sabato 27 febbraio 2010

La forza della vulnerabilità

Io non penso ci siano persone "forti", soltanto persone in grado di affrontare spesso, non sempre, le difficoltà. Anche se nell'opinione comune (teoricamente corretta solo perché ritenuta tale dai più)la fermezza è dei forti, io penso che la convinzione della propria forza sia già una dimostrazione di debolezza e gli atteggiamenti granitici, negando il confronto che metterebbe in discussione
le scelte,non possano considerarsi auspicabili a priori. Troppo complessa è la realtà in cui siamo immersi per poterla semplificare ritenendola gestibile con una risposta univoca che soddisfi più domande.
E già da questa breve premessa s'intuisce la complessità dell'argomento che tanto mi ha fatto riflettere. Direi che il primo requisito di una caratterialità autonoma, che affronta i propri nodi e non ne delega a altri la soluzione, è la coscienza/conoscenza della realtà: nostra e altrui. Quindi se raccontare balle è moralmente scorretto, raccontarsele è minare alla radice la propria sicurezza.
Perché così spesso, allora, si travisa la realtà attraverso la negazione della verità? Forse per non affrontare la sofferenza che comporta l'accettazione della realtà per ciò che è. Di conseguenza, una persona in preda all'angoscia dimostra di essere sulla strada giusta per risolvere i propri problemi: è un individuo che sta tracciando la mappa della sua situazione reale, primo approccio a una sua problematica angosciosa che gli consentirà di elaborare una tattica difensiva in attesa di ideare una strategia definitivamente risolutiva. Per affrontare un problema dobbiamo conoscerlo e immergercisi dentro, respirarne l'aria mefitica, scrutarlo accendendo, a svelarne le magagne e l'intimo orrore, la luce della nostra razionalità e consequenzialità logica. Quando state paurosamente male, fate un bel sorriso, perché state per imboccare o avete appena imboccato la strada giusta per risolvere il vostro problema, anche se intorno a voi respirate aria di pietismo e di riprovazione per un dolore che traspare da ogni vostra parola e che incupisce e avvelena ogni vostro sguardo.
Soltanto un piedistallo di vulnerabilità vissute fino all'osso può reggere, allora, la nostra forza? Io penso proprio di sì. E voi?

lunedì 22 febbraio 2010

Creatura d'acqua (racconto a puntate)

