuota di vento.

martedì 9 giugno 2009

Speranza collettiva e connettiva

The day after … le elezioni cosa faccio? Vado per blog: a caso, come farei in una città sconosciuta addentrandomi in quartieri mai visti, senza alcuna indicazione, seguendo nella scelta delle strade il caso o l’intuito. E il popolo dei blog risponde. In che modo? Non ci sono regole: qualcuno, precisino, snocciola dati citando le fonti, altri rimandano, con link che – appena sfiorati - lampeggiano invitanti, a post, informazioni e commenti ritenuti interessanti, o divertenti. Ne inserisco qualcuno anch’io. Trovo riflessioni e analisi che condivido: ad alcune ero arrivata da sola, altre mi risultano totalmente nuove.
Qualcuno mi fa incavolare e taglio la corda, lasciandomelo alle spalle, come farei con un seccatore che mi inseguisse per vendermi qualcosa. Oggi, che il Venditore non l’abbiamo messo alle corde, di chiacchiere sputate contro vento non sento il bisogno, ma di confronto sì, e di appartenenza pure.
Ho scritto un paio di “Ti capisco” e qualche “Abbiamo fermato la sua marcia trionfale."
Poi ho lasciato in giro qualche domanda: quelle che più mi frullano per il cervello: insistenti, fastidiose come mosche ronzanti. Cristo!, perché la sinistra non si compatta, non si coagula intorno a un ideale comune, a un obiettivo valido? Risposte me ne sono già date, ma magari mi è sfuggito qualcosa. Cos’è che mi spinge a andare per blog? E’ voglia di confronto, è risata, ghigno o sorriso che condivido. Ma anche passione, rigore logico, preparazione. E pure rabbia. Non mancano tristezza e malinconia.
E - non dimentichiamolo - speranza.
Ricordo mio padre, sindacalista, che diceva “La rabbia di uno è solo frustrazione e disperazione, la rabbia di tanti è forza, è dall’unione che scaturisce questa forza…” E sorrideva, negli occhi accesi gli brillava la speranza.
Perché nel web non è soltanto intelligenza connettiva e collettiva che prende forma, ma anche speranza che, alimentandosi di mille rivoli, potrebbe crescere … diventare uno tsunami: un’onda anomala che tutto travolge prima di ritirarsi lasciando sulla spiaggia, rubato alla profondità degli abissi, no, non una conchiglia ragazzi, qualcosa di ben più raro e prezioso.
Beh, qualcuno ha trovato un uomo, cinquantenne, sottile, elegante…
Un concentrato di speranza connettiva e collettiva.
E’ successo, è successo…
Dove, mi chiedete?
Negli Stati Uniti.

