sabato 31 ottobre 2009

A Oriente il cielo schiariva annunciando il nuovo giorno, mentre stridulo si levava il canto del gallo. Dalle stalle le vacche, le mammelle gonfie di latte, richiamavano i contadini alla mungitura con il loro lamentoso muggito.
Maria si avvolse nello scialle alla ricerca di un po' di calore smuovendo con l'attizzatoio i carboni e gettando della legna nel camino. Guardò oltre i vetri avvertendo l'estraneità di quelle alture dove i boschi si rincorrevano assediando i villaggi dell'interno: casupole affacciate su piazze con l'immancabile chiesa ortodossa e l'osteria di fronte. In mezzo un invisibile confine, con le donne a pregare da una parte e gli uomini a smadonnare dall'altra davanti a un bicchiere di grappa. Sospirò prima di voltarsi e avvicinarsi, per l'ennesima volta nel corso di quella notte, al letto spiando il volto del Moro che, fino a poco prima contratto in una smorfia di dolore, appariva ora disteso e con un accenno di sorriso sulle labbra.
"Svegliatevi, è una bella giornata... Ve la sentireste di buttare giù un po' di... ?", ma non aveva finito la frase, accompagnata da una carezza, che la sensazione di freddo avvertita dalla mano le passò al cuore e al cervello, dove esplose urlandole dentro quella verità che i suoi occhi si rifiutavano di vedere.
Il suo urlo arrivò fino alla camera di Sigismondo, che svegliato da un incubo e ancora sotto l'effetto nefasto di quelle immagini notturne che gli ronzavano nella testa aveva invano tentato di riprendere sonno, gettandolo giù dal letto e facendogli afferrare la giacca mentre dalla porta entrava Maria in lacrime. Sigismondo l'abbracciò cercando di calmarla, ma la moglie si scostò bruscamente, quasi non volesse condividere il suo dolore.
A disagio Sigismondo borbottò:"Mi dispiace... erano troppo gravi le ferite; non è riuscito... " mentre lei gli piantava addosso gli occhi, dicendogli:" Vai a chiamare Jovanka; dobbiamo prepararlo" e, quasi parlasse tra sé e sé, sussurrava ancora a voce bassa "Altro non posso fare per lui, ma è ben poco rispetto a quello che ha fatto per me e mia figlia"
I suoi occhi si posarono ostili sul volto del marito che sotto quello sguardo ricordò l'incubo notturno: la moglie che si allontanava senza nemmeno voltarsi indietro, mentre lui si sgolava a chiamarla, la gola contratta e incapace di emettere parola.
In quella notte appena trascorsa, quell'incubo che l'aveva svegliato era forse un avvertimento, un segnale del quale avrebbe dovuto tenere conto? "Oh mio Dio" pensò "sto diventando superstizioso. A furia di sentire parlare di fantasmi e premonizioni finirò per vedere un asino che vola". E, scuotendo il capo, si vestì in fretta e uscì nel giorno che ormai illuminava il paese, senza riuscire però a scrollarsi di dosso quella sensazione, quasi il presentimento di un pericolo incombente.
Trovò Jovanka sveglia, sul volto le tracce evidenti di una notte insonne. Non fu necessario parlare, alla donna bastò quel gesto sconsolato delle mani per capire e dare sfogo al proprio dolore.
"Maria vi aspetta, doveste aiutarla a... " borbottò, quasi infastidito da quella ostentazione di dolore così insolita nel suo ambiente, dove l'educazione imponeva il controllo dei sentimenti, il riserbo e la compostezza.
"Devo andare. Mi aspettano" concluse e, con un breve cenno del capo, si allontanò mentre i ricordi e il rancore riaffioravano prepotenti incupendogli lo sguardo.

martedì 27 ottobre 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Il Moro era caduto in un sopore mortifero e Maria spesso si avvicinava alla sua bocca per sentirne il respiro, tremando. Sigismondo si era offerto di farle compagnia in quella prima notte che si preannunciava lunga e insidiosa per il ferito, ma la moglie guardandolo negli occhi con l'attenzione che scaturisce automatica nei momenti di angoscia aveva colto nel suo sguardo soltanto pietismo di facciata, ben lontano dal dolore che lei stava provando e, con un gesto di stanchezza, l'aveva invitato a non insistere. E, infatti, Sigismondo, quasi sollevato, era andato a letto e appena messa la testa sul cuscino si era addormentato, ignorando che quella notte i suoi sogni si sarebbero popolati di incubi.
La moglie, nella stanza del ferito, era stata assalita dal peso dei ricordi: il Moro, la prima volta in cui l'aveva visto, nel pieno della sua prestanza fisica si era materializzato davanti ai suoi occhi, inscindibile da Sigismondo che, seduto a un tavolo nella locanda dei suoi genitori, cercava di darsi un contegno, lo sguardo fisso sulla porta nella speranza di vedervi inquadrata la figura del servo che, appena entrato con la sua sola presenza, aveva fatto capire di che pasta fosse fatto, benché Sigismondo l'avesse trattato con notevole alterigia. Quel rapporto di sudditanza era rapidamente cambiato tra i due uomini, soprattutto a causa sua, perchè era lei all'origine di quella sfida che li aveva resi nemici. Giovanissima e ignorante, crescuta tra i tavoli di una locanda - ascoltando anche i consigli di sua madre e con la lusinga di diventare la contessa Dellapicca - per vanità, per pura vanità, aveva sposato il conte Sigismondo. Al pranzo seguito alle nozze, il Moro si era chiuso nel mutismo e, dopo poco più di un'ora, se n'era andato scusandosi, quando il padrone con un sorrisetto si era alzato da tavola salendo al piano superiore per chiudersi nella stanza da letto. Aveva avuto subito la sensazione netta di aver fatto un errore, di avere sposato la persona sbagliata. Il gigantesco nero l'aveva protetta e... amata fin dal primo momento in cui l'aveva vista. Poi, nel tempo, aveva potuto apprezzare l'intensità di quell'amore, tradito dalle occhiate dell'uomo che la seguivano con troppa insistenza, posandosi sui suoi fianchi, mentre i suoi occhi si accendevano, quasi a evocare il calore della sua terra e la malia di una passione che piano piano l'aveva contagiata. Ed era cominciato quel gioco di sguardi, lo sfiorarsi in un crescendo di desiderio, lei tra le braccia del marito che pensava a lui... fino a quella notte, quella notte in cui ubriaca di parole e desiderio l'aveva seguito: il canto delle sirene nelle orecchie, negli occhi stelle, manciate, grappoli di stelle e spicchi di luna. In quella notte di passione, fusi senza soluzione di continuità come cielo e terra all'orizzonte, erano piombati in un gorgo azzurro che al mattino l'aveva restituita a se stessa e al mondo con occhi, sorrisi e mani sapienti di donna... che mai più avrebbero dimenticato.
Ma c'era stata la paura del parto, l'angoscia di non sapere di chi fossero i figli che si portava in grembo, la lontananza dal Moro e tutta la sofferenza che ne era seguita, che le avevano fatto accantonare in un angolo buio della mente il ricordo di quella notte di passione che, ora, prepotente le tornava alla memoria, mentre quasi in attesa degli eventi fissava le scintille che, come lucciole in un prato, rompevano l'oscurità che era piombata sulla stanza.

lunedì 26 ottobre 2009

Amour fou

E' arrivata in una giornata di pioggia, infreddolita. Solo occhi, quei suoi occhi da gazzella inseguita, che spuntavano da sotto il berretto. Le prime parole, con al fondo un tremolio di gola, tradivano il nervosismo e la tensione che le sigarette aspirate in fretta, una dopo l'altra, non sarebbero riuscite a contenere. Un'amica. Ammalata d'amore, d'amour fou. Non capirò mai l'alchimia misteriosa di questo sentimento, la sua forza e la sua contemporanea inconsistenza. Mi resterà misterioso quel suo calarsi, con l'avidità fulminea di un falco, sulla preda arpionandola per trascinarla verso il cielo, inerme e rassegnata al proprio destino. Spesso è "colpo di fulmine", attrazione fatale che sembrerebbe incastrare tra loro, in un abbraccio indissolubile, più vulnerabilità freudianamente intuite che affinità elettive. Ciechi come gattini appena nati e sordi a qualunque argomentazione diversa dal canto di sirene omeriche che soltanto l'altro sa evocare, perdiamo le coordinate abituali dell'andare.
Parlare, spiegare, argomentare dall'esterno: tutto tempo perso, perché l'unico tempo valido sarà quello che una mattina, improvvisamente, riporterà alla data segnata sul calendario, al mese scritto sull'agenda, alla vita di tutti i giorni e alla fine dell'incantesimo che, come tutte le malie, ha in sè un fondo di dolore, di tirrania, di crudeltà che in qualche amore prende il sapravvento, trasformando il rapporto in un gioco al massacro. E l'interminabile elenco delle donne (perché sono soprattutto donne le vittime) uccise "per amore" ne testimonia la forza distruttiva, l'uso che di questo sentimento può essere fatto.
Ancora oggi? Oggi che le donne dovrebbero essere più colte, preparate, critiche? Perché? Una domanda alla quale posso solamente tentare di dare qualche risposta, facendo delle ipotesi. Forse nell'incontro con un uomo riemergono dolori antichi, vuoti affettivi mai superati che - così ci dicono - risalirebbero all'infanzia. Ora, adulte, vorremmo saldare finalmente quei conti in sospeso, liberarci da situazioni familiari difficili che ci hanno fornito modelli di riferimento, sia maschili sia femminili, distorti e problematici.
Da un punto fermo dovremmo partire: la differenza tra i bisogni e i desideri.
Il bisogno è una catena, un laccio al collo, è un uomo che non ci piace, non stimiamo, che legge solamente fumetti mentre noi siamo topi di biblioteca, affoga in mille parole di cui noi consideriamo superflua la metà, adora il calcio che noi non tolleriamo, passerebbe la vita al mare e a noi - pelle da protezione cinquanta - il mare dà l'angoscia.
Cosa ci unisce? Non lo sappiamo, ma sappiamo che non "possiamo" stare senza quell'uomo. Più corretto sarebbe dire che non possiamo fare a meno del clima da guerriglia urbana in cui ci fa vivere. Non ho detto non vogliamo, ho detto non possiamo. Come alcolisti obbligati a trangugiare anche alcool denaturato per soddisfare i loro bisogni, instauriamo una "dipendenza affettiva" all'interno della quale non saremo più un uomo e una donna, ma una vittima e un carnefice. A questo punto si arriverà allo scontro frontale, senza esclusione di colpi, al "J'accuse" interminabile, condito di pianti e promesse finali di cambiamento, alle nottate di insulti e recriminazioni protratte fino alle prime livide luci dell'alba che illumineranno lo sfacelo: questo inferno che abbiamo messo in piedi e che chiamano amore. Poi ci saranno i tentativi di lasciarsi, monotonamente uguali nella loro ripetitività: uno che se ne va, l'altro che lo segue. Qualche volta si resisterà per una settimana o giù di lì, poi si tornerà comunque a casa con la sensazione di aver commesso l'ennesimo errore. La vita diventa, a questo punto, una prigione nella quale ci si rinchiude volontariamente, attaccate alle sbarre e guardare, disperate, le vite degli altri. Vite normali che a noi sono precluseperché noi non siamo libere. Dentro. La vera gabbia che ci racchiude è in noi, relegata in luoghi reconditi della memoria. Sono ricordi che lasciano tracce di sé nei sogni, nei lapsus, nel dolore di vite in cui si è obbligati a scavare, a cercare il bandolo di una matassa arruffata che prima o poi dovremo dipanare. Perché soltanto la libertà interiore, che l'aver guardato in faccia i propri demoni - meglio se con l'aiuto di uno psicologo - permette di conquistare, ci consentirà di scegliere un uomo sulla base, questa volta, di motivazioni valide nel determinare comportamenti e scelte, come l'affinità o il rispetto della diversità.

domenica 25 ottobre 2009

Neri occhi da falco

Nel deserto
stelle
grappoli di stelle
quella notte

I miraggi
son sogni?

