lunedì 29 marzo 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°6)

Mi era sembrato d'intravedere la manica di un giubbotto e una mano, probabilmente guantata. In preda al terrore, mentre afferravo la lampada posta sul comodino come improbabile arma di difesa, sentii girare la chiave nella toppa. Ero in trappola! Presa dal panico, mi attaccai alla maniglia urlando, poi corsi alla finestra. Sbarrata. Cercai, senza riuscirci, di calmarmi. Continuare a gridare non sarebbe servito a nulla... eppure mi resi conto che gridavo "Gloria, Gloriaaa... dove sei?" con tutte le mie forze. Qualcuno tentava di aprire? Mi acquattai dietro al letto, spiando. Scarmigliata in camicia da notte, i capelli che le ricadevano sulle spalle mettendo in evidenza il pallore del volto, apparve Gloria che entrò spalancando la porta.
"Giovanna, stai bene?"
Mi afflosciai sul letto, mentre Gloria borbottava :"E' scappato, penso fosse solo", occhieggiando fuori dalla finestra, nel buio appena attenuato dalla luce lunare.
"Chiamiamo il 118" dissi, continuando a tremare.
"Il 118?"
"Il 113, oh mio Dio non so quello che dico!"
"Non voglio polizia per casa... Andiamo a vedere se ha rubato qualcosa... " Gloria uscì dalla stanza e entrò come una furia nel laboratorio dicendo:
"E' riuscito ad aprire la porta! Abile, non c'è che dire!"
Si guardò intorno contando le bambole per verificarne la presenza. "Settanta, settantuno, settantadue... Ne manca una: la bambola Lenci..."
"E' una bambola di valore?"
Gloria mi guardò, e con voce incolore disse: "Perché il cane non ha abbaiato? Dov'é?"
Ci precipitammo fuori, mentre Gloria urlava "Tasso, Tasso... ", ma la povera bestia era a terra morta, gettata di traverso vicino al cancelletto, una bava verdastra che le colava dalla bocca, spalancata nell'ingordigia di quell'ultimo boccone. Chiaramente avvelenato.
Gloria si chinò sull'animale:"La pagheranno" sibilò tra i denti "La pagheranno anche per Tasso!" aggiunse ma senza dare l'impressione di provare dolore. Era animata da una rabbia fredda che i suoi occhi e le mani chiuse a pugno per un momento tradirono. Non era nemmeno spaventata. Oppure era dotata di notevole autocontrollo.
"Hai dei sospetti? Chi dovrebbe pagarla se non telefoni nemmeno alla polizia?"
"Ho un amico che ha un ufficio di... "
La interruppi, ironica "Vuoi dire un investigatore privato? Ma figurati: quelli si occupano solo di corna domestiche. Non è prudente stare qui isolata, te lo ripeto:è pericoloso. Magari qualcuno ha saputo che nella tua casa ci sono oggetti di valore".
Lei mi guardò "Sarà stato un drogato, non certamente un professionista... "
Non risposi ma lo sconosciuto che si era introdotto in casa dopo aver neutralizzato il cane, aprendo, senza quasi fare rumore, tutta una serie di porte non mi sembrava potesse essere un qualunque ladruncolo. Perché Gloria mentiva? Spudoratamente?.
(continua...)

domenica 28 marzo 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°5)

"Non ci sono sotto grandi misteri... Come ti ho appena spiegato mi arrivano bambole da aggiustare anche di grande valore. Non sai quanto siano disposti a sborsare i collezionisti per una di queste bambine" e Gloria me ne indicò una, aggiungendo:"Vale un patrimonio: era di mio nonno che la lasciò a mio padre". Io mi avvicinai per ammirare quel piccolo gioiello da vicino. Sentii Gloria alle mie spalle e mi voltai. Mi stava osservando in silenzio, un velo di sudore sulla fronte, il volto teso, come temesse qualcosa.
"Non la tocco, stai calma" le dissi, un po' seccata, per tranquillizzarla. Poi mi avvicinai alla finestra: pioveva, quasi diluviava, e Gloria mi propose di dormire a casa sua. Accettai, anche se l'invito un po' mi meravigliò. Mettemmo delle patate,a vvolte nella carta stagnola, a cuocere sotto la cenere calda e mangiammo davanti al caminetto. Restammo davanti al fuoco a raccontarcela fino a notte inoltrata, mangiucchiando frutta secca e Gloria, che aveva girato mezzo mondo, mi fece vedere alcune scatole piene zeppe di fotografie: una di queste la ritraeva a un'esposizione di bambole a New York, un'altra in Giappone a un'asta. "E questo chi è?" Tra le mani tenevo una fotografia: ancora lei giovanissima, un'adolescente acerba, con accanto un uomo. Me la strappò, poi rise stridula:"Non sarai curiosa come la tua vicina di casa?" disse, facendola scivolare nella tasca del grembiule. Feci un cenno di diniego, ma la faccia dell'uomo accanto a lei l'avevo già vista. Forse mi ricordava qualcuno. Perché Gloria l'aveva fatta sparire? Sapeva che quell'uomo lo conoscevo o era solo la sua solita ritrosia, quel riserbo su se stessa che sembrava essere struttura portante della sua personalità? Alle mie mute domande rispose solo il verso stridulo di un uccello notturno.
"La civetta ha cantato... Sei superstiziosa?" mi chiese. Mentendo, negai.
Stavamo ormai crollando entrambe dal sonno e, augurandoci la buona notte, andammo a dormire.
Stavo sognando qualcosa di piacevole, quando udii qel fruscio. Aprii gli occhi: il silenzio era rotto solo dal verso di un uccello notturno. Cos'era? Di nuovo la civetta? Quando la civetta canterò tre volte... Rabbrividendo mi tornarono alla mente vecchie superstizioni che attribuvano poteri premonitori di disgrazie al verso dell'animale. Beh, eravamo a quota due... Un filo di vento si alzò e qualcosa scricchiolò: un ramo? Cric, una pausa di silenzio, crac. Ebbi la sensazione netta di un passo: cauto qualcuno si muoveva nella casa. Forse a Gloria le patate si erano piantate sullo stomaco e si era alzata per farsi una tisana? Non volendo svegliarmi tentava di non fare rumore? Da sotto l'uscio però non filtrava luce e poi l'estraneo non era in cucina: era davanti alla mia porta. Sentii il cuore saltarmi nel petto e il sangue rombarmi nelle orecchie mentre la maniglia della porta - i miei occhi ormai abituati al buio potevano intravedere qualcosa grazie al chiarore della luna - si abbassava. Lentamente.
"Chi è?" La mia voce risuonò istericamente alta nel silenzio ovattato della stanza.
Lugubre si levò, per la terza volta, il canto della civetta. (continua...)