lunedì 8 giugno 2009

I veri vincitori

Poteva andare peggio. Tu hai rimesso in funzione il cervello, accorgendoti che fare la spesa è diventato ogni giorno più costoso, che in banca ti hanno chiesto di rientrare, che la scuola di tuo figlio è fatiscente, che i tempi della Asl sono una scorciatoia per il cimitero, che i giornali stranieri sparano a zero su di noi, che a tua figlia non hanno rinnovato il contratto…e che i reality sono sempre uguali, e pure quelle veline rifatte si assomigliano tutte. E poi ti lustri un po’ gli occhi ma nel letto, alla sera, ti trovi tua moglie con la crema sul viso e i capelli unti e siete talmente stanchi da non avere nemmeno la forza di litigare, figurarsi di fare altro.
Certo, in quei pochi minuti prima di crollare nel sonno, puoi fantasticare, uno su mille ce la fa…ed è proprio quello che presiede il Consiglio dei Ministri. È il Presidente: così alla mano, così furbo, uno che le barzellette le sa raccontare, che non ha paura di nessuno e che si è fatto da solo, non proprio come un lustrascarpe americano, ma insomma…siamo lì! Furbo? Sì, ma per farsi gli affari suoi. Non ci starà prendendo tutti per il naso? E ti addormenti e te lo sogni, ma è quasi un incubo e quando suona la sveglia sul comodino i primi risultati elettorali sono già pronti, riempiono la prima pagina dei giornali.
Il PD ha perso, ma è ancora lì. Come dice il Presidente i comunisti non muoiono mai, li credevi finiti e riemergono come gli zombi: morti viventi, ma deambulanti. Il PdL vince, ma non stravince.
Beh, tu non lo diresti al bar, ma non lo hai votato: insomma lui è più ricco di prima, ma tu sei nella m…da fino al collo. Di Pietro e la Lega furoreggiano. C’era da aspettarselo: il poliziotto piace ai moralisti (e qualcuno ancora c’è) e la Lega piace a chi pensa solo a se stesso e se ne frega degli altri( e ce ne sono tanti). Poi, a spizzico magnifico, si ritagliano un angolino i cattolici, e dimostrano di esistere ( duri e puri) i comunisti e i radicali, nonché nebulosi altri. Come un pizzico di pepe non servono a nulla, e lo sanno, tanto a loro basta essere più che fare ( anche perché caratterialmente portati a disfare…), ma un po’ di gusto lo danno.
Leggi scuotendo la testa: a votare tu non ci sei andato e, come te, tanti. Siete voi che avete vinto! Perché avete capito tutto: la politica è soltanto un teatrino e i partiti si scambiano le parti per recite sempre eguali.
Agli affaracci tuoi ci pensi tu.
“ Le serve lo scontrino?” sussurri con aria confidenziale.
Il cliente fa un cenno di diniego con la testa.
Tu respiri di sollievo e porgi la borsa di plastica.
“ Qua, se non ti fai un po’ furbo, ti scannano tutti. Anche il Berlusca. Ma io l’ho capito e non mi frega neppure lui!” pensi e passi lo straccio sul bancone fino a farlo brillare. Fischiettando.

domenica 7 giugno 2009

I Dellapicca (Una bambina diventa donna)

Soffiava il borin quella sera portando in città il profumo delle prime viole. Il pesco, nell’orto della locanda, in boccio fino al giorno precedente, era fiorito e Maria davanti allo specchio sbirciava pensosa la sua immagine. Anche lei sbocciava, l’abito che si accorciava e tirava sul seno, la massa dei capelli che luccicava dorata sotto il sole. Sentiva la primavera, ne avvertiva sulla pelle il tepore. Le sembrava che il mondo, visto con occhi di donna, fosse cambiato come se le giornate, che si andavano allungando in sere tiepide e chiare, fossero giornate d’attesa, e alitassero promesse che il vento le sussurrava all’orecchio. Alla gola le prendeva una sensazione di smarrimento. Suo padre non la lasciava quasi più uscire, e, nella locanda, si affacciava frequentemente alla porta a controllare che i clienti, che affollavano la taverna, non le dessero fastidio, senza capire che i modi grossolani, le risate sguaiate e il tono di voce troppo alto di quegli uomini li appiattivano agli occhi della figlia in un grigiore uniforme, rendendoglieli distinguibili quanto un gatto nero da uno grigio in una notte senza stelle.
Per questo motivo aveva colto subito la diversità di quel veneziano che era giunto alla locanda accompagnato da quel nero gigantesco. Aveva lavato la sua biancheria in fine tela di fiandra, pulito la giacca di velluto con i bottoni dorati, ricucito la manica strappata della veste in seta e, quando, una sera, con la cesta sotto al braccio, era entrata nella sua stanza, lui si era alzato dal letto e le aveva fatto un inchino, appena accennato, ma un inchino. Le aveva chiesto il suo nome, con quella parlata morbida, che sembrava scivolasse dalle sue labbra e ondeggiasse nell’aria. Poi l'aveva guardata in modo strano e aveva allungato una mano per afferrarla, ma lei gli era sfuggita, scappando intimidita dalla stanza. Aveva visto nei suoi occhi affiorare lo stupore, come se da lei si fosse aspettato qualcosa...
Cosa ci faceva un uomo come quello nella loro locanda? Cosa voleva da lei? Nei suoi occhi, quando la guardava, affiorava un calore acceso, quasi febbrile che la inquietava dandole la stessa sensazione che le provocava la bora infilandosi sotto alla gonna e scivolandole in una lunga gelida carezza lungo la schiena.
Aveva detto a suo padre di essere veneziano e di trovarsi a Trieste per affari. Cosa gli era successo quella sera in cui era rientrato ferito, quasi sorretto dal servo? Lei gli aveva portata in camera dell’acqua e dell’aceto e il nero gli aveva ricucito la ferita alla testa dimostrandosi molto abile nel farlo. Non sembrava un servo, a volte non si capiva chi tra i due fosse il padrone…Il veneziano portava un anello al dito sul quale era inciso uno stemma gentilizio. Era un nobile, ma dai borbottii di suo padre non era ricco perché aveva versato solo un acconto e continuava a rimandare il pagamento accampando scuse su problemi che sembrava avesse con una lettera di credito che non riusciva a convertire in denaro contante.
Chi era quell’uomo misterioso che, forse, si stava nascondendo. Da chi? E perché? E per quale motivo, ogni volta che lo vedeva l’emozione le tagliava le gambe e la timidezza l’ammutoliva?
Non le era mai successo, nemmeno quando, nel collegio di monache dove era cresciuta, era venuto il vescovo a dire messa e lei, che cantava da solista, aveva ricevuto una carezza da quell’uomo bardato di bianco e oro, l’anello che riluceva nel buio della chiesa con i santi che, minacciosi, si chinavano su di lei, alla luce delle candele votive nei fumi acri dell’incenso.
Dopo essersi appuntata un rametto di pesco sulla blusa, si pizzicò le guance e si annodò la treccia con particolare cura, poi, gli occhi chiari colmi di attesa, entrò nella locanda, scivolando leggera tra gli avventori, mentre nel vano della porta s’inquadrava la figura del Moro.
Dietro a lui, pochi minuti dopo, entrava anche il veneziano.
(continua...)