Neri occhi
da falco
Pelle
come latte di capra appena munto
bianca.

Sei figlia di un predone
e hai gli stessi occhi di tuo padre.

Partirai su navi corsare
e il vento
ti sarà carezza

Non mente il sangue,
figlia mia.
Non mente
mai

sabato 24 ottobre 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Daviça e Maria si squadrarono per un lungo istante, mentre Blanko, buttata giù in fretta la sligoviça, si dirigeva verso l'uscita del locale, scontrandosi con alcuni uomini che stavano entrando sorreggendo una coperta afferrata per i lembi, sulle quale avevano adagiato un uomo.
Maria si precipitò a liberare un tavolo per sistemarvi sopra il ferito, mentre gridava alla figlia di correre a chiamare il barbiere.
" Ma come è successo?" stava chiedendo Blanko che si era avvicinato per aiutare.
L'uomo appena disteso sul tavolaccio emise un gemito e aprì gli occhi.
Maria, che si era chinata sul ferito, scoprendo che si trattava del Moro e vedendo che aveva ripreso conoscenza, gli sussurrò: "Oh, mio Dio, ma siete voi... Siete ferito? Cosa vi è successo?" mentre, slacciatasi il grembiule, tentava di tamponare il sangue che sgorgava dalle numerose ferite.
Incuriosita dalle grida e dal trambusto, uscì dalla porta che dava sul retro del locale anche la donna che aiutava Maria in cucina. Si avvicinò al tavolo e quando riuscì a vedere in faccia il ferito si portò le mani alla testa gridando frasi sconnesse. Poi, dopo aver scostato con prepotenza Maria prendendo il suo posto accanto al tavolaccio, invocando santi e madonne afferrò la mano dell'uomo, mentre si spalancava la porta d'ingresso e Benedetta, seguita dal barbiere, si precipitava nel loocale.
"Dategli un po' d'aria, anzi uscite, uscite tutti e aspettate fuori..." e, accompagnando le parole con un gesto significativo, Maria, dopo aver fatto sgombrare il locale, mandò la figlia a prendere dei panni puliti e l'acqua per lavare le ferite. Il barbiere stava palpeggiando il ferito, piuttosto infastidito dalle invocazioni d'aiuto dell'altra donna che, quasi gettata addosso all'uomo, sbraitava e piangeva, incapace di fare altro.
Il Moro respirava a fatica lamentandosi e borbottando qualcosa tra i denti, mentre il barbiere, dopo aver bruscamente fatto cenno alla donna di scostarsi, invitava Maria ad avvicinarsi per aiutarlo.
"Jovanka vai a mettere le lenzuola pulite sul mio letto, appena medicato avrà bisogno di riposo" ordinò Maria, usando un tono nel pronunciare queste parole che non ammetteva replica.
Quando la donna fu uscita si chinò sull'uomo sussurrandogli "State tranquillo! Ci vuole ben altro per mandarvi all'inferno..."
Il ferito sembrò calmarsi, mentre Benedetta appoggiava il catino su una seggiola e allungava un panno pulito al barbiere.
"Dovrò cucire la ferita alla testa: fategli bere della grappa e dategli un panno da mordere mentre gli sistemo la gamba".
"E' fratturata?" chiese Maria
"Sì"
Benedetta andò al bancone, prese una bottiglia e colmò un bicchiere, poi si avvicinò al tavolaccio e, mentre sua madre sollevava la testa del ferito, riuscì a fargli scivolare in gola il contenuto del bicchiere.
Il barbiere aveva intanto afferrato la gamba e con un gesto deciso, al quale fece seguito un urlo strozzato, l'aveva raddrizzata
"Per fortuna è svenuto" borbottò cominciando a ricucire la ferita alla testa.
" Ora steccheremo la gamba... Poi sarà quel che Dio vorrà. E' conciato piuttosto male e non è giovane, anche se è un pezzo d'uomo" concluse, scuotendo il capo.
Maria si afflosciò sulla seggiola mentre, prepotenti, le salivano alla memoria i ricordi.

Parole

Era una collezionista di parole: rare, inusuali, passate di moda. Qualcuna trovata sul vocabolario, altre rubate ai dialetti delle nonne per non farle morire con loro. A volte, quando faceva fatica ad addormentarsi, le ripeteva lentamente, ne riempiva la stanza per non lasciare spazio ai fantasmi della notte, per farne tane in cui nascondersi, trovare scampo - anche se soltanto per un istante - al fiato sul collo della vita. Era anche per questo che leggeva: per trovarne di nuove, anche se, a volte, ne inventava una. L'aveva sempre fatto e ricordava ancora quei segni blu che, negando le sue parole inventate, avevano tentato d'imbrigliare anche la sua fantasia, ma senza riuscirci. Lei diceva e scriveva ancora nerovestita e fanfarulla.
Nei giorni di festa, in cui le parole scoppiettano come pop corn, ne faceva ghirlande di cui adornarsi, coltelli quando si difendeva o attaccava, muri quando voleva tenere lontano il mondo. Per amare sceglieva quelle che scivolano in gola, in un gorgoglio dimenticato di liquori fatti in casa, macerando petali di rose selvatiche o lamponi. Un giorno cominciò a incatenarle una all'altra, per non farsele più sfuggire, per imprigionarle come principesse troppo amate e troppo belle, da sottrarre all'altrui desiderio. Fu così che cominciò a scrivere.

Amarcord

Fioriva l'ibisco nel giardino sotto casa, rosso stendardo che accendeva il mattino e tu, tu balbettavi...Anche le tue labbra, bugiarde, arrossivano. La gelosia mi accecava di furore, ma mi avevano educata a contenere l'ira, a filtrare le passioni. Forse avevano tentato di educarmi a non viverle. Per questo tacevo? Per questo fingevo di non capire, di non notare il disagio che le parole servili, al soldo di ogni bandiera che le faccia volare, tentavano di giustificare?
E quel sorriso che ti fioriva sulle labbra, come il fiore dell'ibisco che soltanto un giorno dura, più non mi apparteneva. Erano già suoi i tuoi sguardi che avevano riscaldato i miei inverni, e suoi sarebbero stati i tuoi passi, che da me ti allontanavano, mentre mi baciavi sula guancia, il caffè si freddava nella tazzina e il sole esplodeva conquistando un altro giorno.

giovedì 22 ottobre 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Blanko entrò nella locanda. Nonostante la testa leonina cominciasse a ingrigire, restava sempre un uomo sul quale scivolavano, non viste, le occhiate delle donne. Erano passati alcuni anni dalla morte del fratello e la faida tra le due famiglie pur non avendo provocato altri morti, incombeva, come un borbottio di tuono in un cielo azzurro, sui componenti di entrambe le famiglie che vivevano nel timore di nuove aggressioni e di un pareggiamento di conti al quale Blanko sentiva di essersi sottratto. Non avendo avuto altri figli il legame che lo univa a Zastros, soprattutto dopo la morte del fratello, si era fatto sempre più stretto. Il bambino era cresciuto all'ombra del padre, avvertendo in quell'affetto così esclusivo la presenza di problemi mai affrontati e un concentrarsi di aspettative che sentiva di non essere in grado di soddisfare. Era diventato un bel ragazzone, alto come Blanko, ma meno sicuro nel passo, troppo timido per essere un maschio, troppo riflessivo, distratto e piuttosto malinconico. Daviça, terrorizzata da ciò che era successo, non perdeva occasione per allentare, da una parte, rimorsi, sensi di colpa e tensioni nel marito, e dall'altra per controllare allo spasimo il figlio.
Era una donna cresciuta in una cultura che, relegandola negli spazi della cucina e della camera da letto e nelle chiacchiere scambiate con le paesane sul sagrato della chiesa, l'aveva abituata a misurare le parole, a essere astuta, a non prendere mai il marito di petto. Blanko aveva instaurato con la moglie un rapporto basato su bisogni profondi che soltanto lei sarebbe stata in grado di soddisfare, o almeno così gli aveva fatto credere, tallonandolo passo passo, sempre presente e pronta a semplificargli l'esistenza. Daviça aveva colto nello sguardo di Maria quel repentino interesse, quel fuoco che rendeva, nonostante fossero passati gli anni, gli occhi della donna invitanti e azzurri come fiordalisi sparpagliati su un campo di spighe e nel sorriso del marito aveva letto la voglia di farne mazzi da stringere fra le braccia. Per fortuna che il Veneziano, di solito, bighellonava tra i tavoli o raccontava a qualche foresto di passaggio, per l'ennesima volta, arricchendola di particolari truculenti, la storia, ormai diventata nel paesino di poche anime leggenda, del suo temerario intervento contro i pirati.
Quel giorno Blanko si avvicinò al bancone, mentre lei sorridente gli mormorava:"Il solito?" e la figlia, uscita dalla cucina gli lanciava un'occhiata sospettosa.
"Vostra figlia si fa ogni giorno più bella. Tenetela d'occhio che qualcuno non se la porti via. Ha preso da voi, non cìè dubbio" borbottò Blanko, mentre la ragazza arrossiva e la madre sorrideva orgogliosa alzando gli occhi al rumore della porta che si apriva lasciando entrare Daviça e Zastros.
"Sei qui, ti stavamo cercando: uno degli uomini addetti al carico è stato ferito. Vieni, vieni" La voce della moglie tradiva la sua angoscia, mentre gli occhi scivolavano su Maria, volutamente distratti.
Zastros guardava Benedetta, lo sguardo che la seguiva attonito quasi davanti a lui fosse sfilata in processione Santa Genoveffa, scintillante di ex voto a inargentarla nella luce fumigante delle candele.

