sabato 3 aprile 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°8)

Sul giardino calò il silenzio mentre, accanto ai fantasmi evocati dalle parole di Gloria, anche i miei risalivano lungo i percorsi della memoria e quella parata di spettri invadeva compatta lo spazio e il tempo che ci ospitavano.
"Si può dimenticare? Andare avanti?" balbettai rompendo finalmente il silenzio seguito alle sue parole.
"Non si deve dimenticare. Mai e per nessun motivo!" mi rispose.
"Mio padre fu imprigionato nel '45", le dissi aggiungendo "Passò ad Auschwitz pochi mesi. Forse fu per questo motivo che riuscì a salvarsi".
"Forse?"
"Non ha mai raccontato nulla. Ritornò un altro uomo dalla prigionia: diffidente, violento, cupo. Ricordo che ricevette una lettera da un prigioniero e la strappò in mille pezzi... Poi, quando qualcuno tentò di contattarlo anche telefonicamente si negò,alzando una rete di filo spinato intorno ai ricordi di quel periodo: penso nel tentativo di impedire alla sua memoria di tormentarlo. Ma i ricordi riaffioravano sotto forma di incubi, incubi che lo svegliavano nel cuore della notte facendolo urlare terrorizzato. In quel campo di sterminio mio padre lasciò la sua anima...".
Gloria mi guardava mentre parlavo con la voce incrinata, i ricordi di quel padre, di cui avevo con mia madre atteso con ansia il ritorno, che risalivano dolorosi dalla memoria.
"Era così profondamente cambiato nell'aspetto e nel carattere da sembrarci, quando ce lo ritrovammo di fronte allampanato, scheletrito, lo sguardo sghembo e spaurito... un'altra persona. Uno sconosciuto".
Gloria mi ascoltava attenta e quando mi vide piangere rimase immobile, l'espressione del volto dolente, le spalle piegate e le mani strette in grembo agitate da un tremore irrefrenabile. Ma i suoi occhi, quando ne incrociai lo sguardo, avevano la fissità degli occhi delle sue bambole. Erano occhi che il dolore non lo conoscevano, si limitavano a mimarlo, anche se sapientemente.
Dopo un istante disse:
"L'ultimo della famiglia a morire fu mio padre... Ho passato tutta la vita a cercare testimonianze, a frugare nel dolore dei sopravvissuti, a scavare per trovare i responsabili. I miei genitori avevano cambiato cognome, città. Qualcuno deve averli traditi. Avevano acquistato la villa, dove furono arrestati, sotto falso nome, ma la loro ricchezza doveva avere ingolosito qualcuno, qualcuno di cui mio padre si fidava..."
"Che lavoro faceva tuo padre?" le chiesi.
"Era un antiquario" mi rispose.
"Un antiquario con la passione delle bambole?"
"Per la nostra storia molti di noi hanno cominciato facendo i robivecchi, allestendo mercatini, commerciando in oggetti usati... " mi rispose, distratta. Poi fissandomi mi disse:"Forse ad Auschwitz i nostri padri si erano conosciuti?"
"Non posso esserti d'aiuto. Ti ho appena spiegato... "
"Quando tuo padre morì" lei m'interruppe.
"Come sai che è morto?" le chiesi senza lasciarle finire la frase.
Mi lasciò scivolare addosso quello sguardo freddo e, dopo un'esitazione quasi impercettibile, mi rispose:"Parlando di tua madre mi dicesti che era vedova".
Non me lo ricordavo, ma era probabile fosse vero.
Lei completò la frase riprendendola dall'inizio:"Quando tuo padre morì, tra le sue carte non ritrovaste nulla che potesse ricollegarlo alla prigionia?"
"Sì, trovammo qualcosa".
Lei mi guardò e una vampata di calore la fece arrossire. Violentemente.(continua...)