Quante volte, io abito in Emilia Romagna, dietro la curva di
un sentiero di campagna, su un muro scrostato, da una lapide semisommersa dai
rovi, mi sono venuti incontro, incollandomi a quelle due date – nascita e morte
– i partigiani? Ogni volta mi sono
fermata, ogni volta mi fermerò a leggere quei nomi: Desmo, Decimo, Primo,
Adenore… Nomi di contadini che hanno
poco tempo e troppi figli, e rifiutano i nomi dei santi perché il prete lo
salutano, pure lo rispettano, ma la religione per loro non è l’umidore polveroso
e stantio della sagrestia e della chiesa: è il Dio dei campi di grano, biondi
di sole, è il Signore delle albe intirizzite e dei tramonti che incendiano i
boschi dell’Appennino, è il Cristo che bestemmiano quando piove troppo o troppo
poco…
In Emilia li trovi dappertutto, caduti come una grandinata
sotto un temporale estivo: morti a
venti, trent’anni, ma anche a diciassette, diciotto…
A volte accanto al nome e a quelle due date, sempre troppo
ravvicinate, una foto piccola, sbiadita.
Quasi sempre sorridono. Quasi sempre c’è un fiore. Di campo.
Penso alle donne che li amarono e li piansero, penso alla loro
paura davanti ai fucili. Avranno tremato, gridato, pianto, bestemmiato,
invocato un nome di donna? Erano solo uomini, spesso poco più che ragazzi, ma
decisero: un futuro libero o… la morte.
Davanti a quelle lapidi mi sono sempre sentita una pulce.