venerdì 26 marzo 2010

Passato, presente e futuro

Se
malia,
venata di malinconia,
è
in te
il rimpianto del giorno perduto

se
aspro
del sangue
è
in me
il gusto
del giorno sconosciuto

è
il tuo
sospiro
che appena sfiora
il morso
della mia paura
il fragile presente
che ci unisce?

mercoledì 24 marzo 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°4)

"Come viveva Gloria? Lavorava?" Quel giorno, il cielo era grigio e in lontananza qualche mormorio di tuono borbottava minaccioso, la campagna trasudava umidità e quella tristezza palpabile che forse solo boschi e prati fradici d'acqua riescono a comunicare. Mentre ci riscaldavamo con un tè bollente arrivò il postino".
"Il solito signora. Una firma qui" disse, sbirciando curioso mentre il cane gli faceva le feste abbaiando furiosamente.
Gloria prese il pacco, firmò, poi con un cenno del capo mi invitò a seguirla. Si fermò davanti a una delle porte che si aprivano sul secondo corridoio, quella accanto al bagno di servizio: tolse una chiave dalla tasca, la infilò rigirandola nella toppa - mi chiesi perché essendo soltanto lei in casa la tenesse chiusa a doppia mandata, portandosi addirittura addosso la chiave - ed entrò.
Depose il pacco sul tavolo e lo scartò: conteneva una bambola dal volto di porcellana, i capelli veri e gli arti di legno. Gloria fece un gesto con la mano indicandomi altre bambole che riempivano letteralmente la stanza, dicendo:"E' stato mio padre a insegnarmi ad aggiustarle, a cucire i loro abiti, a confezionarne le scarpe in pelle di capretto. Le colleziono da anni... Hanno tutte un nome, le mie bambole, le mie bambine, e questo è il mio laboratorio". Aveva gesti materni, tenerezze nello sguardo che non le avevo mai visto. Io mi sentivo, più che osservata, quasi trafitta da tutti quegli occhi che sembravano guardarmi, quasi le bambole dagli scaffali sui quali erano allineate una accanto all'altra, come soldatini, mi stessero valutando.
Alcune, le più preziose, erano conservate in teche di vetro o cristallo.
"Sono una celebrità nel campo, be' non proprio una celebrità", mi disse, "ma un'esperta senza dubbio. Questo lavoro e queste bambole sono tutta la mia vita!"
Poi Gloria, chinandosi a osservarne una, aggiunse: "Questa è la più preziosa della collezione, ma... vedi questa teca vuota: conteneva la bambola che mi era più cara. E' una storia lunga, forse un giorno te la racconterò. Io sono ebrea... ".
L'ultima frase, poco più di un sussurro, quasi si confuse con il rumore della pioggia, che aumentando d'intensità scivolava monotona sui vetri della finestra del laboratorio dando l'impressione che le bambole, riflesse nel vetro rigato dall'acqua, piangessero.
Tornammo in cucina e Gloria, versandosi un'altra tazza di tè mi disse:"Be', di una passione ho fatto una professione. Mio padre sarebbe stato fiero di me... Sai che la bambola che mi è arrivata oggi è esposta in un museo francese a Marsiglia? E' un lavoro che amo. Molto."
"Avevo sentito delle chiacchiere su questi misteriosi pacchi che provenivano da tutto il mondo" le dissi.
Gloria rise e aggiunse "Qualcuno ti ha fatto delle domande precise? Hanno fatto ipotesi sul loro contenuto?" Io arrossii incerta e risposi:"Sì, non mi va di raccontarti delle bugie, la gente aveva fatto... " Gloria m'interruppe:" La gente? Chi?"
Io, impacciata per come stava andando la discussione e conscia di essere caduta nella sua trappola, le borbottai: "Be', una mia vicina mi gira intorno come un segugio, per sapere qualcosa di te. In un posto piccolo come questo una persona con le tue caratteristiche non può non colpire la fantasia della gente".
Gloria sembrò riflettere, poi piantandomi addosso quei suoi occhi che per un istante mi sembrarono quelli delle sue bambole tanto erano freddi e lontani, spersi in un mondo al quale soltanto lei aveva accesso, mi chiese:"Posso fidarmi di te?"
Annui, curiosa.
"Nessuno deve saper nulla delle mie bambole! Tacita le chiacchiere dicendo che sono una collezionista di libri, libri di cucina!" e rise, concludendo "Così quelle quattro casalinghe frustrate mi troveranno meno strana".
Osai chiederle:"Perché?".