venerdì 5 giugno 2009

Elezioni europee

Dieci domande a cui rispondere sulle elezioni europee:

1°- Nati a Fidenza (Pr) vi sentite fidentini, emiliani, italiani o europei?
2°- Al di fuori della vostra cultura cosa c’è: il vuoto o un’altra cultura?
3°- Berlusconi è:
a) una persona aggredita
b) una vergogna per il Paese
c) un politico che dovrebbe rispondere alle domande che gli sono state poste
4°- Che Europa vorreste?
5°- Tornereste alla lira?
6°- Perché sì?
7°- Perché no?
8°- Ritenete che l’Europa sia stata in grado di dare una risposta comune alla crisi finanziaria che ha travolto i mercati mondiali?
9°- Conoscete la Costituzione Europea? (Il Trattato di Lisbona)
10° Quali sono le motivazioni che giustificano una risposta negativa o positiva al punto9?


Sono soltanto alcune delle domande che avrebbero dovuto costituire oggetto di riflessione
prima del voto odierno. Quanti elettori se le saranno poste?
OBAMA, WE LOVE YOU.

Era il 4 di giugno...

Era il quattro giugno del 1944, davanti alle coste della Normandia, in quel mattino che, tra le ombre della notte, si faceva largo scivolando sugli uomini in divisa, gli elmetti che brillavano appoggiati sulle ginocchia, le facce stanche di una notte insonne e i ricordi che arrivavano a folate, mentre la vita passata scorreva davanti agli occhi. Sapevano che pochi sarebbero tornati a casa, a bere il tè delle cinque, a sbadigliare nelle domeniche di riposo, quando i figli, petulanti, vorrebbero giocare e i padri, stanchi, vorrebbero dormire…Lo sapevano. Tacevano? Raggranellavano i ricordi, tutti fino all’ultimo, li passavano in rivista, come caporali esigenti la truppa , verificando che fossero presenti all’adunata, lustri, nemmeno uno fuori posto. Nelle tasche le bombe a mano e le fotografie , l’ultima lettera di una donna che, forse, non avrebbero più rivisto. Amore e morte intrecciati a dare sostegno a ginocchia che tremavano, a labbra secche, a gole strozzate. La paura che appestava l’aria in quelle scatole di sardine
che dondolavano sull'acqua aspettando l'ordine di sbarco.
Né dubbi, né incertezze in quel momento: fino all’ultimo uomo contro Hitler!
Perché la libertà non ha prezzo.
Poi, cimiteri, larghi come piazze, avrebbero raccontato di quella battaglia il massacro.Technorati Profile

mercoledì 3 giugno 2009

I Dellapicca (L'accordo)