Adalgisa seguiva il ritmo delle stagioni piantando insalata e pomodori in primavera e raccogliendo peperoni e melanzane, in estate, un cappelluccio di paglia in testa e il grembiule annodato a contenere i mazzi di papaveri che le regalava Lorenzo. Era uscito dal manicomio anche lui, ma conservava i tic, la balbuzie e nello sguardo una muta richiesta di aiuto che sembrava placarsi solo quando incrociava lo sguardo di Adalgisa o baciava la sua bocca, rossa come le ciliegie che d'estate le pendevano dalle orecchie dondolando nel mare nero dei capelli
Adalgisa continuava le sedute con il terapeuta perché la notte, spesso, urlava di terrore quando incubi, di cui non ricordava praticamente nulla, la risvegliavano sudata e tremante.
Una sera d'inverno, la casa immersa nel silenzio, i campi brulli appena rischiarati da una luna livida e spettrale, un lamento la scosse. Era lei quella ragazzina tremante, scalza e coperta a stento dalla camiciola che mostrava la gambe sottili dalle ginocchia puntute? Sì, era proprio lei, svegliata da un fruscio seguito a una risatina trattenuta in gola a stento. Poi qualche parola susssurrata. Con chi parlava sua madre? Suo padre, partito il giorno prima per Trieste per acquistare una barca usata era già rientrato? Adalgisa che non era una studentessa modello aveva preso un bel voto in storia e era impaziente di dirlo a suo padre. Una volta tanto avrebbe meritato un complimento.
Scivolò leggera; dalla porta appena socchiusa della camera dei genitori filtrava un filo di luce che sembrava incorniciare d'oro la porta.
La parte restante della casa era avvolta nel buio, il silenzio era assoluto.
Perché non spalancava la porta, perché accostava l'occhio alla fessura? Perché non entrava? Perché l'uomo che stava disteso sul letto aveva i capelli biondi, chiari e setosi, e non quelli ricci e neri di suo padre. Perché quel ricordo rintanato - nascosto nell'ombra più nera dove il sole non ha accesso, gli agnelli si scoprono lupi, le madri ghignano e come streghe si strappano i figli dalle viscere -  invecchiato e rattrappito, l'afferrava laido arpionandola con mani adunche? Un urlo le montava dentro, le saliva alla gola. Irrefrenabile. E le mille ferite di quelle frasi alla Gisa svagata, sbadata, allla Gisa che inventa, che non ha la testa a posto, di cui non ci si può fidare, non sono più colpi inferti a vuoto. Hanno un senso: sono la tattica minuta, quotidiana, di una strategia che deve salvare la madre. A prezzo della figlia.
Ora l a Gisa è sveglia, e urla, urla tutta la sua rabbia, urla il dolore e l'ingiustizia, urla da non riuscire a calmarla. Sveglia tutta la casa.
Fuori, in direzione di Venezia, prima di schiarire nell'alba il cielo si accende di un riverbero d'oro. In città impazza il Carnevale.
La mattina seguente Adalgisa si sveglia molto presto, si veste con l'abito da carnevale, indossa la coda, si copre con il mantello e prende la maschera. Quando esce è ancora notte, il cielo è nero ma pieno di stelle che incominciano a sbiadire. Non ha paura mentre percorre il viottolo sterrato, la coda che la segue come un cane fedele. Alla stazione di Mestre, in una pioggia di coriandoli, decine di maschere invadono la banchina salendo sui treni, dirette a Venezia. Volti di cartapesta abbattono il confine tra realtà e fantasia, tutto sfuma, prende il sopravvento l'audacia, prevale l'eccesso, la voglia di sbragarsi, divertirsi e recitare in quella città che è un palcoscenico a cielo aperto, sottile intreccio di finzioni alimentate da una tradizione che la incorona da secoli regina del Carnervale.
"Una sirena così bella non può andarsene da sola" e un paggio, cortese, l'aiuta a salire. Nella carrozza si scambiano panini e risate, mentre fuori esplode il giorno facendo risplendere d'oro le cupole delle chiese veneziane. La città l'accoglie con la geometria umida dei canali e il sottofondo di voci che s'infrange sul rumore dei passi. Si avvicina, si specchia, sorride a quell'immagine di sé che si sfalda nell'acqua. Dov'é la casa del direttore dell'ospedale? Li lega una promessa; lui, salutandola, le ha detto: "Quando troverò la tua coda di sirena sul mo zerbino, capirò che sei tornata tra noi, accettando di essere una donna... Sono sicuro che quel giorno arriverà".
Prosegue, si ferma e legge la targhetta. Fa ancora qualche passo. Eccola. Sciglie il nastro che le lega alla vita la coda e la depone davanti alla porta.
Poi si volta, raddrizza le spalle e se va. Un bambino, puntando il dito sul canale grida: "Mamma, mamma guarda... una sirena".
"Non esistono" risponde la madre mentre sul filo della corrente,  risaltano lucide le scaglie che l'ombra nera di una gondola cancella. (Fine)
Racconto in memoria di Franco Basaglia

domenica 21 febbraio 2010

Creatura d'acqua (racconto a puntate)

Si sedette, molesti i pensieri le ronzavano in testa. Poi si avvicinò allo specchio dell'armadio: una donna giovane, un po' scialba, magra, curva quasi la vita fosse stato troppo pesante da reggere per lei. I seni piccoli e le gambe snelle di sua madre. Una donna. Come tante altre. In quello stesso specchio si era vista una mattina... Quanti anni erano passati? Com'era, come si vedeva e come la vedevano gli altri? Aspetti, forme diverse che le restituivano di sé un'immagine frammentata. Lei che si era aspettata una coda luccicante si era trovata davanti a quel corpo di donna che sanguinava e cambiava, imponendo compostezza e modestia e sguardi bassi... E le corse per le calli con i compagni di giochi, la raccolta di conchiglie, il sole sulla pelle giocando in riva al mare? Finito!Tutto finito.
Avevano parlato lei e il medico di questo suo rifiuto di crescere, della rabbia che sua madre metteva in quella parola "donna" che le schiumava sulla bocca come la bava di un moribondo. "Bella disgrazia nascere femmine..." E lo sguardo, come la nebbia quando cala fitta, alzava un muro. Respingendola.
La nonna era morta, portandosi nella tomba la coda da sirena e le carezze, e tutto era ridiventato reale, piatto: l'odore di marcio dei canali, i muri scrostati dalla salsedine, l'umidità che penetrava nelle ossa, i bambini con cui aveva giocato che ora si mettevano la brillantina nei capelli e allungavano le mani sotto la sua gonna.
Le parole del medico veneziano le erano scivolate dentro placando la paura e, pian piano, le aveva collezionate come le conchiglie che riempivano le tasche dei suoi grembiuli da bambina. Aveva comnciato a pettinarsi con un po' di cura, un'infermiera le aveva portato un rossetto e a Natale, quando al manicomio c'era stata la festa - anche per i matti esiste, deve esistere il Natale, aveva detto il direttore - se l'era passato sulle labbra. E le matte avevano ballato, e Lorenzo, che ogni tanto dava in escandescenze con la faccia contratta dai tic nervosi, le aveva detto tartagliando: "Sei bebebella..." e l'aveva baciata dietro all'orecchio. Sua madre pensava che i matti fossero anche scemi, ma la pazzia è spesso soltanto il prezzo che si paga per aver visto in faccia l'orrore, l'ultimo rifugio in cui rinchiudersi negando una realtà diventata intollerabile.
E lei, creatura in lotta tra la concretezza della terra e la sconfinata libertà del mare, aveva ripreso contatto con la realtà occupandosi dell'orto del manicomio.
Aveva in tasca l'indirizzo di una comunità che a Mestre avrebbe potuto accoglierla.
Negli occhi di sua madre, ora che glielo aveva detto, sollievo per questa sua scelta, nella sua testa parole - ad alzare paratie per difenderla dalla certezza di non essere stata amata né oggi, né mai - le parole che le ripeteva "el dotor": "Il mondo è pieno d'amore, vai a cercarlo altrove, Gisa. Vai a cercarlo altrove".
(continua... ).

