domenica 3 luglio 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°18)

Desmo aveva fatto balenare davanti agli occhi di Gualtiero un mondo nuovo, diverso. Fatto di uomini non più solo chini sulla terra, sotto il sole, a far crescere il grano, grandine  e siccità permettendo, soggetti al padre a vita, legati a quella catena di obbedienza a tutto e tutti... miseria, per prima. Fatica tanta, continua, costante, ma scarso guadagno e nessuna considerazione. 'Contadino, scarpe grosse e cervello fino', ma per le scarpe i soldi non c'erano mai e il cervello fino era solo  l'atteggiamento di estrema diffidenza di chi troppe volte era stato imbrogliato. E ora che alla grandine, alla siccità, alla mastite delle vacche, alla furia del grande fiume, che esondava sistematicamente per ricordare a tutti che sulla pianura lui era il re, capriccioso come ogni re che si rispetti, si aggiungeva la rivolta dei più poveri, dei derelitti, dei miserabili  (l'ultimo anello della catena sul quale fino ad allora si era potuto contare)... E no! Era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso: non c'era spazio per altre incertezze, per altre ansie. Quelle spighe, costate sudore, passate indenni attraverso i capricci non gestibili di una natura matrigna, e quelle vacche, con quel bendiddio di latte pronto per essere munto nelle mammelle rosate e ciondolanti, non potevano finire nel nulla per una ribellione, un rifiuto dei braccianti a fare ciò che fino a quel momento avevano elemosinato, con il cappello in mano e un 'grazie siur parun' sussurrato a mezza voce. Non bastavano più il sudore e i lavoratori pagati a giornata per racccogliere il frutto del proprio lavoro? Ci voleva anche il sangue? E allora che sangue fosse!
Così, con la foga che gli era abituale, trovando le parole che a Gualtiero facevano difetto ma sull'onda, apparentemente, delle stesse emozioni, Desmo aveva convinto lui, Gualtiero, ad aderire a quei principi che erano alla base del fascismo e s'incarnavano nella figura del suo capo, quel Mussolini che non soltanto loro, ma tutto (be', la maggior parte) del popolo italiano, idolatrava. Il fascismo era diventato per l'amico la grande speranza su cui contare, il sogno da realizzare, la giustificazione alla sua violenza e alla sua prepotenza che, da difetti e limiti, erano diventate pregi, virtù delle quali andare fieri.
Nella sua divisa, alto e biondo, la camicia nera che gli dava un'appartenenza e un potere che mai avrebbe pensato di poter avere, Desmo si era sentito un guerriero legittimato a combattere per una giusta causa.
Lui, Gualtiero, l'aveva delegato a pensare anche per lui, a trovare il modo giusto per  preservare i suoi tesori, quella casa sul fiume con il suo fazzoletto di terra e Marilena, che aveva scacciato finalmente la solitudine dalla sua vita.
Ma ora, ora che gli anni erano passati e che Desmo non c'era più - e rabbia e dolore s'intrecciavano furibondi al solo pensarlo, ricordando com'era avvenuto - aveva ripreso, era stato costretto, a riprendere a ragionare di nuovo con la sua testa: attività che non gli era congeniale, che lo turbava e lo affaticava più di una giornata passata in fabbrica a sfornare viti e bulloni.
Ma troppe cose stavano cambiando intorno a lui; non soltanto in casa con la moglie, anche in fabbrica e perfino in campagna dove, quando andava per le feste a trovare la famiglia, gli sembrava che anche i tortellini avessero un altro sapore... Ma, forse, era soltanto lui che aveva la bocca amara e aveva perso il gusto dei cibi genuini.
(continua... )