Il Moro al suo rientro trovò Sigismondo che percorreva la stanza in lungo e in largo. Furioso.
“ Chi si crede quella ragazzetta? Con quella su aria da santarellina, in questo porcile dove vive, vorrebbe darmi a intendere…” Il Moro lo guardò, in silenzio, e il veneziano avvertì una pesantezza insolita in quell’assenza di parole, come se un giudizio negativo pesasse nell’aria, non comunicato verbalmente, ma espresso da quelle labbra serrate e dalla rigidità del collo taurino, mentre gli occhi dell’uomo scivolavano sprezzanti sul padrone.
“ Non ha capito con chi ha a che fare, un conte non l’ha mai visto, nemmeno dipinto, quella! Ha avuto le più belle donne di Venezia, il conte Sigismondo dei Dellapicca!”
Il Moro zitto.
“ Cos’hai da guardarmi, standotene lì impalato come un’acciuga in un barile di sale! Vai a dire a quella smorfiosa che il conte…”
La voce del Moro lo interruppe: “ Io non sono più in debito con voi: mi avete salvato dalla forca e io da quei briganti che, nel ghetto ebraico, vi avevano aggredito e vi avrebbero ucciso. Siamo pari, da questo momento in poi io vi servirò, ma dovrò essere trattato con rispetto.” E ripetendo quelle due parole, "Con rispetto" quasi spiegasse qualcosa di complicato a un interlocutore non troppo sveglio, il Moro si avvicinò alla finestra.
Sigismondo, dopo un istante di sbalordimento, alzò su di lui gli occhi ridotti a fessure, mentre dalle labbra, schiumanti saliva e rabbia, usciva qualche parola smozzicata, e il braccio si levava per schiaffeggiare il servitore.
Il gigantesco nero lo immobilizzò, prima che riuscisse a fare il minimo gesto, mentre sulla stanza calava un minaccioso silenzio e i due uomini, faccia a faccia, si fissavano negli occhi mentre l’orgoglio dell’uno si misurava con l’arroganza dell’altro.
“ E’ dura quando tutto cambia intorno a noi e non ci rendiamo conto che non possiamo più essere ciò che crediamo ancora di essere…” e, lasciandolo andare, il Moro concluse dicendo: ”Questo posso capirlo.”
Poi si sedette sul letto e, rivolto al veneziano, che ancora tremava di rabbia, gli disse: “ E ora parliamo d’affari. Ci sono navi che commerciano con le città della costa istriana e hanno bisogno di comandanti che sappiano affrontare tempeste, tentativi di ribellione a bordo, eventuali assalti corsari…Alcune di queste navi sono state costruite con capitali concessi dagli ebrei del ghetto e una, La Capinera, è rientrata senza il carico, gettato a mare durante una tempesta che ha danneggiato anche le vele. E’ un bel veliero e il proprietario non può onorare il prestito. Potremmo accordarci: voi dareste in garanzia i gioielli, io potrei assoldare alcuni uomini per sistemare le vele e poi reclutare un equipaggio, armare la nave e …”
Il veneziano lo ascoltava attento, pensieroso: “ E se capitasse pure a noi di non riuscire a consegnare il carico? Perderei i gioielli, non avrei di che pagare la ciurma e i creditori si rifarebbero sul veliero…”
Il Moro scoppiò in una risata: “ E chi vi dice che una volta preso il comando del veliero, questo non scompaia? Sui mari navigano decine, che dico, centinaia di velieri e galeoni che dovrebbero essere in fondo al mare “
Il veneziano sogghignò e concluse dicendo:”E quando altre navi li incrociano tagliano la corda temendo siano vascelli o velieri fantasma, e si sa che la gente di mare è per sua natura superstiziosa.”
“ Affare fatto” disse il Moro e il veneziano, assumendo un’aria sprezzante, disse:” Ma chi comanderò sarò io!”
“ Sulla terraferma, va bene, ma sulla nave sarò io a comandare e, ora, per festeggiare l’accordo, andiamo a bere. Sono stati giorni duri…”
(continua...)
Vi rimando a questa traduzione di un articolo apparso sul Times
Ritengo superfluo ogni commento