Bon voyage

Dove sono finiti i titoli spazzatura? Anche se non se ne parla più, sono dov'erano, nei portafogli delle banche che aspettano soltanto il momento giusto per scaricarli di nuovo sul mercato. Se avete una certa disponibilità sul conto corrente, o titoli del Debito Pubblico in scadenza, un solerte funzionario della vostra banca vi contatterà offrendovi un investimento sicuro, di tutto riposo, tranquillo: in obbligazioni. Guardatevi bene dal sottoscriverlo tenendo presente che oltre il 2% o il 2.5% - che sono i rendimenti dei Bot e CCt (o delle operazioni pronti contro termine) - è probabile che vi vengano venduti proprio quei titoli, abilmente mascherati sotto sigle più o meno suggestive. Guardatevi anche dall'acquistare titoli in dollari. E' altamente probabile una svalutazione del dollaro che riduca la pressione del debito federale degli Usa e renda più competitive le loro esportazioni. Cina e Emirati arabi permettendo (dato che sono questi Paesi che, acquistando le obbligazioni americane, hanno consentito alla "cicala"statunitense di darsi alla pazza gioia).
E' arrivato il momento di creare una valuta super partes (che tenga conto delle valute più importanti) e che diventi valuta di riferimento mondiale. Per gli Usa significherebbe però la fine della supremazia americana.
Mentre i Grandi muovono le loro pedine (senza chiedere il nostro parere) evitiamo almeno il prossimo assalto alla diligenza. Fatevi un bel viaggio con i risparmi che avete accantonato e godetevi la vita poiché nessun piccolo investitore si è mai arricchito con gli investimenti finanziari e non sarete certamente voi i primi. Bon voyage!

lunedì 19 ottobre 2009

Le conquiste

Per la mia generazione che l'ha vissuto, il Sessantotto è difficile, molto difficile da valutare anche perché, come fenomeno politico e di costume, ci colse in un'età, la giovinezza, che nei ricordi falsa di nostalgia un'analisi che deve basarsi sui fatti. Casinisti e un po' pazzi, pensammo di poter cambiare il mondo saltando tutti gli steccati, ignorando tutte le regole. Alcuni sperimentarono la coppia aperta, altri andarono a vivere in campagna, molti , in quegli anni in cui i contratti lavorativi erano a tempo indeterminato, cambiavano - per scelta non per neccessità come oggi purtroppo avviene - lavoro con la facilità con cui ci si cambia d’abito. I matti giravano liberi, si scendeva in piazza a protestare e le donne avevano iniziato a reclamare spazi per sé fino a quel momento inimmaginabili. Poi, qualcuno nei cortei aveva cominciato a sparare. La generazione dei padri aveva tremato di fronte alla ribellione dei figli, ma “l’immaginazione non aveva contagiato il potere“. Era avvenuto il contrario: era stato il potere che aveva contagiato l’immaginazione. Qualcuno si era fatto prendere la mano, aveva esagerato. La droga non faceva solo volare, faceva anche morire. Il terrorismo aveva dato la stura agli “anni di piombo“. La coppia aperta aveva verificato sulla sua pelle che, se era facile condividere la cucina, era un po’ più difficile condividere la camera da letto. Ed era iniziato il riflusso…
Ma da quel riflusso qualcosa si salvò: la ribellione femminile sembrò prendere piede e non credo che senza il Sessantotto e quello che comunque quel movimento modificò nella società e nel costume, ci sarebbero state le leggi promulgate in Italia sul divorzio, l'aborto e la riforma del diritto di famiglia. E queste, che sono conquiste che hanno cambiato la vita delle donne, le dobbiamo anche agli uomini, a quegli uomini, e non pochi, che sono cambiati, e profondamente, rispetto ai loro padri. Finalmente negli anni Settanta la voce delle donne si fece sentire: finalmente, facendo autocoscienza, fluivano i racconti, si confrontavano le esperieze. Le donne manifestarono per l'aborto, per sottrarsi all'orrore delle pratiche clandestine, lottarono per il divorzio, dando voce all'inferno che avevano vissuto le loro madri, dando parole a chi era stato costretto ad accettare la legge del silenzio.
Nel '73 venne pubblicato da Feltrinelli "Dalla parte delle bambine" una carrellata sui condizionamenti a cui le donne, fin dalla più tenera età, sono soggette. Il libro fece scalpore. Altre autrici affrontarono tematiche femministe, alcune in chiave narrativa come Dacia Maraini in "Isolina" altre in chiave saggistica come "Anna Del Bo Boffino in "Figli di mamma" o Armanda Guiducci ne "La donna non è gente". Si scopriva la Simone de Beauvoir, teorica del femminismo, de "Il secondo sesso" e quella, vulnerabilmente femminile, de "La donna spezzata". Si affrontava il nodo della sessualità femminile, della "pazzia" con Phyllis Chesler, del rapporto tra femminismo e psicanalisi con Juliet Mitchell. Fiorivano i libri autobiografici incentrati sul rapporto con la madre come "Le parole per dirlo" di Marie Cardinal. Si incominciava anche ad affrontare il nodo complesso e difficile dell'immaginario femminile e materno... Il bambino fanasticato che ci portiamo dentro doveva e deve essere individuato e affrontato.
Questo aspetto della femminilità, a mio avviso non ancora analizzato a sufficienza, è ancora un tabù che è stato appena sfiorato. Perché e in che senso è un tabù? E quali considerazioni possiamo trarre scoprendo (cito un argomento e un settore che mi appassionano) che le scrittrici nel nostro Paese sono il 10% degli scrittori, ma nelle antologie scolastiche sono rappresentate al 5%? E scompaiono senza lasciare traccia di sé, Grazia Deledda, premio Nobel per la letteratura, ne è la conferma, quando smettono di pubblicare, perché a livello accademico non esistono.
E' soltanto un esempio ma è illuminante per farci capire che la lunga marcia è cominciata ma noi donne siamo ben lontane dalla meta. Ci siamo fermate? A riposare? A riflettere?
Sarebbe il caso di capirlo.

domenica 18 ottobre 2009

La malattia senza nome

Erano gli anni Sessanta e il volto del Paese cambiava, modernizzandosi secondo il modello americano. John Kennedy faceva sognare le casalinghe, sua moglie Jackie, giovane e elegante, rendeva stridente il contrasto con la frangetta di Mamie Eisenower. Quel suo tailleur Chanel rosa, macchiato di rosso, sarebbe rimasto il simbolo di un sogno - poi scoprimmo quanto fantasticato - infranto. Kruscev apriva l'armadio degli scheletri mostrando al mondo l'altro volto del comunismo - quello che non conoscevamo - e perfino il Papa sembrava un Babbo Natale reduce da una nevicata. Ma i marines erano partiti per il Vietnam e non per fare un'esercitazione. E la "Nuova Frontiera", di cui favoleggiava Kennedy, avrebbe delimitato le vecchie ineguaglianze. Nel nostro Paese il benessere cresceva, gli elettrodomestici entravano nelle case alleggerendo la fatica delle casalinghe e, alla domenica, sulle strade, erano sempre più numerose le utlitarie della Fiat. Le imprese spuntavano come funghi, piccole ma agguerrite. Le poche grandi - come la Fiat che vantava un indotto che dava lavoro a tutto il Piemonte attirando dal Sud del Paese un'emigrazione interna in continua crescita - faticavano a trovare mano d'opera e, per la legge dell'offerta e della domanda, il Sindacato consolidava il suo potere. Venivano siglati contratti che miglioravano le condizioni dei lavoratori. I padri operai, artigiani o "padroncini", che non avevano potuto studiare, mandavano i figli all'università. Cresceva il numero delle iscrizioni e c'era una novità: cominciavano a iscriversi anche le donne e non soltanto alle facoltà letterarie (per diventare insegnanti come fino a quel momento era avvenuto).
Capelli assurdamente cotonati, scarpine con il tacco a stiletto e dispense sotto il braccio, fui una di loro.
Parlavamo tra studentesse? Di cosa? Di esami, progetti futuri, carriera? La progettualità pratica, professionale non andava al di là del conseguimento della laurea. Oltre c'era un mondo che non avevamo mai esplorato: "hic sunt leones". Sarebbe stato terreno di conquista solo per le più coraggiose e agguerrite. Le altre si sarebbero limitate e si limitarono a realizzare altri progetti: sposare lo studente di cui si erano innamorate e fare figli. E la laurea? Per distinguerci dalle madri casalinghe finimmo, tutte o quasi, dietro a una cattedra, rimpinguando le fila di quell'esercito in rotta che stava diventando un'armata Brancaleone, abbandonato dai maschi in fuga alla ricerca di professioni più remunerative.
Molte di noi furono madri anche in cattedra e credo che questo aspetto, non la femminillizzazione del corpo docente abbia nociuto alla scuola. Gli uomini, mentre le mogli facevano scelte che consentissero di conciliare la famiglia con il lavoro, giravano il mondo, si dedicavano alla professione, diventavano padri vivendo questa condizione come un fiore all'occhiello, una ulteriore gratificazione. Era un tempo in cui nessun bambino cadendo avrebbe - come oggi fortunatamente avviene - urlato "papà". L'universo femminile parlava a bassa voce, tanto bassa che nessuno capiva cosa dicesse e un occhio superficiale non avrebbe notato nulla di diverso. Ma l'inquietudine serpeggiava: nel 1964 era stato tradotto in italiano dalle Edizioni di Comunità un libro "Mistica della femminilità" in cui l'autrice, Betty Friedan, parlava di questi angeli del focolare sempre più spesso preda della depressione e della nevrosi. Denunciava una "malattia senza nome" che nasceva da una condizione femminile di disparità, di sottomissione che veniva analizzata mettendo in crisi un modello fino a quel momento considerato socialmente valido.
Furono i primi segnali di una presa di coscienza che fu conquista di pochi, anzi poche donne colte e emancipate, ma il merito della Friedan fu di dare un volto e una voce al disagio, all'infelicità se non disperazione, che si stava diffondendo a macchia d'olio e che cercava una via, una modalità per esprimersi e manifestarsi. Le donne, salvo poche eccezioni, erano topini laboritiani, intrappolati in gabbie, anche se a volte dorate, che sentivano farsi sempre più strette. Le poche che, vista la forte richiesta, cominciavano a lavorare fuori casa, nelle fabbriche, qualcuna nella pubblica amministrazione, cominciarono, mentre mentre saliva il livello dell'istruzione nel Paese, a emettere qualcosa di più di un borbottio: si lamentarono del marito che, dopo il lavoro, andava al bar con gli amici o si stravaccava sul divano a guardare la tv, mentre loro spignattavano o riempivano la lavatrice, ma cominciarono a lamentarsi anche del padrone e del capo, che del padrone era soltanto la lunga mano. E degli straordinari non pagati, degli orari di lavoro, del maschio di turno che allungava le mani e (ancora il problema sussisteva a livello sindacale) delle differenze salariali. Parlavano della fatica del doppio carico, ne parlavano tra loro ma anche con il marito. Molti non ascoltavano, qualcuno però cominciava a drizzare le orecchie pur meravigliandosi. Spirava un vento di tempesta, si alzavano mani a pugno, si manifestava: i cortei erano rossi di bandiere e furore. Era arrivato il Sessantotto. (continua...)