venerdì 19 febbraio 2010

Ehi, misterioso lettore californiano che mi segui da un mese, perché non ti fai vivo?
Ti ringrazio, comunque, per l'attenzione che mi dedichi e... BUONA LETTURA!

Creatura d'acqua (racconto a puntate)

Da quando lei Adalgisa, la Gisa come la chiamavano in famiglia, la figlia matta, era stata rinchiusa in quel casermone dalle finestre sbarrate, sua madre si era sempre vestita di nero perché - ripeteva al marito - una figlia matta è peggio di una figlia morta. E ora, ora avevano deciso di rimandarla casa? Guarita?!
Sparuta e nera come un corvo, aspettava esitante dall'altro lato della strada mentre le macchine le sfrecciavano davanti facendola sobbalzare. Per primo si era mosso suo padre: aveva attraversato in fretta per raggiungerla, poi, impacciato, afferrata la valigia, l'aveva presa per mano: come a Venezia, quando lei era piccola e lui andava a prenderla a scuola per riaccompagnarla a casa.
"Andiamo, la stazione è a due passi" le aveva mormorato aggiustandole il colletto del vestito. Si erano incamminati: la madre davanti, lei,la Gisa, dietro e suo padre per ultimo. In silenzio. Sotto quel sole che per anni le era stato negato - aveva pensato Adalgisa allungando le braccia davanti a sé e alzando la faccia per goderselo tutto, quel sole tanto a lungo desiderato. "El Diretor", quando l'aveva, anche lui come suo padre, presa per mano, nel giardino giallo di sole del manicomio  le aveva gridato: "Bevilo Gisa! Bevilo! Ubriaca e rende allegri come una coppa di champagne".
Era passata una coppia: la donna si era voltata a guardarla mentre lei mormorava: "Bello. Caldo!" e sua madre la strattonava, arrossendo.
Sul treno aveva guardato scorrere i campi, osservando la gente che saliva, le ragazze in jeans e maglietta, alcune scollate e abbronzate. Sua madre davanti a lei sedeva muta, i capelli tinti, bianchi alla radice e le occhiaie nere di chi dorme poco, e male.
Si era alzata cercando di aprire il finestrino. Resisteva. "Siediti, è in funzione l'aria condizionata, non si può aprire!"
Aveva capito in quel momento di essere in gabbia? Di nuovo. O se ne rese conto a casa affacciandosi alla finestra per rivedere il canale e la piazzetta davanti alla quale dondolava una gondola, le mani di nuovo appese alle sbarre, come un uccello imprigionato?(continua...)

mercoledì 17 febbraio 2010

Creatura d'acqua (racconto a puntate)

Quanto tempo era passato da quel volo, per un istante perfetto e incredibilmente appagante, a quella finestra murata di sbarre, ai mugolii, alle urla, allo stridere delle chiavi che la chiudevano in gabbia? L'aveva salvata un gondoliere, riacciuffandola per i capelli e tirandola su dall'acqua del canale, e lei aveva pensato fosse l'arcangelo Gabriele, tanto era biondo e bello, ma solo fino a quando in dialetto veneziano le aveva borbottato "Ma cossa te 'a fato, porca malora?"
Ogni tanto al manicomio arrivava in visita sua madre con dietro suo padre, impacciato, il basco tra le mani callose di operaio e lo sguardo a terra, fisso sul pavimento. Soltanto quando un urlo più forte, lacerante come la sirena di un'ambulanza, invadeva l'aria, le sue spalle sobbalzavano.
Appena arrivata, Adalgisa si era guardata attorno inorridita; poi si era fatta piccola, sempre più magra, rintanandosi in un angolo della camerata, tappandosi gli occhi e turandosi gli orecchi...
Il tempo era passato; tra le sbarre quadrati di pioggia, spicchi di sole e la coda nera di una rondine in picchiata lasciavano soltanto intuire il succedersi delle stagioni che loro, le matte, sembravano ignorare urlando, ridendo o borbottando inebetite, ammassate come bestie in quello stanzone dai muri scrostati.
Una mattina era arrivato quel medico nuovo, alto, la pena che nello sguardo si scioglieva in dolcezza, un'attenzione nuova, puntigliosa, in quel suo girare per i reparti del manicomio osservando ogni malato, ascoltando ogni borbottio... Molte domande al personale interdetto, stupito, anche da parte di alcuni medici, nuovi come lui e giovani quasi quanto lui, che lo seguivano come uno sciame d'api in uno svolazzare di camici bianchi,  presto scomparsi per rendere visibile anche nell'abbandono della divisa il cambiamento: dai vecchi carcerieri in nuovi custodi.
Erano passati due anni e le porte del manicomio si erano aperte anche per lei.
Era uscita in un giorno d'estate, la calura che avvampava l'asfalto mentre, esitante, faceva i primi passi. L'abito nero di sua madre contro il sole aveva il colore della sua paura. (continua...)