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°3)

Io ero divorziata e lei, quando la conobbi, sola. Cominciammo a frequentarci: era, come me, una lettrice onnivora e nella sua casa, come nella mia, i libri coprivano intere pareti contribuendo al disordine delle nostre abitazioni. Non avevamo gli stessi gusti letterari: io ero sanguigna, passionale, amavo la scrittura piena, densa e a una storia chiedevo di emozionarmi, coinvolgermi e sorprendermi. Prediligevo la narrativa e amavo gli scrittori russi dei quali ero solita ripetere:"Se volete dipanare i vostri nodi emotivi, esplorare la vostra anima, partite leggeri per affrontare gli abissi, ma non scordate Tolstoj e Dostoevskij... ". Lei amava la letteratura giapponese: essenziale, senza sbavature, contenuta e raffinata come un giardino zen e non conosceva soltanto Kawabata, Mishima e Tanizaki come me, ma anche, ad esempio Murasaki, autrice importantissima nella letteratura giapponese ma da me considerata noiosa se non illeggibile. Ero affascinata da Gloria, questo era il suo nome e, nomen omen, secondo me il suo destino. Ma alla base di questa fascinazione che io subivo c'era il mistero che la circondava, che ne costituiva l'essenza. L'altro elemento che mi aveva attratta in lei era l'originalità che rendeva unica la sua casa, dove ogni oggetto sembrava portarsi dietro una storia ben più importante, nell'averne determinato la scelta, della sua funzionalità. Originalità che si estendeva ai suoi abiti, ai gioielli, ai cappelli e a tutto ciò che lei indossava.
"Ma dove l'hai trovato?" le chiedevo a volte, sorpresa e incuriosita da qualcosa di assolutamente unico, e lei, con quello sguardo che non riuscivo a decifrare ma che m'impediva di porre altre domande, sussurrava:"In giro... In giro per il mondo".
Gloria era una collezionista nata e vestiva "Vintage" che io, in quegli anni non sapevo nemmeno cosa fosse. Ma perché una donna come lei frequentava una persona come me? Un giorno, eravamo sedute davanti a una tazza di tè nel suo giardino, le feci una domanda che non avevo mai osato porle:"Perché mi frequenti?" Lei, solitamente controllata, mi piantò addosso quei suoi occhi freddi. Mi guardò, le labbra sembrarono schiudersi quasi volesse parlare, e, mentre un lungo brivido mi scorreva lungo la schiena, articolò una risposta assolutamente banale e... falsa che una scintilla nello sguardo tradì. "Mi sei simpatica" e rise, di quella sua risata aspra che ignorava la gioia. Mi alzai con una scusa e me ne andai, portandomi dentro quella sensazione di soffocamento che tentai invano di attribuire al nauseabondo impudico profumo delle zagare, ben sapendo che era stato quel luccichio che lo sguardo aveva tradito, quel bagliore da fiera in agguato che attende di scaraventarsi sulla preda che mi aveva turbata.

lunedì 22 marzo 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate (n°2)

Era una donna strana che al di là di quella frase, pronunciata quasi in un sussurro, parlava poco di sé ed era abilissima nello sviare le domande.
Viveva sola in quella casa enorme sulla collina, ai margini del bosco, nel silenzio che solo qualche squittio di uccello o il gemito del vento infrangeva. Non si sapeva da dove venisse, non riceveva visite, ma il postino le recapitava spesso dei pacchi che lei ritirava prendendoli tra le braccia con grande attenzione e stringendoli al petto con delicatezza, quasi coccolandoli come fossero neonati che una madre ninnasse per farli addormentare. Spesso la si vedeva girare per i viottoli della campagna o uscire dal bosco, un cesto pieno di fiori di campo tra le mani, la gonna che strusciava sull'erba. Il primo giorno in cui ci conoscemmo, scambiando due parole mentre aspettavamo il nostro turno in fila all'ufficio postale, m'invitò a prender un tè a casa sua. Anche se un po' stupita, accettai e la seguii con la mia macchina lungo la strada a tornanti che portava alla collina. Le case andavano diradandosi mentre salivamo e i campi si susseguivano brulli, alternandosi ai vigneti che spezzavano la monotonia del paesaggio. Qua e là alberi spogli alzavano al cielo i loro rami contorti; la macchia scura del bosco dominava dall'alto la collina, le punte diritte dei pini che sembravano cercare il tepore di un pallido sole invernale che la nebbia, frantumata in banchi che ingoiavano la macchina a tradimento, celava dando la sensazione di un paesaggio più sognato che visto. Finalmente dietro all'ultima curva la macchina che mi precedeva rallentò. Una casa in pietra emerse dalla nebbia, le imposte di legno e un porticato proteso a rinserrare, quasi volesse proteggerlo, un portoncino. Rompendo la monotonia dei grigi da grandi vasi addossati gli uni agli altri in un disordine pittoresco e voluto occhieggiavano piante di mandarini e limoni, cariche di agrumi. Quel profumo aspro insolitamente mischiato a quello del bosco e della terra fracida di umidità mi afferrò alla gola appena scesi dalla macchina.
Entrammo e lei, dopo aver gettato della legna nel camino, soffiò per rinvigorire il fuoco che si stava spegnando.
"Hai una casa bellissima... " le dissi guardandomi intorno.
Sorrise.
"Io avrei un po' di paura a starmene da sola... "
"Paura di cosa?" mi rispose e mi lasciò scivolare addosso uno sguardo che non riuscii a decifrare, opaco, improvvisamente estraneo come la sua voce che aveva assunto una tonalità bassa, roca, qusi la gola le si fosse chiusa e facesse fatica a parlare.
"Paura?!" ripeté con quella voce che inquietava e aggiunse: "Ho fatto la torta di mele. Vuoi assaggiarla?"
Annui, allungando le mani verso il calore che proveniva dal caminetto, mentre lei armeggiava con il bollitore dell'acqua. Nel silenzio ebbi la sensazione di un fruscio seguito da un rumore. Mi voltai e lei mi disse: "Ho un cane, protesta perché vorrebbe entrare".
Poi sorrise e si voltò verso la credenza a prendere le tazze.
(continua...)