La risposta

Questa mattina mi sono svegliata molto presto, la casa era gelida, l'inverno qui in Emilia è arrivato di botto, come in questo periodo di variazioni climatiche intense e sottilmente angoscianti succede, e per approdare alle otto del mattino e a una temperatura accettabile, ho preso un libro a caso nel ripiano di quelli ancora da leggere. L'ho aperto: incipit da grande scrittore: "Lo svedese. Negli anni della guerra, quando ero ancora alle elementari, questo era un nome magico..." Philip Roth così comincia "Pastorale Americana" partendo in sordina e conducendomi per mano in quella cittadina, quelle strade, case, giardini, aule e campi sportivi che ognuno di noi si porta dentro, palcoscenici, che il ricordo ha cristallizzato, di infanzie vissute sperimentando tutta la gamma della felicità e infelicità infantile: le profonde insicurezze, i progetti faraonici, le devastanti delusioni, le immotivate esaltazioni. In contrapposizione netta con le dimensioni fisiche dell'infanzia, tutto esorbita nel bambino travalicando i suoi striminziti confini: tracima e fa strage o salva facendo rifulgere un coraggio che è tale più nei presupposti che nei fatti. Se lo scrittore è Roth (cognome, come ho già scritto in un mio post, che sembrerebbe inchiodare chi lo porta alla scrittura, come un Cristo alla croce), capace di descrivere non un'infanzia ma l'infanzia, il processo d'identificazione è immediato e la sottoscritta... era lì, tornata bambina - bava alla bocca - a smaniare per il ragazzo o la ragazza che assommavano in sé il meglio di tutto ciò che il sole illumina ogni giorno sulla terra. Il mito, ciò che avremmo voluto, e nei sogni più arditi, anche potuto essere. Se...Se? Be', se avessimo avuto una famiglia diversa - grande alibi la famiglia d'origine, anche perché effettivamente una certa influenza nel bene e nel male chi si sentirebbe di negargliela, e ciò dà all'alibi una certa consistenza - se il destino ci avesse consegnato alla nascita qualche dono in più, che ne so, il naso di zia Maria invece della patata, grossa e adunca, che si mangia il viso di mio padre e che con l'età ha assunto una colorazione sanguigna che gli dà l'aria da pagliaccio anche quando fa o tenta di fare quello serio. E poi? Poi tutto il resto che il destino, distratto, ha dimenticato sul fondo della borsa e che è andato a finire sull'ignaro capo di quello che di conseguenza è diventato il Mito.
Riemergo, grazie allo squillo della sveglia e al diffuso tepore che mi riconcilia con l'inverno, dal libro dove in sessanta paginette Roth mi mostra come si scrive. Come lui scrive. Come scrive uno scrittore. E un velo di malinconia scivola sulla domenica ottobrina che mi si spalanca davanti: alla mia domanda "scrittrice o scribacchina" Lui ha già risposto. Lui: Roth. Il grande, grandissimo Roth.

venerdì 16 ottobre 2009

Dopo un breve pigolio, di nuovo il silenzio.

Il Paese era impegnato nella ricostruzione: dall'America arrivavano aiuti all'Europa devastata e condizionamenti. Mia madre mi raccontava "Via col vento" al mattino, cucinando il sugo. A puntate, perché era lunghissimo, facendomi sognare su Rossella O'Hara che mi ricordava la nonna. Alla sera in cucina ascoltavamo la radio. La vita riprendeva: a Salsomaggiore si eleggeva di nuovo la più bella del reame e se ne tornava a casa, sconfitta, Scicolone Maria che, diventata Sofia Loren, avrebbe vinto l'Oscar per "La Ciociara" diretto da Vittorio De Sica il regista del neorealismo. Le donne potevano ambire alla notorietà soltanto nel mondo dello spettacolo, della moda o, in tono minore, in campo artistico: attrici, cantanti, ballerine, creatrici di moda e modelle, qualche scrittrice o pittrice.
A scuola c'erano le classi femminili e quelle maschili, nei paesi gli uomini ballavano tra loro, la verginità era un valore... Io leggevo il "Pioniere", mia madre sfogliava svogliata "Noi donne" che mio padre le comperava.
Nel Paese, diviso tra comunisti e democristiani, finalmente, nel'46 il voto era stato esteso alle donne (in Finlandia l'avevano ottenuto nel 1906), ma prima di votare si sentiva il marito e il parroco, che dal pulpito tuonava contro i comunisti che la chiesa aveva ben pensato di scomunicare.
Le donne erano rientrate nei ranghi, la loro voce, quel pigolio che avevano emesso, si era spenta.
Anche se il mio tempo sembrava immobile, scandito da interminabili pomeriggi di sole e noia che mi facevano desiderare il ritorno a scuola, le stagioni si avvicendavano. Non portavo più i calzettoni e mi era tagliata le trecce. Al giovedì sera andavamo a sentire "Lascia o raddoppia" al bar dell'angolo. Nelle case della borghesia, in cucina, troneggiava il frigorifero. Nel Paese dei miracoli, al vaglio del Vaticano, esplodeva un nuovo miracolo: quello economico.
Negli Usa Betty Friedan pubblicava "Mistica della femminilità" ma in Italia le donne arrivavano ancora vergini al matrimonio, o lo facevano credere alle madri e alle amiche.
Le ragazze venivano mandate a scuola, anche se l'università era riservata quasi esclusivamente ai maschi ma, come avrebbe detto di lì a poco Jacqueline Lee Bouvier sposata Kennedy, "Le donne studiavano per mogli." (continua...)

giovedì 15 ottobre 2009

La lunga marcia è cominciata o già finita?

Esiste una "questione femminile"? Se la risposta è positiva, e io credo che lo sia, in quali termini si definisce? Sono abbastanza vecchia e il femminismo di rottura, almeno nel nostro Paese, sufficientemente giovane per averne avuto un'esperienza diretta, sulla pelle, e per aver raccolto confidenze e ricordi di madri e nonne.
La nonna paterna aveva in comune con quella materna ben poco a eccezione della scelta del silenzio su quelle che erano state le loro vite. Una affermava "A tagliarsi il naso il sangue cade in bocca", l'altra alzava una spalla e cambiava discorso, quando le domande diventavano troppo personali. Però per me, bambina avida di racconti e particolarmente curiosa, abituata a ficcarmi nelle cucine di casa per bermi quel backstage della vita familiare che aveva nel salotto buono la sua rappresentazione ufficiale, bastava poco per capire, anche da quattro parole, quello che il silenzio celava. Quindi, la prima regola che mi venne data, soprattutto con l'esempio, fu quella del silenzio. Una donna educata non parlava, chiacchierava. Le chiacchiere davano la stura soprattutto alle critiche nei confronti delle altre donne, quelle che, infrangendo le regole, venivano definite "chiacchierate". La seconda regola non scritta dunque isolava le donne più coraggiose, quelle che uscivano dagli schemi, negando loro qualsiasi forma di complicità al femminile. La mancanza di cultura (generalizzata, ma ben più pesante tra le donne) e di autonomia economica (la donna generalmente non lavorava fuori casa e non disponeva del suo patrimonio personale) completavano il quadro rendendo le donne un ibrido strano che non poteva decidere del proprio destino, di cui il padre prima e il marito dopo diventavano arbitri. La nonna paterna ebbe dodici figli e fece di quel suo ventre prolifico il suo motivo d'orgoglio e il suo riscatto, ma la dice lunga la sua predilezione per i maschi di famiglia, coccolati, seguiti e fatti studiare, sacrificando le femmine quasi a voler massacrare quella femmnilità che aveva ingabbiato la sua vita e che lei probabilmente aveva subito e non gestito. Il destino beffardo le avrebbe concesso dagli otto figli sopravvissuti solo cinque nipoti: tutte femmine. Cominciava, anche se con modalità ambigue, una sotterranea rivolta: le figlie di nonna Lucrezia non si sposarono o furono sterili. Avevano intuito il potenziale distruttivo di una maternità non scelta? Destino biologico della donna la maternità era destino sociale o tout court, destino. Destino e basta.
La nonna materna, quaranta chili in un metro e cinquanta di altezza, vedova giovane con due figlie fu una "chiacchierata": decise infatti di sposare, quarantenne, un uomo molto più giovane di lei. Famiglia e figlie, mia madre in testa, non glielo perdonarono mai, ma quel suo "el me piasi e me lo ciogo" (che mi venne raccontato da mia madre perché lei, già vedova anche del secondo marito non ruppe la consegna del silenzio e non parlò mai con me di quella sua scelta) costituì per me un fondamentale esempio di concisione e decisione al femminile.
Mia madre ebbe la sventura di crescere nel Ventennio fascista, di passare la giovinezza tra guerra e dopoguerra e di vivere un matrimonio infelice. All'interno di quella generazione massacrata, le donne pagarono un prezzo altissimo: fatte entrare a forza nel mondo del lavoro per sostituire gli uomini mandati a combattere, vennero rispedite a casa a fine guerra, al ritorno dei reduci. Ma quelle donne in fuga sotto i bombardamenti alleati, alla ricerca quotidiana di cibo, staffette partigiane in montagna, operaie in fabbrica, manovratrici sui tram, scoprirono che potevano, dato che dovevano, prendere decisioni. E quando tornarono i mariti, uomini devastati nel corpo ma uccisi soprattutto nell'anima, nella geografia sconvolta dalla guerra constatarono di aver perso non solo le case, ma anche la loro autorità maschile. Furono queste donne che iniziarono a cambiare le regole del gioco cominciando a parlare con le figlie, a raccontare e raccontarsi. E nel confronto sui ricordi della guerra s'infilarono considerazioni personali. Qualche partigiana era entrata in politica, qualche donna aveva continuato a lavorare. Nel muro del silenzio femminile si aprirono le prime crepe. (continua...)