lunedì 15 febbraio 2010

Creatura d'acqua (racconto a puntate)

Calava la sera su Venezia lasciando scivolare lunghe ombre sui canali. Nelle calli che risuonavano di voci ancora per un istante una risata spezzava, sgradevole, l'armonia dei suoni mentre il mormorio dell'acqua riaffermava il suo dominio sulla città che i lunghi tentacoli dei suoi canali rinserravano, come un amante troppo focoso. Avvolta in un mantello di seta, il cappuccio sollevato a coprirle i capelli, una maschera sul volto, una donna avanzava, guardinga, scrutandosi intorno quasi temesse un pericolo o cercasse qualcosa, qualcuno. Arrivata davanti a un portone si fermò lasciando scorrere lo sguardo sulla targhetta, poi, delusa, riprese a camminare. Non amava quella città anche se era in una di quelle calli che era nata e cresciuta, stentatamente come una pianta senza luce, troppo alta, troppo magra e pallida. Sua nonna, una sera mentre passeggiavano lungo i canali, le aveva detto:"Sei una creatura dell'acqua, una di quelle donne che possono nascere soltanto qui, dove incerto è il confine tra terra e mare e la lotta tra i due elementi non avrà mai fine...", per concludere con un sorriso "e se un mattino ti dovessi trovare luccicante di scaglie dalla vita in giù, be'... questa è terra di sirene". Lei l'aveva presa un po' troppo sul serio, marinando la scuola, un'inappetenza che si accentuava come il il senso di estraneità nei confronti delle persone e dei luoghi, rendendole la vita insopportabile. Sulla schiena le scapole, come due aluccie, la facevano sembrare un uccello pronto a spiccare il volo verso altri spazi, altri luoghi. Ma la madre la riacchiappava, la riportava a terra. Medici, iniezioni, ricostituenti: qualcuno scrollava la testa. Angoscia e rabbia accendevano gli occhi di sua madre come incendi in una notte estiva.
Un giorno mentre se ne stava seduta guardando gli altri mangiare sua madre le aveva messo un cucchiaio in bocca, come a una bambina, e lei che era una donna il risotto glielo aveva sputato in faccia... Lo schiaffo era volato, il piatto era volato. Singhiozzi, urla, i vicini affacciati a guardare, a borbottare curiosi, scuotendo il capo. Anche loro. Lei non ricordava bene: si era chiusa nella sua camera, a chiave, i colpi battuti sulla porta che rimbombavano. Forse, aveva solo cercato una via di fuga in quella finestra dalla quale entrava la voce dell'acqua che, mormorando, la chiamava mentre anche lei volava, i capelli come alghe danzanti che  alitavano intorno al suo volto chiaro mentre l'abbraccio dell'acqua l'avvolgeva, la rinserrava...
(continua...)

domenica 14 febbraio 2010

Ancora parole

Nel silenzio della stanza,
come carezze,
parole
accendono bagliori
nella notte dell'anima

Davanti al fuoco dei bivacchi
viaggiatori sconosciuti
si raccontano
dimenticate
estranee
verità.

giovedì 11 febbraio 2010

E il blog...