La casa delle bambole - racconto a puntate (n°1)

Ci fu un inverno - che anno era l’Ottantacinqe? - in cui nevicò per un mese e il termometro scese a meno venticinque. I vecchi scossero il capo e dissero: "Ora geleranno anche le radici delle viti... "
E così fu.
Mi chiedi come si possa capire se quello che sembra autocontrollo sia invece landa artica dei sentimenti. Non dalle parole che usiamo per spiegare ma anche per mentire. Negli anni questi cuori gelati imparano a mimare i sentimenti, ma se i gesti si possono imitare, lo sguardo, il sorriso tradiscono anche i più abili. Diffida di chi non ti guarda negli occhi. Diffida di certe labbra che sembrano una sciabolata inferta a un volto e che, come ferite subite, chiedono vendetta. Lo sguardo di queste persone è raggelante perché è il riflesso di un’anima vuota. E’ un deserto senza calore, una landa gelata senza brividi, un bambino senza innocenza. Mi chiedi se io abbia conosciuto…? Sì!
Mia nipote si accoccolò ai miei piedi, sul tappeto, mettendosi comoda e io cominciai a raccontare.
L’avevo conosciuta, questa giovane donna, banalmente, entrambe in fila per fare un pagamento alla posta. Mi aveva invitata a casa sua, una casa enorme arredata con un gusto personalissimo, raffinato e inimitabile. Regina incontrastata di questo regno fuori dal tempo lei, con i suoi abiti decadenti e un po’ assurdi, soprattutto per gli abitanti di quella spruzzata di case sparpagliate sulla collina: contadine emiliane che salutavano cerimoniose continuando a dare il becchime alle galline, il grembiule annodato sui fianchi, i cani che abbaiavano diffidenti a chiunque passasse davanti ai poderi.
Appena conosciuta mi aveva detto: “Bisogna fare attenzione a non soffrire troppo: il dolore è come il vetriolo: sfigura! Brucia, come un inverno di ghiaccio... ” (continua...)

domenica 21 marzo 2010

Bussare alla porta di una sconosciuta...

"E questo chi è?" mi chiesi la prima volta in cui bussò alla mia porta, dubbiosa se farlo entrare oppure no. Era uno sconosciuto, un uomo ed era nero. Poi la mia innata curiosità ebbe il sopravvento. Abitava nel condominio, era in Italia da qualche anno e si chiamava Omer: veniva da uno dei tanti paesi africani dilaniato da guerre tribali. Parlava già bene la nostra lingua. Da quel giorno prese l'abitudine di venire ogni tanto a darmi un saluto e un giorno mi annunciò l'arrivo dall'Africa della moglie e della figlia. Non dimenticherò lo sguardo di Paola, la sua bambina di sei o sette anni, bellissima e... muta. Non parlava una parola d'italiano e si guardava intorno spaurita, attaccata alla gonna della madre che, in francese, lingua ufficiale parlata nel loro Paese d'origine, cercava di rassicurarla. Era vestita di rosa e sembrava non riuscisse a riscaldarsi come se quella ventata di freddo che l'aveva accolta in Italia, l'avesse raggelata. La moglie di Omer, anche lei silenziosa, impegnata a decifrare quel mondo che doveva apparirle così diverso dal suo, mi guardava e sorrideva. Diffidente. Paola imparò l'italiano a velocità supersonica, complice un dvd - La carica dei 101 - che sembrava affascinarla e che mi chiedeva sempre di farle vedere. Quando venivano a trovarmi i miei nipoti, scendeva e... si scatenavano. Ritagliavamo delle figurine nel cartone, le coloravamo e poi si sceglievano i vestiti da confezionare. Io ho un armadio pieno di stoffe che per le bambine divenne il luogo delle sette meraviglie. Inventavano personaggi e si calavano nei loro panni: vestito come un predone del deserto o un antico romano il maschietto e come principesse le femmine, con le mie scope che diventavano armi e gli scatoloni casette da realizzare con colla e forbici. Ascoltavamo musica o navigavamo sul computer che in pochissimo tempo impararono a usare con la facilità di apprendimento incredibile che possiedono i bambini. Poi questi pomeriggi si fecero troppo pesanti per i miei problemi di salute, i miei nipoti vennero fagocitati da corsi e impegni scolastici e ci vedemmo meno. Il padre di Paola, nel frattempo, vivendo sulla propria pelle tutte le difficoltà di coloro che affrontano un mondo sconosciuto, ostile, nel quale, a partire dalla lingua, tutto è estraneo, pensò di creare un'associazione che diventasse punto di riferimento per gli immigrati della zona. Quest'uomo intelligente e intraprendente che non si accontentava di aver trovato un lavoro e di aver potuto ricongiungersi alla sua famiglia voleva qualcosa di più. Quest'uomo lavorava, si guardava intorno, parlava con gli immigrati, ma parlava anche con la gente del posto. Aveva bussato alla mia porta, un gesto apparentemente irrilevante... Omer era ed è, come me, profondamente curioso. Vuole sapere, domanda e, aspetto che lo differenzia dagli altri, Omer sogna, non si vergogna di sognare. Un mondo diverso, un mondo migliore. Aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a orientarsi nell'intrico della burocrazia, che compilasse domande, stendesse relazioni, conoscesse il burocratese. Per una delle tante stranezze della vita, coincidenze che non sono tali, la mia strada di ex professoressa in pensione, amante della scrittura, curiosa come lui, e ancora incredibilmente animata dalla speranza di un mondo migliore, si è incrociata con la sua.
L'associazione FUTURO è oggi una realtà e Omer, che è una vera e propria macchina da guerra, la dirige.Si sono già concretizzate alcune iniziative importanti, come il doposcuola per i bambini degli immigranti, feste intese come occasione di incontro e confronto, servizi e aiuti anche ai Paesi d'origine dei lavoratori stranieri.
Paola cresce, le è nata una sorellina, e guarda... Parla perfettamente l'italiano, in casa il francese, forse ricorda ancora il dialetto della sua tribù d'origine... Forse un domani scriverà un libro o sposerà un italiano... Chissà?
C'è ancora tanto da fare e cambiare nel mondo e si può cominciare anche così: bussando alla porta di una sconosciuta e facendo entrare uno sconosciuto.