I Dellapicca (Presente e Passato s'intrecciano)

Il mattino seguente Sigismondo si svegliò con una faccia da pesce palla. Dolori e lividi dappertutto.
Il Moro era già uscito. Mentre stava per alzarsi sentì quel battere di nocche discreto che rompeva il silenzio della stanza. “Chi è? Che volete?” “ Vi ho portato del latte caldo, il vostro servitore…” ma Sigismondo borbottando un “ Entrate”, stizzito, aveva già interrotto a metà la risposta.
Il sole, già alto nel cielo, entrava dalla stretta finestra alla sua sinistra rivelando lo squallore dell’arredo e quando la giovane donna - investita da quel raggio prepotente e rivelatore che le incendiava la treccia, avvolta a incorniciare il volto in un’aureola da santa - si avvicinò al suo letto, Sigismondo rimase immobile. Lei si chinò, allungando la tazza verso di lui che continuava a fissarla incapace di muoversi,mentre lei restava lì in paziente attesa, già conscia e quasi rassegnata, nonostante fosse poco più di una bambina, al potere di seduzione che la sua incredibile bellezza le conferiva.
“ Ma era davvero così bella, nonna? Come fai a esserne così sicura?”
" Perché il marito, il conte Sigismondo le fece fare un ritratto…” le risposi.
“ Ma… dov’è questo ritratto. Io non l’ho mai visto?”
Io sorrisi pensando alla stranezza della vita, al modo in cui, così come succede alle acque carsiche che appaiono e scompaiono alla vista scorrendo tra grotte e percorsi sotterranei, anche il filo rosso di questa storia familiare che sembrava spezzato,si fosse riannodato, e non soltanto grazie alla tecnologia.
A Venezia, fin dal primo momento in cui, in gita scolastica, mi ero infilata nelle calli, incantata dalla bellezza di quella straordinaria città, mi ero sentita a casa. Nulla mi sfuggiva del luogo: sembravo conoscere le piazze, avere già visto i palazzi e il tramonto che incendiava le cupole e stordiva colombi e  gabbiani, ma era soprattutto il dialetto, quel nostro lessico spesso parlato in casa, a essermi familiare. Era il veneziano di Goldoni che io avevo usato, appena arrivata in quella città e quasi senza rendermene conto, come se l’avessi conosciuto da sempre. E quella piazzetta di cui conoscevo ogni angolo, anche l’approdo dove una gondola sontuosa e nera dondolava in attesa…
Ero ritornata a casa sconvolta, in preda a una violenta emozione che mia madre aveva attribuito alla stanchezza del viaggio, senza dare troppo peso alle mie chiacchiere. Ma il giorno dopo parlando con lei, con più calma, le avevo raccontato di avere provata la sensazione di esserci già stata, di averla dentro quella città, nei cromosomi, nel cervello e nell’anima…
Lei aveva sorriso dandomi spiegazioni razionali. Quella città, sueprba anche nella sua decadenza, aveva sempre affascinato i visitatori, quindi, ero in buona compagnia. Ma di quel dialogo tra me e mia madre mi aveva colpita ben altro: quella frase buttata lì con indifferenza. “ La nostra famiglia viene da Venezia. La nonna mi raccontò che sua madre aveva saputo da un vecchio che il primo Dellapicca del paese era stato un nobile veneziano era arrivato in quel paesino sperduto dell’Istria accompagnato da una donna di straordinaria bellezza e da un nero ”.
(continua...)