Lei teneva un diario un po' ripetitivo, rassicurante. Accogliente. Ispirandosi a questo retroterra di esperienza, quella mattina aveva cominciato a scrivere sul blog, un brivido, quasi una sottile inquietudine mai provata prima sulla pelle, all'idea che forse, prima o poi, qualcuno avrebbe letto le sue parole.
Differenza non da poco perché comportava l'assunzione di responsabilità necessaria per affrontare un eventuale confronto. Ma il blog non è fatto soltanto di contenuti, è, o potrebbe diventare, anche un frammento di quella bellezza da qualcuno ritenuta, e forse non erroneamente, salvifica per il mondo. Vagabondando per blog dalla grafica raffinata, leggendo post impreziositi dall'accuratezza ma anche dall'originalità aveva avuto modo di rendersene conto mentre, davanti agli occhi, le si srotolava il mondo che cominciava a esplorare come un viaggiatore partito senza una meta precisa, portandosi in spalla solo la curiosità. Mentre andava alla ricerca, come un cercatore d'oro, della vena che avrebbe cambiato la sua vita, questo spazio diventava palestra in cui addestrarsi alla scrittura in tutte le sue forme e modalità, diventava via d'accesso, ulteriore, alla scoperta di ciò che aveva sempre intuito essere ma che soltanto l'inquietudine e il malessere che le serpeggiavano sotto la pelle avevano fino a quel momento segnalato. Poi la scrittura diaristica si era fatta fantasiosa, slegata dalla sua realtà aveva acquisito leggerezza aerea... in quella babele di domande che individuava nei blog aveva cominciato a trovare anche delle risposte, si era riflessa nelle emozioni degli altri leggendovi le proprie e, finalmente, aveva visto, non intravisto ciò che avrebbe voluto essere o forse ciò che era, era sempre stata, e il blog l'aveva soltanto aiutata a scoprire.
Digitò racconto e... sorrise.
La nebbia della Padania svaporava lieve oltre la finestra mentre le parole si rincorrevano sul video come rondini in un cielo bianco di calura estiva.

Ultimo carnevale

Si erano appena sposati e lei non aveva ancora conosciuto i parenti del marito, suocera in testa. Erano partiti subito dopo la cerimonia, diretti a quel paesino, poco più di una spruzzata di case, a qualche chilometro da Chieti, dove lui, il marito, era nato e cresciuto.
Le prime ombre della sera già si allungavano a lambire i muri quando la loro macchina si fermò e Valeria, intimidita e quasi soffocata di baci e complimenti, venne fatta entrare.
“Non avete fatto festa per il matrimonio, festeggeremo il carnevale e la maschera più bella sarà premiata”, la suocera borbottò, volteggiandole intorno curiosa. Valeria sorrise scusandosi, poi con sollievo uscì dalla stanza lasciandosi alle spalle quell'atmosfera un po’ soffocante.
Entrò nella camera: sul letto un abito ‘Charleston’ in velluto di seta nero, una cloche che risultò essere della sua misura e scarpine di vernice. Di lato una maschera, nera e avorio come le scarpe.
Eccitata come una bambina, indossò il vestito, poi, lentamente, si voltò verso lo specchio dell’armadio.
Si guardò, percependo una sensazione di estraneità mentre la stanza si animava di presenze furtive, sospiri, mormorii; una risatina di gola gorgogliò alle sue spalle.
Alle sue spalle?
Che sciocca! La stanchezza e l’emozione di quella lunga giornata le stavano giocando un brutto scherzo – pensò, annodando il nastrino di velluto intorno al collo e fermandolo con un bocciolo di rosa color avorio. Troppo stretto le dette una sensazione di soffocamento. Tentò di allentarlo ma riuscì soltanto a stringere ulteriormente il nodo. Le sue mani afferrarono la rosa di tulle. Sentì sotto le dita inturgidirsi i petali, una spina le punse la mano. La rosa si apriva, viva. Viva? Spalancò la bocca cercando l’aria. Il nastro, quasi fosse stretto da mani invisibili, la stava strangolando.  Annaspando con le dita intorno alla gola, si gettò contro la finestra spalancandola con le ultime forze, ma sbilanciandosi nel movimento.
Il suo corpo piombò nel cortile senza un grido, mentre il nastro di velluto si scioglieva, roteando libero nell'aria della sera in uno spampanio di petali luccicanti.

Nel salotto il cicaleccio cresceva d’intensità e tutti commentavano, stupiti, la straordinaria somiglianza di Valeria con la bisnonna del marito, morta suicida precipitando dalla finestra, oh mio Dio!, alla vigilia di carnevale alle otto di sera del….
L’orologio a pendolo emise il primo rintocco. Tacquero le voci, mentre altri sette colpi rimbombavano uno dopo l’altro nel silenzio attonito della casa.