venerdì 19 marzo 2010

Bilanci

Mio Dio, quanto ho scritto: centinaia di post per placare un desiderio di scrittura che mi sono portata dentro per una vita. L'ho affogato, ho tentato di affogarlo in una vita faticosa fatta di tre figli e un lavoro e... una casa, perché ogni tanto anche quella andava sistemata, anche se alla meno peggio. Ma non è morto, anzi, paradossalmente, acquattato in un angolo come un animale selvatico pronto a balzare sulla preda, si è rinvigorito. E quando ha fatto capolino, prima educatamente e poi, ignorando ogni regola di bon ton, travolgendo come una fiumana inarrestabile quella che fino a quel momento era stata la mia vita, mi ha obbligata a scrivere, imponendomi come mezzo tecnico di espressione, date le mie difficoltà, il computer. E così, io che sul pc sono un disastro sono stata costretta a sciropparmi anche lezioni di computer.
Sono partita con una favola, o forse con alcune filastrocche, molto ingenue, rime che allacciavano in un abbraccio mortale cuori a amori e simili amenità, ma erano i primi passi, incerti come quelli di un lattante. La favola la ritrovai anni dopo su Blogbabel, sì quello stesso sito che mi avrebbe tolto 2000 punti in botto solo esprimendo sulla mia scrittura attuale un giudizio non certo lusinghiero. Ho provato di tutto: post, racconti, raccontini, racconti lunghi, tanto lunghi da indurmi a confezionarli in puntate. Poi l'idea di un romanzo: la storia l'avevo già tutta in testa, ambientata a Trieste, primi anni del Novecento, sulle note dei valzer viennesi resi vorticosi dalla bora. E tutta l'infanzia cominciò a risalire, lenta e inarrestabile insieme alla parlata dialettale, al rosario purpureo che mia nonna sgranava borbottando preghiere in una lingua sconosciuta, mentre le figlie e i figli nascevano e crescevano in quella città che da provincia, piuttosto turbolenta dell'impero asburgico, sarebbe ridiventata italiana, lastricando di morti e trincee il Carso alle sue spalle. Quell'infanzia in una babele di dialetti e lingue diverse cercava uno spazio autonomo, cercava una voce che la raccontasse. Io le diedi la mia. Era nato Confine immaginario. Poi scrissi I Dellapicca, romanzo breve a puntate sul blog. Ogni tre o quattro giorni una nuova puntata inventata sul momento. Di sana pianta. Entusiasmante e con lo sguardo d'oggi importante nella mia evoluzione e esplorazione di ogni modalità narrativa, perché espressione dell'invenzione letteraria che fa sue le emozioni di chi scrive ma slegate dal contesto che le ha motivate. Lo riprenderò in mano per rivederlo perché necessita di un lavoro serio in tal senso, ma rimane per me l'espressione di un passaggio fondamentale per chiunque voglia cimentarsi nella scrittura: il passaggio dal vero,anche se adattato a esigenze fantastiche, al verosimile, il distacco dalla realtà alla ricerca di un espressione totalmente fantastica. Sto lavorando all'editing di "Confine immaginario"...
Se oggi, giorno del mio compleanno, la tentazione di redigere un bilancio si fa sentire, un unico commento mi viene spontaneo: "La vita sorprende. Sempre!"

giovedì 18 marzo 2010

PRECISO CHE NON HO NIENTE A CHE FARE CON ROBERTO FIORE ANCHE SE HO TRAVATO IL MIO NOME NELLA LISTA CHE LO SOSTIENE!

mercoledì 17 marzo 2010

Auguri a una donna che c'è.