I Dellapicca

" E Il Moro, nonna, come fu l'incontro con Il Moro?"
" Be', piuttosto freddo, un po' formale. Anche se il destino aveva incrociato le loro vite, Sigismondo non si fidava di lui e non gli perdonava né di averlo tradito con Maria né quell'autorevolezza che si sprigionava dal suo corpo maestoso, dallo sguardo che non si abbassava mai davanti a un interlocutore e dal coraggio che il portamento e i movimenti calmi e sicuri tradivano. Il Moro da parte sua lo riteneva non soltanto un vigliacco, ma anche il degno rappresentante di un mondo che, anche se in fase di avanzata decomposizione, per lui sarebbe stato comunque e sempre inaccessibile. Era rimasto strabiliato nel venire a conoscenza dell'identità dell'uomo di cui tutti parlavano, attribuendogli buona parte del merito nella sconfitta subita dai pirati e ancora non riuciva a capacitarsene. Covava inoltre come l'altro un'invidia di fondo che, pur rendendo difficili i loro rapporti, contribuiva però ad alimentarli, perché a unirli in un legame, tormentato ma saldo, c'era anche quella donna, non del tutto consapevole di quella provocante bellezza e dell'impatto che poteva avere sugli uomini che la circondavano. Anche la figlia stava crescendo dotata della stessa grazia della madre, i lineamenti infantili perfetti che ne facevano presagire il futuro splendore.
" Diventò bella come la madre, nonna?"
" Sì, questa antenata della quale rimase un ritratto, ci ha lasciato in eredità questi lineamenti, il portamento ma anche la iattura che spesso si accompagna a ciò che esula dall'ordinario. Una donna troppo bella spesso paga con una vita difficile questo dono che il destino alla nascita le concede".
" E Sigismondo si adattò a vivere e, soprattutto, che lavoro fece per..."
" Be' la padrona della locanda che non aveva figli, rimasta vedova, si affezionò molto a Maria e alla figlia. Col tempo la sua fiducia aumentò e alla sua morte Maria risultò essere l'unica erede".
" Ma Sigismondo... oste?" chiese stupita Mielita.
" L'oste era una figura importante nella gerarchia sociale del tempo e la Serenissima, che comandava ancora su quelle terre, la teneva in notevole considerazione. L'osteria, come la chiesa per le donne, era il luogo d'incontro degli uomini e di conseguenza l'oste era la persona idonea a fungere da intermediario tra il potere centrale a i luoghi periferici soggetti all'influenza di Venezia. Conosceva infatti tutto di tutti e davanti al suo bancone prima o poi non c'era uomo del paese che non passasse. L'unico creditore scampato alla furia del Moro non si fece più sentire, anche perché Sigismondo aveva di che vivere, ma con la distruzione del magazzino il suo patrimonio era andato perduto e non avrebbe avuto più nulla su cui rivalersi. Passarono così anni relativamente sereni per I Dellapicca sottratti al tourbillon provocato dalla Rivoluzione francese e dall'ingresso, sulla scena del mondo, di Napoleone Bonaparte. Ma questa, Mielita, è un'altra storia e non sarò io a raccontartela. (continua...)

mercoledì 14 ottobre 2009

"Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d'isole, di pesci, di dimore, di stumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee, traccia l'immagine del suo volto".
Jorge Luis Borges

martedì 13 ottobre 2009

Se...

Se ti capita di sentire l'ultimo grido della civetta quando la notte è ancora buia, imbastire una storia su quel grido e avventurarti come un equilibrista impavido che si regga solo sul fiato delle parole

non avere paura

Se davanti all'urlo della folla tu, timida e riservata, hai messo in piazza la tua anima rossa di vergogna come il drappo di un torero

non vergognarti

Se ti capita di vedere un volto sul metrò, una faccia tra cento, maschera che troppe rughe incidono come viottoli resi polverosi dalla calura estiva, e non è carnevale, non più o non ancora

non stupirti

Se ti capita di indossare un'altra vita rubandola con destrezza, come un cappello per sbaglio in un ristorante, annusandone il sangue e il sudore, mentre ti aggiri e scruti e nulla ti sfugge

non sentirti una ladra

Se ti capita di prevedere il futuro perché di una storia hai azzeccato il finale, e allo storpio hai dato la più bella, come se in una notte d'agosto tu avessi potuto scegliere tra tutte una stella

non è per magia

Se ti capita di scrivere di notte, quando gli altri dormono e i sogni si arrendono ai desideri svelando gli incubi nascosti nelle pieghe dell'anima

non farti curare

La diversità non è malattia, né paura, né follia, tanto meno magia
è solo tanta, forse troppa?, fantasia.

lunedì 12 ottobre 2009

Ancora sulla scrittura

E' rimasta lì per una vita, come una bomba inesplosa sepolta sotto pochi metri di terra , la mia passsione per la scrittura. In attesa, mentre io raccoglievo sulle labbra, negli occhi della gente le loro storie, scrutavo invadente ogni volto e alla sera, quando i figli erano a letto e la cucina in ordine, nell'agenda, dove gli impegni si mangiavano ogni scampolo della giornata, infilavo un commento. Di straforo. Ma il tempo, quel tempo di donna che ha una valenza che le ore dei maschi non conoscono, volava. I figli crescevano: adolescenze difficili da figli di separati, venate di rancore. Gli impegni sempre più fitti, le sere che, nella cucina ora in disordine, mi sorprendevano addormentata sui compiti da correggere.

La scrittura richiede calma, tempo e la dedizione assoluta delle passioni. Non potevo permettermela. Ma dentro la mia testa una storia, cento storie si ritagliavano spazi, vite parallele alla mia. Patologicamente distratta, sentivo fioccare le critiche di mia madre, sul lavoro qualche sorrisetto. Quella bomba inesplosa vibrava sotto i miei passi, anche i più leggeri. L'estraneità al mondo che mi circondava aumentava. Invano le mie radici cercavano la loro terra.

Intanto i figli s'incamminavano lungo le strade del mondo, nascevano i nipoti. La cucine ora di nuovo in ordine - a me bastavano un'insalata e un pezzo di formaggio, dopo tanto cucinare - sul tavolo libri e quaderni, ma non quelli dei miei alunni: non insegnavo più.

Il botto non si è sentito quando la bomba è esplosa, la deflagrazione l'ho avvertita soltanto io. Sono volata, come il Barone di Munchausen approdando là dove i segni non vengono lasciati dai passi, ma dalle parole e il tempo lo si misura in pagine sfogliate. Nata dalla scrittura quella terra è una storia.
Un libro la racchiude.

domenica 11 ottobre 2009

Benedetta

Se c'era una cosa che lei non riusciva a reggere era la sofferenza; non soltanto la sua, anche quella degli altri. Quella che nasceva da motivazioni reali, non da paturnie premestruali. Così quando la figlia le arrivò in cucina di primo mattino e le vomitò addosso la sua sofferenza, lei si aggrappò al tavolo come se si trattasse di un tronco trovato in mare dopo un naufragio.
"Ti faccio un caffè?"
Cercava di guardarla quanto meno fosse possibile, come succedeva ai passanti per strada che, quando lei li sorprendeva a fissarla, arrossivano come alunni sorpresi a copiare dalla maestra.
" Non ho voglia di fare colazione".
" Ti farebbe bene prendere qualcosa di caldo..."
La sua risatina la irritò, ma cercò di non darlo a vedere, mentre zuccherava il suo tè.
" Dici?"
" Dico".
" Se permetti contraddico"
" Non me ne frega un fico!"
" E io scappo a Portorico... Ma adesso, basta! Sei grande per questi stupidi giochi. Hai quasi diciotto anni Lodovica. E' arrivato il momento di crescere. Sei una donna!"
" Io non posso crescere".
" Tu non vuoi crescere!"

E crollò a sedere mentre lo sguardo le scivolava su quel naso che sarebbe stato troppo lungo persino per un Pinocchio sorpreso a mentire, sui capelli color stoppa, sugli occhiali dalle lenti spesse. Neanche la bocca era la sua o quella del padre, quel taglio senza labbra che i cromosomi avevano decretato essere la sua bocca, stampato in faccia come una sciabolata, la meravigliava, ancora la stupiva che sputasse parole e non sangue come una ferita.

Aveva scelto quel nome, Benedetta, quando il ginecologo, il camice ancora macchiato di sangue, le aveva detto che non sarebbe sopravvissuta. Ma Benedetta afferrata la vita, aveva stretto i pugni e non l'aveva più mollata. La morte, delusa, aveva alitato il suo soffio su di lei: era cresciuta poco, stentata come un geranio sul davanzale di un vicolo buio. Stortarelle le gambe, grigia la pelle. Soltanto i piedi erano grandi, assurdamente grandi per quel corpicino, come se la voglia di crescere fosse partita baldanzosa e si fosse quasi subito stancata di faticare, afflosciandosi come una vela senza vento.

Lo sguardo indecifrabile della figlia e quel gioco assurdo, con il quale obbligava l'interlocutore dopo le prime frasi a esprimersi in rima, spaventava e devastava la madre.
Ma sapeva che avrebbe potuto fare poco, nulla. Il medico l'aveva detto subito e aveva scosso la testa, imbarazzato.
"Suona, ma teniamolo lontano".
"Devi andare, lo sappiamo".
"Me la darai la mano?"
"Te la darò la mano: andiamo".

Il boato esplose con la violenza di un urlo troppo a lungo trattenuto. Pochi minuti e il silenzio attonito del quartiere veniva squarciato dall'urlo delle sirene delle ambulanze.