I Dellapicca

Sigismondo si voltò, atterrito, e i due uomini che lo seguivano gli furono addosso. Cercò di aprirsi un varco per scappare ma, mentre uno dei due gli bloccava le braccia, l’altro gli allungò un paio di pugni, colpendolo prima allo stomaco a poi, pesantemente, al viso. Sentì il sapore aspro del sangue che gli entrava in bocca. Sputò, le mani contratte sul petto in un estremo tentativo di difesa di tutto ciò che ormai gli restava, ma lo strappo della camicia e quelle mani avide che brancolavano sul suo petto, gli fecero capire che era stato derubato. La rabbia e la disperazione gli diedero una forza e un coraggio che non avrebbe mai sospettato di possedere. Si lanciò urlando su uno dei due, e incominciò a colpirlo istericamente, mettendo in quei pugni tutta la rabbia, il dolore, la disperazione che in qualche modo fino a quel momento era riuscito a dominare. Vedeva solo il colore rosso del sangue, lo masticava cogliendone il gusto aspro mentre urlava: “ Vi ammazzo, cani bastardi, vi ammazzo, fosse l’ultima cosa …” ma, improvvisamente, l’uomo che stava davanti a lui sembrò sollevarsi da terra, lo sguardo incredulo che lo fissava, le gambe che si agitavano come se un puparo ne avesse tirato i fili. Sentì il tonfo del corpo che finiva contro il muro, seguito pochi secondi dopo dal compagno che gli si afflosciava addosso in un intreccio miserevole e scomposto di arti che sembravano disarticolati. A terra il sacchetto da cui erano fuoriusciti alcuni gioielli. Il Moro inginocchiato li stava raccogliendo.
Sigismondo crollò sulle ginocchia, passandosi la mano sul viso: “ Fossi arrivato un momento più tardi…. avessi avuto un coltello li avrei scannati. Come hai fatto a trovarmi?”
“ L’ho seguita, da lontano…
” Aspettavi che mi ammazzassero?”
“ No” rispose calmo il servitore “ ma, dato che aveva deciso di andarci da solo… “
“ Allontaniamoci prima che arrivi qualcuno” esclamò il veneziano, avvolgendosi nel mantello.
“ Non pensavo fosse in grado…” disse il Moro, seguendolo.
“ Nemmeno io” mormorò Sigismondo e, così dicendo, raddrizzò le spalle, nonostante il dolore gli attanagliasse lo stomaco.
Dopo poco più di mezz’ora si trovarono di fronte all’insegna di latta della locanda.
Entrarono. La figlia dell’oste era dietro al bancone e quando vide la faccia tumefatta di Sigismondo si avvicinò sollecita.
“ Cosa vi è successo, signore? Siete stato aggredito?"
Il Moro le disse: “ Non si preoccupi, ma ci porti in camera dell’acqua e un po’ d’aceto."
(continua...)