martedì 9 febbraio 2010

La città dei matti

"El xe un dei mati..." Di solito era sufficiente questa informazione a tranquillizzare i passanti o gli avventori di un bar quando, a Trieste, incrociavamo qualcuno un po' più incerto, traballante, lo sguardo che si puntava, indagatore, sul mondo che lo circondava come se lo vedesse per la prima volta. La città aveva seguito con un certo allarme e alcune polemiche il cambiamento che aveva spazzato via, quasi la bora si fosse intrufolata a fare piazza pulita, il vecchio regime manicomiale. Un folto gruppo di volontari, studenti, medici e giornalisti si era formato intorno a Basaglia a seguire da vicino e a realizzare un altro spazio di libertà a cui il Sessantotto aveva dato la stura, proponendo un modo assolutamente nuovo di considerare il malato psichiatrico. A Trieste, dove le osterie erano quasi più numerose delle filiali bancarie, molti alcolisti cronici finivano dietro alla rete di recinzione di quel ghetto di violenza, mancanza di rispetto e prepotenza che era il manicomio. Le depressioni femminili, le anoressie nervose e quelli che venivano sbrigativamente definiti "esaurimenti" nell'ignoranza dei familiari, rendendo difficile la convivenza con la persona psichicamente instabile, ne decretavano l'espulsione dal nucleo familiare e poi, frequentemente, la reclusione dietro alla porta di quella "gabia de mati" che era San Giovanni. Io che venivo da Gorizia avevo già visto quello che Basaglia era riuscito a fare in quella città, ma ricordavo anche la bufera di critiche che si era abbattuta su di lui quando uno dei suoi pazienti, durante un permesso, aveva ucciso a martellate la moglie. Tutti gli si erano rivoltati contro: i malati, come avviene generalmente per i diversi, facevano paura e in nome della sicurezza la gente chiedeva che tutto tornasse a essere come prima: i pazzi in gabbia e i sani fuori. Alla conferenza stampa indetta per l'occasione, quel veneziano nella sua parlata molle, strascicata, il volto percorso dai soliti tic nervosi e gli occhi stanchi di chi ha visto la sofferenza, non solo senza distoglierne lo sguardo ma facendosene carico, disse " E' un rischio che la collettività deve... è giusto, si assuma" aggiungendo "siamo tutti potenziali assassini, perché siamo tutti potenziali pazzi. Qualcuno di voi è in grado di indicare con assoluta precisione la linea di demarcazione che divide la salute dalla malattia mentale?" Basaglia della pazzia respirò prima il gusto acre della sofferenza e poi la specificità della malattia avvicinandosi a quegli ultimi degli ultimi con la generosità dell'anima prima di dedicare loro quella del suo tempo e del suo intelletto.
Ieri sera lo sceneggiato "La città dei matti" mi ha commosso, rimescolando ricordi di luoghi e persone. Ambientato a Trieste, la città italiana in cui, abbattuto il confine tra malati e sani, si riuscì a realizzare il sogno di Basaglia, lo sceneggiato si conclude con un'immagine di "matti" liberi a zonzo tra cielo e mare. La legge 180, che avrebbe dovuto assicurare concretezza normativa alla nuova istituzione manicomiale, venne varata prima della morte dello psichiatra anche se il condizionale è d'obbligo perchè la 180 trovò e trova anche oggi notevoli impedimenti sul suo cammino che ne rendono incompleta l'attuazione impedendo la realizzazione del progetto di Basaglia in gran parte del Paese.
Per abbattere i confini è necessario averne vissuto tutta la tragica realtà, il limite, la chiusura... Quale città più della mia Trieste avrebbe potuto farlo?

lunedì 8 febbraio 2010

Dov'era l'aria?

Davanti ripiani ricolmi di scatole di biscotti: tutti i biscotti del mondo. A destra caffè, tè e tisane. A sinistra... una macchia nera che si accendeva di luci come un albero di Natale nel buio della notte.
"Devo stare calma" pensò mentre la sensazione d'instabilità andava aumentando. Si appoggiò al carrello e spalancò la bocca in faccia alla commessa dei prodotti da banco che, guardandola interrogativa, le stava chiedendo: "Desidera?"
"Aria" rispose - fortunatamente farfugliando - mentre un vago sconcerto si disegnava sulla faccia della donna. Era passata da un reparto all'altro senza vedere nulla intorno a sé, arpionata al carrello nel quale scaraventava a caso ogni tanto qualcosa. La musica in sottofondo le rimbombò nel cervello mentre allungando la mano, indicava qualcosa. Un altro pacchetto andò a canestro, lo specchio davanti a lei che le rimandava un'immagine di sé dall'espressione atterrita, quasi irriconoscibile.
La paura, quella sì reale, si nutriva di paure immaginarie che la sua vivida fantasia sollecitava.
Spalancò di nuovo la bocca. Dov'era l'aria?
E pensare che non aveva mai fumato per paura del cancro al polmone. Ma il fumo passivo?
Impossibile difendersi dalla stupidità altrui.
"E' questione di destino" pensò allungando il tesserino della Coop alla cassiera del supermarket.
"E' la tessera sanitaria". La donna davanti a lei appoggiò qualcosa sul bancone e attese.
Qualche borbottio di disappunto alle sue spalle.
"Lei fuma?"
"No" rispose la cassiera aggiungendo "Perché?"
"Non abbiamo tempo da perdere... Allora va avanti o indietro questa fila?" e la voce alle sue spalle assunse un tono stizzito.
Si voltò. Lentamente.
"Lei fuma?" chiese, fredda.
"E a lei cosa gliene frega?"
Altri borbottii si levarono dalla fila che si stava allungando.
Era a causa di uomini come quello, della loro arroganza, maleducazione e...
"Allora si muove o dobbiamo fare notte?"
Era sempre lui, il presunto fumatore.
"Io non ho fretta" disse.
"Ho la macchina in divieto di sosta, vuole muoversi?"
"Perché mai" pensò "è l'unica vendetta che mi posso concedere, farti prendere una multa" e con sollievo senti il respiro farsi profondo. Stranamente, improvvisamente profondo. Calmo.
L'uomo in fila strabuzzò gli occhi, il volto arrossato nel quale affondavano due occhietti porcini si contrasse.
"Non si faccia venire l'infarto per così poco" soffiò, serafica, guardandolo.
Poi, con l'incedere di una regina, si diresse verso l'uscita. Non l'aveva riconosciuta, in quella donna tremebonda e impacciata non aveva colto la linea morbida dei fianchi e la bocca generosa che l'avevano ingolosito, tanto... quanto tempo fa? C'era soltanto una macchina in divieto di sosta. Bella, lustra e scintillante. Salì sulla propria vettura, mise in moto, puntò la macchina dall'altra parte della strada. Il rumore di ferraglia si perse nel suono della sua risata.
Ingranò la retro, gli attacchi di panico erano iniziati quando lui l'aveva lasciata, i colleghi che la guardavano ridacchiando quando lui entrava nell'ufficio e lei gli moriva dietro.
Lo vide uscire, un'espressione di meraviglia sul volto, le mani che, portate alla testa, lasciavano cadere i sacchetti della spesa. La bocca spalancata a cercare l'aria, mentre quella donna gli sfrecciava davanti con la macchina e lui, anche se l'aveva solo intravista per un istante davanti alla cassa del supermercato, aveva l'impressione di conoscerla. E molto bene. E il panico lo colse mentre si chiedeva il perché e la paura, quella sì reale, si nutriva di paure immaginarie che la sua vivida fantasia sollecitava.