Auguri a una donna che c'è, mi verrebbe da dire: con le mie gambe che ogni giorno di più sembrano dimenticare la morbida eleganza del passo, ma poi, in qualche modo, sorprendendomi, ricominciano: uno, due e ancora uno.
Con la mia testa - oh quanto odiata, quanto temuta testa! - che mi ha salvata spesso e dannata sempre. Ieri una ex alunna mi ha detto "Dev'essere comodo essere stupidi, non pensare rende la vita meno dolorosa... " Oh no, mia cara Barbara, l'intelligenza è un dono, anche se, come ben sai, per una donna è una mela avvelenata. Ma la prima spruzzata di veleno è nostra, anche se poi altri veleni, più o meno abilmente dissimulati, rendono quella mela indigesta. Tanta strada dobbiamo ancora percorrere per poter usare la nostra intelligenza in modo corretto: prima di tutto essendone orgogliose, sbandierandola ai quattro venti e non occultandola per dare lustro al primo maschio che ci incanta facendosi passare per il re del pollaio. E noi? Solo galline cieche che ogni tanto colgono il loro chicco? All'interno del pollaio esigiamo pari opportunità e se cogliamo il chicco è perché abbiamo la vista acuta anche se diverso è il nostro sguardo sul mondo. E' l'intelligenza dell'anima che ci è più congeniale. E' l'intelligenza con la quale ricuciamo gli strappi nelle famiglie lacerate (tante, troppe, anche se spesso siamo noi a lacerarle, perché le rivoluzioni non sono giri di valzer...), accogliamo la sofferenza (prima di cercare di dipanarne i nodi) riusciamo a reggere i doppi, tripli ruoli(spesso e incredibilmente, con un sorriso).
E' bello essere donna, anche se è maledettamente difficile, ed è bello poterlo ancora comunicare a mia nipote Martina, a sua madre e sua sorella, alle amiche, le mie preziose amiche... So, con quell'intelligenza del cuore che non sbaglia, che questo variegato (dove si è rintanato il re del pollaio? E la sua/mia schiera di amici?) e caldo mondo che mi circonda mi tiene in piedi più del bastone, sconcertando i medici, che alla valenza terapeutica della scrittura e delle passioni non danno un gran peso.
So che, come le gambe, anche la testa "va a viole" ogni tanto, ma ancora c'è! E so che per abbattere il muro che mi divideva dalla scrittura c'è voluto lo tsunami della malattia.
L'ultima cosa che so è che la vita non ha ancora smesso di sorprendermi e, può sembrare assurdo dopo tante ferite, d'incantarmi.
Grazie a tutti per gli auguri affettuosissssimi che mi stanno arrivando.

venerdì 12 marzo 2010

E noi com' eravamo?

Era bella mia madre e prigioniera: non solo della sua bellezza. La ricordo inappuntabile, le gambe accavallate e il piede inarcato nel sandaletto estivo. Sempre attenta a non sgualcire la gonna, sempre truccata, sempre misurata. Interdetta davanti alla mia voglia di studiare, alla scelta di una facoltà maschile."Cosa te ne farai di questa laurea?" mi chiedeva. In risposta io ridevo o sbuffavo.
Non ci siamo mai capite: troppo diverse eravamo e troppo deluse dalla reciproca diversità. Lei che si era licenziata appena mio padre le aveva chiesto di sposarlo, perché "Lavoravano fuori casa soltanto le donne povere". Me l'aveva detto un giorno, era una mattina piena di sole, piangendo, prigioniera nell'appartamento ordinatissimo, profumato di cera. Era sempre in attesa del marito, mio padre, che le parlava di marxismo e "padroni", e spesso partiva per Roma, finito il lavoro, a discutere i contratti dei postelegrafonici.
La maestra mi puntava il dito addosso e i compagni si voltavano a guardarmi: ero la figlia del comunista. Anche mia nonna e gli zii scuotevano la testa e io andavo a catechismo di nascosto dopo che la maestra, sempre lei - quella basabanchi de democristiana, come la chiamava mio padre - aveva fatto sapere a tutta la classe che non avevo fatto né cresima, né comunione.
E mi dava sempre quattro, e io pensavo di essere stupida. E dentro mi cresceva la rabbia, mentre masticavo il gusto amaro dell'ingiustizia.
Andavamo a vedere Lascia e raddoppia al bar dell'angolo.
Io ero già grandina e - di nuovo - qualcuno con occhi cattivi mi aggrediva verbalmente chiedendomi "Tuo padre cosa dice dei carri armati nelle strade di Budapest?"
Mio padre, pallido, tornava a casa tardissimo e mia madre lo aspettava in piedi, avvolta in una vestagli azzurra. Mi svegliavo sentendoli litigare:"Cambiare il mondo non è un minuetto, è una guerra senza esclusione di colpi... la rivoluzione..."
La rivoluzione l'avrei sempre abbinata a una vestaglia azzurra e alla furia delle loro discussioni.
Lo vidi piangere quando morì sua madre e all'annuncio della morte di Stalin.
Erano altri uomini, altre donne...
E noi, noi, com'eravamo?
E noi, noi, come siamo?

giovedì 11 marzo 2010

Auguri a una donna che non c'è

E'una domanda che, come un messaggio in bottiglia lanciato in mare, ogni tanto borbotto o scrivo sul mio blog, con ormai solo una vaga speranza di ottenere risposta. Dove sei finita Babsi Jones? Dove picchi sui tasti di un pc le tue storie? Cosa scrivi, cosa hai scritto per l'Otto marzo? Hanno tentato di imbrigliare, zittire, soffocare la tua voce... Perché? Tu che sai cos'é l'ingiustizia, tu che della diversità conosci il sapore esaltante e il veleno che nasce dall'invidia di chi è uguale agli altri e a essi legato da un patto di uniforme mediocrità, perché sei scomparsa?
A una figlia femmina dare in dote la genialità è... E' volere troppo? Troppo cosa? Genialità é potere o si traduce in potere? E' spendibile sul mercato, ha una quotazione, è barattabile? Noi donne siamo poco adatte a questi giochi e poco pratiche di potere.
Il potere se non lo sai gestire ti stritola, ti fa a pezzi, ti ingoia. Che Paese è quello in cui arriva prima l'invidia - come un'avanguardia di paracadutisti in guerra - e poi il plauso, ma un sussurro appena, una bava di vento? Per distrarre. Per permettere di colpire a fondo, per sempre e senza possibilità di errore. Fra i tanti quotidiani colpi che questo Paese in cui vivo mi allunga a tradimento c'è anche questo: l'avermi privata del piacere di leggerti e della possibilità di seguire la tua evoluzione artistica e le tue scoperte nell'esplorazione di quella terra senza confini che è la scrittura...
Restano le tue parole, resta il tuo lucido reportage dell'orrore e dall'orrore, resta la voglia di sapere quello che non si può non intuire.
Resta, incrollabile, la speranza di rivederti e/o risentirti, riconoscere prima o poi da qualche parte la tua scrittura, quella modalità narrativa che azzanna e morde e urla, ma sa ritrovare in dolcezza tutto ciò che brucia in furore.
Ciao Babsi e, anche se in ritardo, auguri per la Festa delle Donne...