martedì 2 giugno 2009

L'aspirapolvere che non c'è

Così simpatico, un gran chiacchierone, ma spiritoso quel piazzista. E poi bravo. Ah!, sul fatto della bravura, proprio non ci piove. Perché l’aspirapolvere che mi ha venduto è un piccolo gioiello, macché piccolo, diciamo le cose come stanno: é un gioiello e basta! Pensa che collegando al motore una sorta di cappuccio, lo si può utilizzare anche come casco da parrucchiere. Non ci credi? Quanto l’ho pagato? Un po’ più degli altri, ma mi sembra normale: ha dieci funzioni.
Ricapitoliamo: prima di tutto assorbe la polvere dai tappeti. Vrum, vrum, vruuum, vru,vr…v. Com’è che non si accende? Cristo Santo, ma è un giocattolo. E’ finto! Ma io lo denuncio a quel bastardo…118, sì chiamo il 118! Cosa dice, se l’ho lasciato solo? La borsetta? Ma non è possibile, mi ha fregato pure il portafogli!!
Affranta crollo sulla poltrona: ma sembrava…sembrava una brava persona e poi la simpatia. Uno che con le donne ci sapeva fare, eccome se ci sapeva fare. Al carabiniere non l’ho detto…alla mia età e…con uno sconosciuto. Eh già, questo non lo posso dire. Consenziente? Beh, mi ha rincitrullita di chiacchiere!
Me lo diceva mia nonna, pora donna anche lei: “Non fidarti degli uomini! Di nessuno, ma in particolare di quelli che chiacchierano troppo, ridono troppo, raccontano barzellette, hanno le mani lunghe e l’occhio insolente. Sono i peggiori e, non te lo dimenticare, non sono simpatiche canaglie, sono canaglie, punto e basta!
Dal soggiorno arriva petulante il gracchiare del televisore acceso.
La tivù inquadra il Presidente del Consiglio che sfodera sorrisi, battutine, barzellette.
Barzellette? E cosa accarezza con la mano? Sarà un’allucinazione da vecchiaia incombente, ma sulle ginocchia ha un aspirapolvere…modello? Modello Europa, naturalmente!

lunedì 1 giugno 2009

Il Paese al bivio

Avevo scritto un post su una principessa giovanissima e avvenente, baciata da un rospo, che nemmeno il più infuocato dei baci avrebbe potuto trasformare in principe e, tanto meno, azzurro,ma continuavo a cancellare, modificare e aggiungere, come sempre mi succede quando scrivo sull’onda di ciò che ho letto, che ho sentito o sento in giro, e “qualcosa” mi dice che sto sbagliando.
La povera Noemi è ormai stata superata e travolta dalla Storia, che nulla ha più a che fare con la sua, eventuale, banale storia con il leader di Forza Italia, nonché Presidente del Consiglio di questo Paese, nonché l’uomo che ha spaccato in due, di nuovo, il popolo d’Italia, diventando l’ideologo di un modo di essere e quindi di fare, anche politica.
Berlusconi temendo che si incrinasse la sua immagine, così abilmente e faticosamente costruita, in seguito alla ben nota vicenda, ha peccato d’ingenuità e ha sottovaluta il suo osannante popolo, al quale di ciò che lui fa nelle sue feste private non gliene può fregare di meno (abbiamo una lunga tradizione di personaggi ben più importanti di lui che hanno fatto di peggio, i papi insegnano), ma di ciò che può consentire di fare a lui, intendo al popolo in questione, interessa molto di più.
La crisi incombe e il Governatore della Banca d’Italia, ha dichiarato senza mezzi termini che ci sono riforme che s’impongono, altrimenti il Paese affogherà miseramente. Anche la Confindustria ha fatto sentire la sua voce; è necessario intervenire:sulle infrastrutture, sulle pensioni, sulla spesa pubblica, sull’evasione fiscale…
E’ fondamentale, a questo punto, il comportamento dell’Italietta che ha dato il voto a Berlusconi: quella del malaffare, del “tengo famiglia” del “mi arrangio”, dell’omertà mafiosa del “non m’impiccio”. Il leader è ancora in grado di fare i loro interessi? Se la risposta che darà questa parte del Paese sarà negativa, lo getteranno a mare, affermando con ben simulato sdegno”Non avremmo mai pensato fosse un uomo di questo stampo… Beh! siamo padri di famiglia.”
Sul rigore, si sa, è più affidabile la Sinistra, a maggior ragione oggi, dopo aver dimostrato nei suoi esperimenti di governo notevole ispirazione al compromesso.
Il resto del Paese, che non lo tollera, sta già facendo la fatica di scoprire e provare nei più minuti particolari la presenza di bugie e altre simili nefandezze.
La moglie non si presta più a fare la sua parte nell’oleografia di famiglia. Non arrivano notizie rassicuranti nemmeno dalla Chiesa. E i compagni di partito? Temono che diventi una mina vagante?
E se il siluro arrivasse da un’altra parte?
Una voce sussurra ”On n’est pas trahi que par le siens”.
Staremo a vedere.