Romanzo a puntate I Dellapicca

Maria, gli occhi fissi sul fuoco che crepitava nel camino, taceva. Accanto a lei anche Sigismondo, le mani abbandonate in grembo non fiatava.
"Non capirò mai gli uomini... portami via una figlia pur di vendicarsi...Ah, dimenticavo, il tuo onore da salvare. Il tuo onore! Perché ti sei mai dimostrato un uomo d'onore tu?" e, mentre pronunciava queste parole, il suo sguardo si faceva tagliente, duro e le labbra le tremavano.
"Rispondi!"
"Rispondi, maledetto!"
La bambina che teneva tra le braccia socchiuse gli occhi e scoppiò in lacrime, poi, vedendo il padre, tese le braccia verso di lui. Sigismondo si alzò dalla seggiola, con delicatezza prese la figlia e, dopo averle sussurrato qualcosa vedendo che si riaddormentava, la mise nel lettino.
Maria singhiozzava, stropicciando il fazzoletto tra le mani. Nei suoi occhi la sorpresa prendeva lentamente il posto della rabbia alternandosi al dolore, mentre osservava il marito che continuava a non pronunciare parola.
"Vuoi dire qualcosa o hai intenzione di startene muto come un baccalà fino alla fine dei secoli?" ma il tono era già diverso. Era possibile che Sigismondo fosse cambiato? Lui, innamorato di quella Venezia che lei non aveva mai visto, ma di cui le aveva raccontato mirabilia, lui che non si era mai adattato a Trieste che trovava rozza, grossolana, senza quella nobiltà decadente e leziosa che aveva frequentato nella sua città d'origine, come avrebbe potuto vivere tra quelle quattro case di pescatori, in quella lingua di terra lambita dal mare dove l'arrivo di una nave era considerato quasi un avvenimento e i forestieri guardati con diffidenza?
"Questo mondo non fa per te, non ti adatteresti mai: sono superstiziosi, profondamente legati alle loro tradizioni. Cosa faresti: il pescatore? Questo anello che mi hai dato" e rigirandoselo nel dito ebbe un breve sorriso "penso sia tutto ciò che ci resta?"
Sigismondo annuì dicendo:" Ricominceremo da capo. Apriremo una locanda, tu mi aiuterai... L'anello era di mia madre. Voglio che sia tu a portarlo perché rappresenta un passato che non deve più essere per me una zavorra che mi appesantisca, un rimpianto che mi colmi di amarezza, che mi avveleni il sangue. Anche Venezia non è più la città che io conoscevo; quella città è ormai soltanto un ricordo e del cicisbeo che folleggiava nelle sue calli è rimasto ben poco. Ormai sarei uno staniero dovunque, se esserlo è avvertire questa estraneità nei confronti dei luoghi, delle persone, perfino nei confronti di se stessi... Girando nelle calli, di cui conoscevo ogni pietra, ogni portone, anche il Carnevale mi sembrava assurdo, una pagliacciata, una recita infinita per scoprire alla fine che la maschera è diventata il volto".
Il fuoco si era spento facendo piombare la stanza nell'oscurià che la candela, che si stava consumando, attenuava appena. Maria era confusa, disorientata, in preda a sentimenti contrastanti. L'uomo che le stava di fronte era diverso, perfino nell'aspetto fisico: si era appesantito e lo sguardo sotto il ciuffo dei capelli che cominciavano a ingrigire, era cambiato, come la piega delle labbra che abitualmente comunicava una sensazione di stizza, di fastidio verso il mondo, e che ora sembrava scomparsa, come la parrucca, la cipria e gli svolazzi della camicia. Era sincero? Poteve fidarsi di lui e di quelle parole che sulle sue labbra le sembravano incredibili? Il Moro, che era stato corretto con lei, aveva una tresca con una ragazza del Paese che aiutava in cucina nella locanda. Lei si era sentita molto spesso sola e isolata: forestiera e bellissima non riscuoteva certo la simpatia delle altre donne che la spiavano, pronte a coglierla in fallo. Alcuni uomini l'avevano corteggiata, ma lei li aveva respinti trovandoli noiosi e scontati e l'unico che le aveva fatto battere il cuore era stato Blanko che veniva spesso alla locanda, ma limitandosi a chiedere del Moro, che lavorava alle sua dipendenze, per bere un bicchierino di grappa con lui. La notte in quel letto freddo e scomodo si stringeva addosso la figlia per provare un po' di calore e per sentirsi meno sola. Lo sguardo le cadde sulle mani del marito: bianche e morbide le ricordava sul suo corpo. Le tornò alla mente la loro casa dietro al porto, la finestra della camera da letto sulla quale si accaniva la bora ululando rabbiosa, mentre lei si stringeva, fingendosi spaventata, al marito, le tende bianche e leggere come vele che danzavano davanti ai suoi occhi. (continua...)

sabato 10 ottobre 2009

Chi si loda... s'imbroda

Giornalisti ficcanaso
piscian fuor dal lor vaso,
magistrati irriverenti
osano mostrare i denti?
Quei fetenti messi vanno sull'attenti.
Chi comanda oibì, oibò
han capito oppure no?
Gli italiani lo han votato
ed il carcere ha evitato
Ora un giudice si appresta
a tagliare la sua testa
loda non Francesco il santo,
povertà non è più vanto,
loda il caro amico Alfano
che per lui allungò una mano.
Come dice quel Di Pietro
che vorrebbe render spettro
se si toglie dalle palle,
ve lo giuro non son balle
si ritrova in una cella
un bugliolo in comunella...
A evitare questo danno
agguantar deve lo scranno
e tenerlo stretto, stretto
fino all'ultimo respiro
Che disgrazia, che iattura
qui si colma la misura
dell'italica sventura.

venerdì 9 ottobre 2009

Il coraggio di sognare

Gentile Presidente Obama, mi permetto di scriverle perché lei mi incuriosisce. Mi chiedo come e quando per la prima volta abbia pensato di diventare Presidente degli Stati Uniti. E' avvenuto in un giardino pubblico, giocando con altri bambini o a scuola nell'intervallo, divorando in fretta e furia la sua merenda? Magari, mentre uno dei suoi compagni diceva "Io da grande farò il pompiere" e un altro decideva che sarebbe diventato astronauta, lei, con quel suo sguardo deciso che trapassa l'interlocutore per leggergli dentro, ha detto: "Io diventerò Presidente degli Stati Uniti". Forse qualcuno avrà riso, e qualcun'altro avrà pensato che lei stesse esagerando, e, al suono della campanella, sarete rientrati nella vostra classe e... nella realtà. Ma lei, Presidente, non sognava, lei progettava: quindi da quel momento ha avuto inizio la sua marcia di avvicinamento alla Casa Bianca. Ha studiato, si è laureato in legge, ha cominciato a lavorare in uno studio. Ha anche incontrato in quello studio la sua bella moglie. Quando l'ha invitata a cena e ha cominciato a parlarle dei suoi progetti dicendole che se l'avesse sposato, l'avrebbe portata alla Casa Bianca, lei avrà pensato "Guarda cosa non s'inventa un uomo per far colpo su una donna" e magari avrà fatto una battuta per nascondere l'amarezza di non aver mai visto un uomo di colore in quella Casa. Oppure la sua decisione è scaturita dalla rabbia, dall'impotenza, vedendo crollare le Torri Gemelle? O forse è stata la politica del suo predecessore o la vista dei suoi concittadini che, perdendo casa e lavoro, si ritrovavano "barboni" nello spazio di un mattino? Un giorno, sperando che nonostante le numerose minacce di morte che riceve quotidianamente lei possa diventare vecchio, forse scriverà le sue memorie e ci racconterà come sono andate le cose. Il Nobel per la Pace che le è stato assegnato premia gli sforzi e l'impegno da lei profusi in questo campo, ma penso premi anche qualcosa d'altro. Lei, che potenzialmente è un innovatore, dovrà scendere a patti con i gruppi di potere che hanno favorito la sua elezione e non sappiamo se riuscirà nel suo intento, ma è fuori dubbio che incarni il doppio fascino che la democrazia americana, pur con i suoi limiti, esercita su noi Europei: il coraggio di sognare e la volontà, ma anche la possibilità, di realizzare i sogni, anche i più ambiziosi, grazie alla libertà che il suo Paese assicura. Il Nobel che le hanno dato è anche un ringraziamento per aver dimostrato al mondo che un uomo, se vuole, può: per lui e per il suo popolo. Non è poco Presidente.

Romanzo a puntate I Dellapicca

Sigismondo sbarcò sulle coste dell'Istria, accolto da una folla di curiosi. Dietro a lui scesero lungo la scaletta i passeggeri e i pirati fatti prigionieri. La notizia della vittoria sui predoni del mare passava di bocca in bocca suscitando chiacchiere e commenti, soprattutto su quell'uomo, chiamato Il Veneziano che, con il suo intervento e il coraggio dimostrato nel battersi, aveva capovolto la situazione. Il capitano della nave, dopo avergli restituito l'anello, si era anche scusato con lui, e ora affiancandolo lo stava invitando a entrare nella locanda per brindare al passato pericolo, mentre dietro a loro si andava ingrossando una piccola folla di passeggeri e curiosi.
Maria stava pulendo il bancone, le maniche dell'abito da lavoro arrotolate a scoprirle le braccia piene. Sigismondo la riconobbe immediatamente e, per un istante, ebbe la sensazione di essere ancora l'uomo in fuga approdato a Trieste che in una bettola del porto aveva posato gli occhi per la prima volta su quel volto di donna dai tratti perfetti. Sentendo sbattere la porta d'ingresso, aveva alzato gli occhi e ora lo fissava sbalordita, incapace di fare anche un solo passo. Sigismondo le si avvicinò, mentre lei, ritrovata la voce, gli diceva: "Allora non sei morto nell'incendio" ma senza gettargli le braccia al collo, né dimostrarsi contenta di vederlo.
"Sono stato costretto a nascondermi...E la bambina?" Pronunciando queste parole gli scomparve il sorriso dalle labbra mentre la sua inquietudine contagiava la moglie. La padrona, che si era avvicinata, con una gran risata esclamò, dopo aver lasciato scorrere uno sguardo indagatore sulla veste di velluto e damasco del Veneziano: " Potete prendervi mezza giornata di libertà e festeggiare l'arrivo di vostro marito" disse e ammiccò sguaiata.
Sigismondo e Maria salutarono tutti con un cenno e si allontanarono, raggiungendo la stanza che la donna divideva con la figlia. Infilata la chiave, entrò mentre la bambina le correva incontro, riconoscendo il padre e attaccandosi alle sue gambe. Sigismondo sentì un nodo alla gola e il dolore sordo del rimorso nel petto.
"Non mi hai chiesto notizie del Moro!"
"So che ha salvato te e la bambina" rispose il marito.
"Fosse dipeso da..."
"Hai ragione, ho sbagliato molto, ma ho avuto anche tempo per riflettere. Ricominceremo..."
Maria taceva, silenziosa, fissandolo. Poi, rompendo quel silenzio che si prolungava, gli disse:
"Sono successe tante cose e... non mi sei mancato!"
"E' quel maledetto Moro che ..."
"No!"
La sua abituale arroganza gli affiorò nello sguardo, mentre gli tornavano alla mente le parole del rabbino, le sue spalle improvvisamente curve sotto il peso del dolore della sua gente che aveva dovuto condividere, il ponte del veliero macchiato dal sangue dei morti e, prepotente gli scattò dentro una voglia di presente e futuro che annullasse con la vitalità del desiderio quella sensazione di morte che ancora lo attanagliava. Fece una carezza alla figlia e circondò con un braccio le spalle della moglie, sussurrandole che sarebbe cambiato, chiedendole perdono per tutto il dolore che le aveva causato. Maria lo guardava stupita, la sua bellezza che acquistava una tonalità morbida, calda, alla luce della candela, mentre il marito si toglieva l'anello e glielo infilava al dito, dicendole: "Ho rischiato per la mia stupidità, per la mia arroganza oltre che per la mia vigliaccheria di perdervi..."
Maria si sedette accanto al fuoco, al collo la figlia che si stava addormentando.
"Io voglio sapere che fine ha fatto mia figlia" chiese e lo guardò senza abbassare lo sguardo.
Sigismondo fece un cenno con la testa, mentre mormorava: "E' morta" e aggiungeva "nell'epidemia causata dall'acqua infetta che ha seminato la morte nel ghetto. Era stata affidata a una madre che aveva perso la propria figlia".
"Pensavo l'avessi fatta uccidere" mormorò Maria continuando a fissare il fuoco, le dita contratte sulla figlia che dormiva tra le sue braccia.

giovedì 8 ottobre 2009

Dalle stelle... agli stallieri.