Egon Shiele

Egon Shiele occhieggia minuto, gli occhi grandi, neri e febbricitanti che fissano dagli ingrandimenti fotografici affissi alle pareti il visitatore. Esplode e, in fretta con la velocità con la quale una meteora solca il cielo luminosa e poi si spegne, compie il suo itinerario artistico All'ombra di Klimt, il maestro a cui s'ispira non soltanto nel tratto pittorico, ma nel bisogno di infrangere le regole di un perbenismo borghese che inquadra e irreggimenta, muove i primi passi. Il tratto iniziale è precisissimo e attento, ma le prime figure femminili già tradiscono una passionalità che il suo corpo minuto non sembra in grado di contenere. E' al rosso che affida il compito di evidenziarla, il rosso che esplode negli abiti, che incatena lo sguardo agli stivaletti dai quali slanciate e impudiche emergono le gambe nervose delle sue modelle, viste di lato, spalancate, di schiena, con i talloni rotondi che tastano il terreno e si allontanano... Da lui? Da un mondo che sta per esplodere nell'orrore della prima guerra mondiale? La femminilità diventa l'anima della sua pittura, la femminilità che aggredisce il visitatore in quella carrellata di donne scomposte che ritraggono un immaginario femminile che spazia dalla madre cieca, esposta in una delle sale, che può spegnere gli occhi sul mondo perché il suo compito è solo quello di prosciugarsi allattando i figli, alle donne che esibisconi attributi femminili che sembrano inglobarle negando loro qualunque valenza che esuli da quella sessuale.
I quadri che non ritraggono figure femminili ritrovano una ricercatezza di maniera che nei colori accesi tenta di comunicare il prorompere delle emozioni e delle contraddizioni alle quali Freud darà una legittimazione accendendo i riflettori su un vissuto nascosto, prepotente, non più strizzabile nei bustini e occultabile sotto le gonne lunghe di cui la prima guerra mondiale farà piazza pulita definitivamente.
L'apoteosi di un percorso artistico che è scoperta di se stesso e delle proprie più intime pulsioni si conclude - nella mostra - su un corpo femminile adagiato e offerto allo sguardo di chi guarda su un lenzuolo stropicciato che incornicia cangiante più che un corpo un potere che quel lenzuolo sembra negare o evidenziare? lasciandoci intuire che cosa significhi per il grande pittore austriaco l’imperscrutabile potere di seduzione dell’eterno femminino.

Milano da bere?

Dieci marzo 2010. Su Milano scende una manciata di fiocchi di neve. Striminziti, a contatto con l'asfalto, si sciolgono in un soffio appena accennato di vapore che si confonde con i gas di scarico dei tubi di scappamento. Il mio treno dovrebbe partire alle 15.20. Il condizionale è d'obbligo. All'interno della stazione centrale viaggiatori raggelati vagano come spettri o siedono rigidi su ciò che resta delle sale d'attesa passeggeri, rigorosamente chiuse. Forse in ristrutturazione? L'aria freddissima s'insinua sotto le volte mussoliniane facendo oscillare i tendoni di plastica macchiati di calce. Gente in fila batte i piedi e si soffia sulle mani davanti all'unico bar di quattro metri per tre che promette nell'insegna intermittente un po' di calore. Non c'è una sola seggiola, questa è una città che non concede soste, si beve in fretta, quello davanti che paga, quello dietro che spinge. Una persona come me con problemi a stare in piedi, soprattutto al gelo e immobile, a causa di una malattia neurologica se ne stia a casa. Cerco di tradurre in parole di senso compiuto quel gracidare che erutta dagli autoparlanti comunicando ritardi, treni soppressi e cambi di binari. Intanto salgo e scendo su scale mobili che percorrono in lungo e in largo la stazione seguendo indicazioni che dovrebbero portare a... A? Ai treni, decine di indicazioni portano ai treni? Ma se a sinistra c'è la città, a destra cosa diavolo ci potrebbe essere se non i treni? Cerco disperatatamente un posto dove sedermi a bere qualcosa di caldo. Dietro a un vetro, al coperto, qualcuno è seduto. Arrancando esausta mi avvicino. Entro, sottraendomi alla sferzata d'aria fredda che mi ha letteralmente gelata. Sono seduti: sì, per terra. La spruzzata di neve ha intanto mandato in tilt le partenze dei treni. Ripercorro scale mobili, che come moderni gironi dell'inferno dantesco lastricati d'acciaio inargentano la stazione, e mi infilo tra la folla che staziona sotto la tabella luminosa che dà le indicazioni sulle partenze.
Mancano cinque minuti alla partenza del mio treno che risulta indicato ma senza il riferimento al binario. Che fare? Forse partirà, uno tra i pochi, dal binario indicato nell'orario generale? Ne intravvedo uno che appare e scompare tra schiene e cappelli. Faticosamente lo raggiungo e tento d'infilarmi. Nonostante gli spintoni rimango in piedi, sostenuta dalla gente che mi circonda, anche se provo la spiacevole sensazione del pesce in barile Dovrebbe partire dal binario 18. Guardo l'orologio: mancano due minuti alla partenza. Riesco a districarmi, ma con un movimento brusco e, quando mi ritrovo sotto al tabellone delle partenze una fitta alla schiena mi blocca. Il treno è in partenza, il binario è il numero 18.
Io ho un dolore alla schiena che mi attanaglia. Forse è il freddo che mi impedisce di svenire - penso, mentre mi sento Lara de "Il dottor Zigavo" e salgo su quel maledetto treno che sembra una tradotta di soldati mandati a morire in Russia.
Mi lascio alle spalle la Milano da bere con un solo desiderio: quello di vomitarla!