domenica 7 febbraio 2010

Storia

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Guardò l’orologio: il tempo era passato in fretta. Aveva avuto la sensazione di ricordare qualcosa, come se… mah! Era stralunata! Probabilmente aveva soltanto bevuto troppa birra. Ma quelle sensazioni così violente le aveva scritte sul retro di una busta che aveva trovato sul tavolino del salotto. Quelle birre bevute in rapida successione avevano allentato l’abituale controllo che aveva su se stessa facendo emergere sensazioni dimenticate ma anche questo prepotente desiderio di scrittura. Rileggendo ebbe la sensazione netta di essere riuscita a comunicare esattamente quello che aveva dentro. Non doveva aver paura né dei ricordi, né delle parole per descriverli. Si chinò su quella bambina, si chinò a guardarla. Le sorrise, le chiese spazio, mentre le dilagava dentro una felicità nuova, così perfetta da lasciarla incredula. Ebbe la sensazione di aver camminato per anni su una bomba, conscia della sua presenza ma incapace sia di farla esplodere sia di disinnescarla. Il botto l’aveva sentito soltanto lei ed era volata come il Barone di Minhausen in quella Terra lontana che i suoi passi avevano cercato instancabili, quella terra lastricata di parole dove il tempo scorreva misurato dalle pagine sfogliate.
Capì, e fu per sempre, che il suo mondo, ignorato e negato per la paura di riportare a galla ricordi dolorosi, era la scrittura, passione che le scorreva nelle vene, sangue del suo sangue. Si rivide nella cucina della zia Maria, il vento che ululava e i cugini e sua sorella che la chiamavano a giocare rincorrendosi lungo il corridoio. Lei non rispondeva intenta ad ascoltare presa da quella malia della parola che avrebbe cercato per sempre nei libri di cui avrebbe riempito le pareti delle sue case. Collezionista di parole, anche quelle inusuali, dimenticate, quelle inventate che a scuola le cancellavano con la matita blu, anche se lei continuava a usarle cocciuta, ne aveva fatto pugnali per difendersi, tane per ripararsi, maschere per celarsi, ma ora erano lì, tutte in fila ai suoi ordini, come soldati sull’attenti davanti al loro comandante. Era arrivato il momento di sguinzagliarle in giro per il mondo, quel mondo di fantasia che aveva bussato per anni alla sua porta e che lei aveva ignorato, ma al quale apparteneva, come la zia Maria cantastorie nata. Le sembrò di vederle volare quelle parole insieme alla farina, mentre pasta e storia prendevano forma, la farina che diventava neve e cipria di donna che si fa bella, e zucchero candito di principessa golosa, nella cucina che sapeva di rosmarino, di caffellatte caldo e strudel di mele morbido come un abbraccio.
Si alzò dal divano e sembrava danzasse. Canticchiando bagnò le piante. Oh mio Dio, il rosmarino stava morendo. Si sentì in colpa, ma la domenica precedente era andata al mare, poi c’era stato il lavoro che l’aveva impegnata e poi, poi non c’era con la testa. Aveva - oppure no! - il diritto di non esserci anche lei con la testa? Pensava a un uomo? Pensava a se stessa? Be’, non aveva novant’anni, ne aveva soltanto quaranta. Sua nonna alla stessa età aveva fatto follie per amore. Raddrizzò le spalle con un gesto deciso, afferrò la borsetta e uscì dall’appartamento. Il caldo era ancora soffocante, ma lei di buon passo si diresse verso la stazione ferroviaria. La gente usciva dagli uffici, l’aria stanca, la giacca sulla spalla, le camicie slacciate sul collo. Passò un uomo giovane, abbronzato. La guardò e lei accennò un sorriso, vago, appena abbozzato. L’uomo sorrise a sua volta. Quando con la coda dell’occhio notò che si era fermato affrettò il passo ridacchiando. Aveva deciso di non tirarsi indietro: la sua vita era stata troppo difficile e si sentiva in credito verso il destino. Si rese conto che provava qualcosa che non osava nemmeno definire, a cui non aveva il coraggio di dare un nome, sensazioni che accendevano le sue giornate. Da quanto tempo viveva immersa soltanto nei bisogni? Un alito di vento le fece turbinare la gonna scoprendole le gambe lunghe e snelle.
Si sarebbe comperata sandaletti legati alla caviglia e abiti scollati e pacchi di fogli e cartellette e non si sarebbe tirata indietro. Aveva una storia da vivere e una da raccontare: una vera e una verosimile. Affrettò il passo dirigendosi verso la stazione. Sulla sua testa stridevano – ubriache di sole - le rondini, piombavano in caduta libera nel cielo che le prime ombre della sera consegnavano alla notte estiva.