Il nostro tombeur de femmes comincia, come il protagonista di "Morte a Venezia", a svelare sotto al cerone sfatto il suo vero volto. Non è gentiluomo, non è galante con le signore, perlomeno quelle che non scatenano i suoi appetiti sessuali, e manca di controllo: straparla, quando non parla a vanvera. Esiste anche il silenzio. D'oro. Nessuno dei suoi strapagati consulenti e avvocati ha l'umana pietà di darle, Presidente, quell'unico consiglio che potrebbe esserle utile? Tacere! Capisco possa essere difficile: perdere è molto più doloroso che vincere, e nessuno meglio di noi, poveri tapini che ci abbiamo fatto il callo, può capirla. Più si è saliti in alto e più la caduta fa male, anche se questa esperienza, ai tapini di cui sopra, risulta ignota non conoscendo l'ebbrezza delle grandi altezze. E' legge fisica Presidente: lei con i numeri dovrebbe essere un mago! Sarà il caso che si ripassi il suo vecchio libro di Diritto costituzionale. Suggerirei anche "Il Galateo di Donna Letizia" e "Come recuperare il controllo in 10 lezioni". Già che c'è, comperi anche "La caduta degli dei". Non si sa mai: meglio fare qualche acquisto in previsione dei tempi bui. Un risarcimento danni di 750 milioni di euro potrebbe metterla in difficoltà anche con gli spiccioli. E se posso permettermi: si guardi le spalle Presidente! Lo sa che il popolo di navigatori, poeti e santi, diventa anche popolo di voltagabbana, quando... Mai fidarsi del popolino. Lei che vende sogni e bugie in formato televisivo dovrebbe saperlo: la sovresposizione mediatica... dalle stelle alle stalle (in compagnia degli stallieri) si fa presto a finire. E il suo popolo potrebbbe non trovarla più divertente: le barzellette, quando si tocca terra, senza casa, né sicurezze, né lavoro... non divertono. Forse si perde il senso dell'umorismo. Come sta succedendo a lei in questo momento.
Onde e per cui: ottimismo, pensieri positivi e leggerezza, Presidente, mi raccomando. Non vorrà mica diventarmi rabbioso e triste come i comunisti? Non lei, allegro folletto del Parlamento, divertente giullare di corte. Non lei, Presidente.

mercoledì 7 ottobre 2009

Ricordi?

La sera scendeva su Milano, ingolfata di traffico e cattiveria, allungando la sua ombra sul soggiorno e sui nostri volti tirati. Più che una discussione un litigio. Non ricordo il motivo del contendere, ma rammento la mia esclamazione: "E' un principio tutelato dalla nostra Costituzione!" Il mio compagno mi aveva guardata, poi assumendo un'aria condiscendente, quella che si usa per spiegare una faccenda complessa a un bambino, mi aveva risposto: "La Costituzione è una bella poesia, un libro dei sogni..." E la sua bocca aveva assunto una piega amara.
" E tu pensi che uomini che passarono la giovinezza in prigione o che scelsero la via dell'esilio, che videro morire i compagni...".
Mi aveva interrotta:
"E' un'impalcatura che avrebbe dovuto sostenere uno splendido palazzo, ma è rimasta incompiuta. Il nostro è il Paese delle cattedrali nel deserto".
"Gli uomini che scrissero quella che tu chiami una poesia erano uomini diversi, cresciuti in un Paese che aveva messso al bando la libertà, per loro non fu scontato essere liberi. Videro un dittatore fare strame del Paese, portarlo in guerra, allearsi ai nazisti, promulgare le leggi razziali".
"La natura umana..." e di nuovo il mio compagno aveva scrollato la testa.
"E' la Bibbia della nostra democrazia, veleggia alta perché chi ha molto sofferto acquisisce uno spessore anche umano più ampio. Quando scrivevano democrazia o libertà o eguaglianza quali ricordi si accendevano nelle loro menti? Scrivevano eguaglianza davanti alla legge e rievocavano i Tribunali speciali, le condanne per i reati di opinione, gli anni passati senza vedere crescere i figli, lontano dalle mogli, nelle celle a chiedersi il perché di quell'ostinazione che aveva dannato le loro vite. Un ostinato, insopprimibile desiderio di libertà!"
Ieri sera, quando su Internet è circolata la notizia, quando ho letto che il Lodo Alfano era stato considerato illegittimo in considerazione dell'articolo 3 della Costituzione che fissa il principio dell'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge ho pensato a quegli uomini. Vogliamo cambiare la Costituzione, volare basso, omologarci a uomini e idee di corto respiro? Quegli uomini lungimiranti l'avevano previsto, istituendo una procedura più complessa e imponendo maggior consenso.
Per rinunciare a sognare, Amendola, Calamandrei, La Malfa, De Gasperi, Nenni, Pertini... stabilirono che si dovesse essere in tanti, proprio molti: chissà, forse per indurci a riflettere.

martedì 6 ottobre 2009

Berlusconi è onesto

Bondi: "Berlusconi è onesto". Basterebbe un'affermazione come questa per screditare questo Ministro dal volto paffuto che del suo leader condivide l'uso della parola sparata a raffica e, quel che è peggio, la morale. Si è definito un riformista il nostro, ieri sera a Ballarò. Intende quindi riformare anche il codice morale degli Italiani?

Mio caro Ministro, lei sta giocando con il fuoco: chi corrompe un giudice per fare un affare (è sentenza già passata in giudicato, non ipotesi di reato), chi sceglie di costruire un ponte sullo Stretto (per tenersi buona la mafia) lasciando sbriciolare le montagne sulle case per un piovasco e facendo crepare la gente, chi si circonda, settantenne, di ragazzine che paga per ottenenerne i favori, chi candida le escort nelle liste elettorali come compenso per le notti passate nel suo letto, chi lucra sul dolore e il dramma dei terremotati per improvvisare show mediatici che lo vedano protagonista, chi considera i giornalisti, critici nei suoi confronti, dei farabutti, è un uomo onesto?

Ricordate chi fece della questione morale la propria bandiera? Quell'omino curvo, apparentemente fragile che oggi mi manca tanto e che fu Berlinguer.
Che distanza, che differenza, che abisso, ragazzi... e che tristezza!

lunedì 5 ottobre 2009

Casa prende, casa rende

Si erano incontrati in metropolitana in una giornata di pioggia. Battente. Stretti come sardine, l'ombrello di lui nella scarpa di lei. L'aveva fulminato inviperita. Le aveva risposto con quel disarmante sorriso e lei aveva abbassato la guardia, accettando il caffé nel bar troppo pieno, vociante.
Si erano innamorati tra scrosci d'acqua novembrina, e in un agosto torrido che aveva vuotato la città si erano sposati. La mamma di lui, vestita di nero, aveva pianto. Come a un funerale. Pianse anche alla nascita di Gaia: per il nome, che non era quello di sua madre Assunta, buonanima, e perché aveva partorito una bambina.
Asilo nido, ufficio, supermercato, cena in tavola... Una grigia catena di giorni sempre eguali che ingrigiva anche lei, si allungava a dismisura. Imprigionandola. La televisione riempiva gracidando i loro silenzi: lui si addormentava nel salotto, sul divano. Lei, nel letto a due piazze allungava una mano. La ritirava vuota. Una sera, Gaia dalla nonna, rientrò prima del previsto, a causa di un black out. La città era nera come una notte senza stelle, nero l'androne di casa, nero il pianerottolo dove rimase in piedi, umiliata, sentendo che la chiave non entrava. Lui aveva chiuso la porta dall'interno; lei si accucciò schiena contro il muro, al buio. Attese. Da quella porta sarebbero usciti, prima o poi.
Fu una notte lunghissima, interrotta dalla fine del black out. Scintillarono le luci, luci da luna park... Scintillavano come lui. Come quella donna dalle gambe di gazzella e la bocca rossa di baci che le aveva rubato il suo sorriso. "Casa prende, casa rende" le diceva sempre nonna Ina, ma lei non l'aveva più ritrovato. Ora capiva dov'era finito. Tra loro quella valigia sembrava un armadio, una montagna, un mare pieno di pescecani.
Entrò e si guardò intorno.
Tutto in ordine, niente a posto - pensò.
Albeggiava: il cielo era viola, il sole non sorgeva a Oriente. La sequela initerrotta dei grigi che la pioggia inargentava le si spezzò dentro, lasciando il posto all'arcobaleno che
esplose nel cielo come un fuoco d'artificio di colori in una notte d'estate.

