mercoledì 19 marzo 2008

Piccole donne crescono

Mi sei venuta incontro alla stazione, alta, sottile, il passo lungo ed elastico che tanto ricorda il mio. Gli occhi, quei tuoi occhi da scugnizza napoletana, che ridono appena mi individui tra la folla, mentre, un po' spaesata, seguo la fiumana di gente che mi circonda sospingendomi verso l'uscita. Dopo pochi minuti saliamo in macchina: guidi sicura nel caos della grande città e io ricordo...
Eravamo in macchina anche allora, ma tu eri una ragazzina che frequentava la prima liceo e al volante c'ero io che, sicura, mi avventuravo per vie sconosciute, con te accanto che mi facevi da "navigatore", alla scoperta della città dove ci eravamo appena trasferite. Cercavamo casa. Ne vedemmo parecchie, infastidite da agenti immobiliari eccessivamente zelanti che, per settimane, contando sulla nostra aria sprovveduta e provinciale, ci sciorinarono davanti agli occhi quanto di peggio il mercato era in grado di offrire.
Poi trovammo quello scalcinato appartamento - quarto piano senza ascensore - casa vecchiotta d'inizio Novecento, una cucina enorme con un camino che mettemmo subito in funzione, cuocendo le patate e le mele nella cenere calda, la fiamma che danzava sulla parete, mentre brindavamo alla casa nuova, alla nuova città e a quella che - speravamo - sarebbe stata una nuova e migliore vita. I tuoi fratelli frequentavano l'università in un'altra città, tuo padre era lontano, eravamo separati da molto tempo, ormai.
In quella casa abbiamo passato anni difficili, lo sai, ma tu sei cresciuta, ti sei laureata, e in quella Milano che cominciavi a conoscere strada dopo strada, quartiere dopo quartiere, ti sei innamorata. Quando tu e il tuo ragazzo vi siete lasciati, hai pianto sulla mia spalla. Il camino era spento, tracce di cenere ingrigivano la cucina. Fuori, nella sarabanda infernale della città, sferragliavano i tram, singhiozzavano i clacson e ululavano le sirene delle autoambulanze.
Hai scelto un lavoro creativo, riponendo in un cassetto ordinato la tua laurea e la mia delusione. Mi avevi seguita per anni nei mercatini, occhieggiando curiosa. Collezionista nata, conservavi tutto: cartoline, quaderni scolastici, sassi, conchiglie, fiori secchi, tappi di spumante, tazzine spaiate e cucchiaini d'argento. La tua stanza era un tripudio di colori e scansie sovraccariche di oggetti. Tornavi dai mercatini stringendo al petto i tuoi tesori che invadevano la casa, confondendosi con i miei libri, in un disordine che io tentavo, arrabbiandomi invano con te, di arginare. Cresciuta con un padre lontano, troppo assente anche per un padre separato, montavi le mensole, usavi trapano e martello con la stessa destrezza con cui utilizzavi mattarello o formine per i dolci.
Siamo state bene insieme: ti ho visto crescere e affrontare al vita senza mai tirarti indietro, mentre da ragazzina ti facevi donna, e gli uomini, quando passeggiavamo per Milano, si voltavano a guardarti.
Insieme, abbiamo imballato oggetti e trascinato scatoloni, montato e smontato mobili, dipinto stanze, cucinato torte e farcito tartine. Insieme, abbiamo passato - con tuo fratello, tuo padre e tuo cognato - quella lunga notte seduti sui gradini dell'ospedale ad aspettare che Alessandro venisse al mondo, contagiando di vita sua madre, tua sorella.
Tu, la piccola come ti abbiamo sempre chiamata, sei diventata, senza che ce ne accorgessimo, grande, mentre il tuo posto, in questa girandola che senza sosta tutto tritura, passava a Martina, l'ultima piccola donna di famiglia.