venerdì 5 febbraio 2010

Giovedì 4 febbraio ( -17 punti blogbabel)

mercoledì 3 febbraio 2010

Paolo Conte in concerto.

Il teatro lo accoglie con un applauso e lui, vestito di grigio, pantaloni un po' sformati, maglione girocollo e giacca che lo avvolge proteggendolo, fa un gesto breve, misurato, in direzione del suo pubblico. Schivo.
Poi siede al piano.
Nel teatro non vola una mosca, un alone di luce lo inquadra...La sua voce arrochita si leva, la musica la sottolinea lenta, lentissima, prima di esplodere lasciando spazio al virtuosismo dei componenti della band. Una canzone dietro all'altra sul filo della nostalgia che evoca i ricordi... Suoi, nostri.
Il pudore dell'ironia si mescola alla poesia, dolce e aspra, delle parole con cui si racconta mentre la musica si spezza, infrangendosi su tonalità contrastanti o evocanti profumi d'oriente.
Canzoni nuove e più raffinate interpretazioni di quelle stranote s'intrecciano, la sua voce si fa sempre più roca, lo strazio del violino lascia il posto alla solitudine che evoca il clarino o alla cascata di note del piano... mentre irrompe a tradimento il clamore della batteria con la sua vitalità incontenibile, come una ciga o una sarabanda popolari che spezzassero la composta geometria di un minuetto.
Alla fine siamo tutti in piedi e il nostro abbraccio lo avvolge, lo scalda, gli fa brillare lo sguardo imprigionato nella rete fitta delle rughe.
Un applauso interminabile sancisce la liaison ritrovata con il vecchio leone.
Paolo Conte strizza l'occhio e sorride, e la lunga linea grigia dei giorni si spezza...
Miracoli che solo la genialità può produrre. (-3 punti classifica Blogbabel)

lunedì 1 febbraio 2010

Perché?

Ultimo commento su Blogbabel, poi mi limiterò a indicare ogni giorno la valutazione: del silenzio o dello "scritto". Avrei preferito, potendo scegliere, optare per la cancellazione del mio blog.
Rilevo un cambiamento radicale nelle valutazioni (altro record: 5 punti in meno al posto dei soliti 80/100) e questo mi basta, anche se la solita domanda mi frulla nella testa: "Perché?"

(-22 punti Blogbabel)

Ma quella di Blogbabel che rivoluzione è?

Oibì, oibò, se per Lenin la cadenza temporale della rivoluzione era "Tre passi avanti e uno indietro..." la mia conquista dell'ultimo posto nella classifica di Blogbabel marcia a "Tre passi indietro e uno avanti". Unica spiegazione plausibile: una discesa un po' più morbida.
Mentre mi godo i 12 punti di premio del silenzio (ma solo se conclamato) di ieri, in mente mi frulla una domanda: "Ma quella di Blogbabel che rivoluzione è?"

Nota bene: su Google il collegamento all'archivio di Blogbabel per i miei post è impossibile a causa di un non meglio identificato error 404. (-5 Blogbabel)