domenica 7 marzo 2010

Diverse, non inferiori

Dove sono le donne? Sono quelle quattro ossa in croce alle quali gli stilisti appendono abiti pazzeschi? Quasi fossero appendini? O sono le scatenate, folli animatrici delle discoteche, che buttano giù pasticche multicolori per colorare d'azzurro un mondo in bianco e nero?
E guardano con occhi diversi, perché sono diverse.
Sono le donne in carriera, quelle che posticipano la maternità a oltranza e quando si decidono sono adatte più a fare le nonne che le madri? Sono le madri lavoratrici,quelle che si alzano alle quattro del mattino come un bergamino emiliano?
E guardano con occhi diversi, perché sono diverse.
Sono giovani, vecchie. Veline o intellettuali. Rosse, castane, nere o biondissime, apoteosi di rotondità disegnate con il compasso. Su tacchi da dodici centimetri, scalze, in mocassini o scarpe da ginnastica camminano lungo strade e viottoli, costeggiando deserti alla ricerca di un pozzo, inerpicandosi su mulattiere.
Guardano con occhi diversi, perché sono diverse.
Partoriscono e lavorano, riempiono la lavatrice e stendono calzini, fanno la torta per il compleanno e condiscono la pasta con il sugo. Amano e odiano, progettano, ridono e piangono.
Portano sulle spalle prima che nel ventre il futuro.
Portano sulla schiena quel dolore, quella fatica in più che è la fatica di essere donne.
E guardano con occhi diversi, perché sono diverse.
Diverse?
Diverse sì!
Non inferiori.

sabato 6 marzo 2010

La legge è mia e la leggo a modo mio.

Le regole nel nostro Paese non valgono più per tutti e chi sbaglia non paga per l'errore commesso. No, da oggi, ci si inventa una più o meno fantasiosa interpretazione della normativa che si è impunemente omesso di rispettare, dando a questa interpretazione - vogliamo badare alla sostanza e non alla forma? - valenza normativa.
E Bersani, il buon Bersani che fa? Salta sulla sedia? Indice uno sciopero generale?
Non sembra stupito, nemmeno scandalizzato.
Lui.
Io, si!

martedì 2 marzo 2010

Trasparente come una donna

Otto marzo, festa della donna! - pensò e una piega amara le curvò le labbra.
I panni che stendeva sul terrazzo sventolavano al sole come bandiere e lei li fissava con le mollette, lanciando ogni tanto un'occhiata sulla via sottostante dove il lungo serpentone delle auto luccicava al sole come un orrendo bruco meccanico.
Qualcuna nemmeno si muove, tanto domani è il nove - e di nuovo ci fu quello stiramento di labbra che di un sorriso aveva proprio poco.
Squillò il telefono e lei rientrò, ma ora l'apparecchio la fissava muto e quando sollevò la cornetta, le rispose solo quel tu tu senza senso che caratterizza una linea libera. Sulla casa il disordine abituale stendeva il suo velo o la sua coltre: tute abbandonate dai figli sulle poltrone, piatti unti della cena nel lavello, involucri di merendine accartocciati, libri, matite, pezzi di puzzle sparsi equamente intorno. Si chinò a raccattare qualcosa, la schiena che le doleva.
E' umiliante servire se non è un gesto reciproco - pensò, lo sguardo che si faceva smorto, imbruttendola.
Passò, l'aspirapolvere in mano, davanti a uno specchio: ancora in pigiama, i calzettoni che spuntavano dalle ciabatte, i capelli di un colore indefinito fermati con un elastico e lo sguardo: spento, morto, occhio da trota e neanche fresca.
Quando si tocca il fondo?
Appoggiò l'aspirapolvere in un angolo, prese una borsone, infilò dentro un po' di biancheria, lo spazzolino da denti, un paio di jeans, due magliette e... serviva altro?
Quando si fugge e meglio essere leggeri - pensò e negli occhi chiari le brillò un lampo d'ironia.
Si avvicinò alla porta d'ingresso, abbassò la maniglia e si rinchiuse alle spalle la porta. Silenziosa, senza voltarsi indietro. Gli occhi le brillavano, azzurri come quel mare che stava per raggiungere.
Bella donna - pensò lo sconosciuto mentre lei gli faceva un segno con la mano. Spavalda.
Poi la folla della grande città l'ingoiò.

"Stiamo cercando una donna ancora giovane, capelli biondo spento, altezza e corporatura normali, scomparsa da casa due giorni fa. Non aveva problemi. Era serena, legatissima ai figli... al marito " gracchiava il televisore. "Sembra essere scomparsa nel nulla. In casa non ci sono segni di colluttazione..."
La sua anima era un cimitero di croci - pensò, spegnendo la radio e sorseggiando il caffè. Dalla finestra spalancata entrava il mormorio del mare che aggrediva e accarezzava, instancabile, la spiaggia.