domenica 4 ottobre 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Sotto la guida del Veneziano, galvanizzato da una furia omicida incontrollabile che l'aveva indotto a partire all'attacco, a testa bassa come un toro infuriato, il gruppetto resisteva. Gli assalitori cadevano uno a uno, spaventati anche dagli occhi folli, stretti a fessura, che bruciavano nel volto dal pallore malato su cui l'onda scura dei capelli, come una nuvola nera di tempesta, spioveva in ciocche scomposte, mentre sulle labbra schiumavano imprecazioni e urla che non avevano più quasi nulla di umano. Sigismondo, contro quegli uomini che gli erano balzati addosso, sfogava la rabbia troppo a lungo covata e la disperazione che gli era dilagata dentro, dandogli la sensazione di non avere più nulla da perdere. Incapace di trovare sia il coraggio di uccidersi sia la forza di ricominciare da zero, in quell'aggressione coglieva un modo, una via trasversale di farla finita. Ma il destino aveva per lui altri piani e mentre con la coda dell'occhio, menando fendenti, sbirciava intorno a sé, vide due pirati abbandonare le armi e alzare le braccia in segno di resa. Fece un rapido segno con il mento e alcuni uomini, che si erano riparati dietro a dei sacchi, abbandonarono il proprio nascondiglio, lanciandosi sui due assalitori. Pochi secondi dopo, afferrati e spinti oltre alla balaustra della nave, i due toccavano la superficie dell'acqua... Sigismondo non avrebbe saputo quantificare la durata dell'attacco, né sarebbe stato in grado di dire quanti uomini avesse ucciso, quando il comandante gli tolse la spada dalle mani dicendogli:"Si sono arresi..."
Poi le ginocchia gli cedettero e la vista gli si annebbiò, mentre scivolava a terra quasi perdendo conoscenza. Ebbe appena il tempo d'intravedere per un istante intorno a sé qualcuno che si muoveva cercando di sollevarlo. Le gambe gli ciondolavano e voci gli arrivano all'orecchio, indisponenti, fastidiose come ronzii di zanzare, mentre lo trasportavano, lo adagiavano su un letto, facendolo gemere di dolore. Cercò di opporsi, ma dalle labbra spaccate gli uscì soltanto un lamento, mentre qualcuno lo spogliava e finalmente si abbandonava scivolando nel nulla salvifico di un sonno profondo.
Quando riaprì gli occhi sentì una voce.
"Come vi sentite?"
"Bene" rispose, mentre gli oggetti intorno a lui assumevano contorni precisi.
"Avete fame?"
"Sì"
Si sollevò provando una profonda stanchezza, mentre il marinaio che stava accanto al suo letto
gli metteva davanti un vassoio e il profumo del cibo gli arrivava alle narici.
"Con i saluti del capitano"
Sigismondo mangiò di buon appetito e poi scivolò nuovamente nel sonno, anzi in una sorta di dormiveglia, mentre la porta si apriva e qualcuno entrava chiedendo sue notizie.
"E' questo passeggero che dobbiamo ringraziare per essere ancora vivi e aver salvato il carico. Si è battuto come un leone... Non l'avrei mai detto. E pensare che non volevo nemmeno imbarcarlo. La vita è ben strana e il destino segue strade che noi non conosciamo. Svegliatelo tra non più di un'ora. Tra poco dovremmo intravedere la costa".
Sigismondo, sentendo chiudere la porta, aprì gli occhi. La cabina del comandante era vuota e silenziosa. Erano usciti tutti e dal finestrino filtrava un raggio di sole. Un riverbero azzurro dava al locale l'aspetto di un acquario. Al dito di Sigismondo brillava l'anello con lo stemma de I Dellapicca: un'aquila in volo con un diamante nel becco.

venerdì 2 ottobre 2009

Libertà individuale e collettiva

La libertà sembra dovuta, come l'aria... eppure se ci pensiamo non ci viene consegnata su un piatto d'argento, ce la conquistiamo, come individui e come popolo, con il sudore e, spesso, il sangue. Consentendo la scelta, non è disgiunta dalla responsabilità della quale è gemella siamese. Per questo ai bambini la concediamo a gocce, a spizzico, consci che una botta di libertà può ubriacare più di una bottiglia di grappa bevuta a collo. La libertà individuale la strappiamo ai genitori con la foga, la forza, l'irruente presunzione dei vent'anni, ma è fondamentale averla introiettata, assimilata, averne fatto carne della propria carne e sangue del proprio sangue, per potere scegliere esprimendo desideri. Altrimenti si vivrà ingabbiati nei bisogni, dovendo, non volendo e quindi subendo. La libertà fa piazza pulita dei bisogni spalancando l'orizzonte sconfinato di desideri. Una donna libera sceglierà sulla base delle affinità il proprio compagno, non sposerà mai un uomo per "salvarlo" o "salvarsi", ma per condividere con lui esperienze e tempo.
Una donna libera non amerà mai "troppo", non avrà "bisogno" di un uomo...
"La libertà è una gran balla se non te la mettono subito in spalla", diceva nonna Angela che, in quel paesino sperduto dell'Istria dov'era nata, aveva dovuto conquistarla a carissimo prezzo. Il cammino che ci rende individualmente liberi è arduo, difficile, è una scalata verso cime inviolabili che sfidano il cielo. Una volta conquistata, per chi ha la fortuna di arrivare alla vetta, va difesa ogni giorno, ogni ora. Perché, più del denaro, ingolosisce e qualcuno, anche chi amiamo di più come il nostro uomo o i nostri figli, cercherà sempre di sottrarcela. Un figlio bambino ci strapperà un libro dalle mani, quando leggiamo, la cornetta del telefono, quando parliamo con un'amica o la penna vedendoci assorte su un foglio. Sono tanti e agguerriti i nemici della libertà: il senso di colpa, il perfezionismo, la paura, le abitudini, l'attaccamento agli oggetti, l'avidità. Un popolo di individui liberi è libero?
Non è così lineare e mi sentirei di rispondere negativamente.
A mie figlie bambine raccomandavo sempre di perseguire due obiettivi, per essere libere: cultura e sicurezza economica. Scuola e lavoro."Fotti il potere, studia", ho letto sul muro di una casa a a Milano ... L'ignoranza ci consegna, acriticamente, nelle mani di chi sa, e la dipendenza economica, ad esempio dal marito, crea una disparità di potere foriera di dipendenze ben più pesanti come quella relazionale. Ma a questo punto la conquista della libertà individuale entra in rotta di collisione con le libertà collettive di un popolo e il discorso si fa duro. Difficile. Gli uomini "liberi" nel Ventennio fascista vennero uccisi, imprigionati o costretti a fuggire all'estero. Quale sia la situazione nel nostro Paese in questo momento è sotto gli occhi di tutti: la scuola regge ancora per l'impegno individuale di tanti insegnanti che nonostante i tagli, gli stipendi da fame, le difficoltà di una professione che si fa sempre più ardua, continuano a reggere la baracca. Sul mondo del lavoro è sufficiente leggere gli ultimi dati sulla disoccupazione per precipitare nell'orrore.
La nostra giovane e inesperta democrazia, conquistata con un bagno di sangue soltanto da qualche decennio, va difesa e tutelata ogni giorno, senza mai abbassare la guardia, ognuno con i mezzi che possiede: perché è all'ombra delle libertà collettive di un popolo che può svilupparsi e formarsi la libertà degli individui.

Donne e potere

Annozero mi rigurgita dentro invadendo anche i miei sogni e trasformandoli, verso mattino, in incubi. Chissà perché mi vengono in mente Claretta Petacci e Rachele Mussolini nonché l'oggetto del contendere: lui, il Duce. Donna Rachele, in linea con i tempi, scelse di tacere per salvare la famiglia. Scelse di subire in silenzio l'oltraggio di quei tradimenti, vide morire un figlio e condannare a morte il padre dei suoi nipoti...Claretta scelse di morire con il Duce.
La D'Addario fa un po' di conti e sceglie di fare la escort: diletto del nuovo Duce in cambio di denaro? Quello può guadagnarlo anche con uomini meno potenti. Lei vuole di più: solo trovare una scorciatoia per ottenere i permessi necessari alla costruzione del suo complesso residenziale? O anche entrare in politica e ottenere prestigio e potere? Veronica Lario, la moglie di Berlusconi non tace, e a un certo punto non sopporta più. Scrive ai giornali e scatena la crisi: il Duce è nudo!
Ieri sera ad Annozero le donne c'erano: assurte al ruolo di protagoniste del potere, illuse di esserlo o comprimarie sfocate e ininfluenti? La escort usa ciò che la natura generosamente le ha dato - e fino qui nulla di nuovo sotto il sole - ma pensa bene anche di registrare la notte di passione e di assicurarsi delle prove. Si trova tra le mani un cliente potente, potentissimo, che le promette mari e monti. Forse ha paura? Forse pensa di sfruttare al meglio la situazione? Forse si monta la testa? Cosa vuole? Potere: quello con la pi maiuscola che la politica può dare? Quindi quando l'altra donna - Veronica la moglie - squarcia il velo dell'ipocrisia e denuncia pubblicamente la frequentazione di minorenni da parte del marito, lei non copre il maturo spasimante, ma racconta tutto e consegna ai magistrati le registrazioni. In trasmissione viene letteralmente massacrata da un Belpietro che del potere rappresenta la faccia più indisponente e squallida, ma nota. Sbaglia lei parlando di dignità perché - poco esperta nei sottili giochi del potere - pensa di poterla mantenere la dignità, almeno uno straccetto di dignità. Ma ogni gioco ha le sue regole: questa donna l'ha ceduta in cambio di denaro e favori, senza ancora sapere che i potenti, spesso, la perdono per strada perché il potere richiede compromessi e la dignità fa a pugni con i compromessi. Avrà tempo d'impararlo, sempre che questo potere al quale ambisce non la stritoli prima.
Veronica, la moglie tradita, si è ribellata: la legge sul divorzio glielo consente, ma per trent'anni non ha visto, né intuito nulla? E, nel momento in cui ha deciso di parlare, lo ha fatto con una lettera ai giornali? Perché questa modalità? Seguita dall'attuale impenetrabile muro di silenzio. A cosa è dovuto questo tardivo rigurgito di dignità offesa? Qual é il messaggio che ha voluto mandare al potente marito? Forse, con la complicità dell'alcova condivisa, é a conoscenza di qualche segreto... La signora che, a differenza della D'Addario, ha consulenti di ottimo livello che il cospicuo patrimonio del marito le assicura, si muove con maggior scaltrezza.
Le giornaliste presenti fanno il loro lavoro e guardano, un po' sorprese, le due giovani donne che, tra il pubblico, sono invitate a parlare. Ringhiano entrambe: la femminista e la sfegatata ammiratrice nonché giovane militante del Pdl. Sono cresciute in una società che privilegia lo scontro rispetto al confronto, inchiodate davanti a una TV teatro di risse, oscenità e volgarità, che le ha tirate su bene: sanno parlarsi addosso, alzare la voce e non dare spazio all'interlocutore. Non sono certo la punta di diamante dell'intellighenzia femminile. Direi piuttosto il ventre molle.
Le nuove leggi varate negli ultimi decenni tutelano oggi la donna, dando chance alle mogli oltraggiate che Donna Rachele non aveva. Ma quale uso fa l'altra metà del cielo di questa che, pur con i suoi limiti, è una libertà di scelta?
Non affiora tra le donne presenti nemmeno un barlume di complicità. Moglie e amante si coalizzano soltanto nei film americani e con modalità macchiettistiche. Prevale la gara per la conquista dell'uomo di successo alla messa in atto di strategie per ottenere il successo, e i giochi di potere, appena abboozzati, maldestramente ricalcano quelli maschili.
Copiare le stantie logiche del potere, appannaggio dei maschi,come troppe donne sembrano fare, sarebbe l'ultimo errore da compiere.
Io credo che la voce delle donne possa e debba essere un'altra, quella che il silenzio attualmente copre, quella che non ha ancora trovato il giusto timbro ma che, ne sono sicura, lo sta cercando, lontano, il più lontano possibile dalle stanze e dalle modalità del potere. del potere.