lunedì 4 gennaio 2010

Racconto a puntate (La vita cambia)

Non seppe bene nemmeno lei come fosse potuto accadere, ma Ludovica rimase di nuovo incinta. A Natale nacque una bambina alla quale venne dato il nome di Alessandra.
Quella creatura la riconciliò con la vita, ma mise definitivamente in crisi il rapporto con il marito, uomo d’azione che amava viaggiare, andare a cavallo, avere gente per casa e che sembrava a suo agio dappertutto fuorché con lei e i bambini.
Ludovica era una donna curiosa che cercava risposte alle sue domande soprattutto nei libri ma quando si ritrovavano soli, messi a nanna i bambini, lui si addormentava, a volte mentre lei stava parlando…
La sensazione di vuoto affettivo con cui aveva convissuto nella famiglia d’origine era stata colmata soltanto dalla nascita dei figli che l’avevano riconciliata con il suo corpo placando le dolorose contraddizioni con cui viveva la sua femminilità. I bambini le avevano dato un’ identità, la prima che avesse avuto, l’identità femminile per antonomasia: quella materna.
E così il rifugio si era fatto trappola.
Fu per questo che sbavò e vomitò per nove lunghi mesi? Fu per questo che dovettero snidare Alessandra dal suo ventre, strappargliela a viva forza in un parto che fu lotta cruenta di contraddizioni esplose nell’anima prima che sulla pelle?
Ludovica fu una madre sicura e particolarmente tenera con la terza figlia. Il marito che all’interno della famiglia era ormai poco più che una figura fantasmatica, cominciò invece a manifestare nei confronti della moglie un’intolleranza al limite del fastidio. Non faceva più nemmeno lo sforzo di fingere per lei il ben che minimo interesse.
Aveva comperato un cavallo che teneva a pensione da un contadino e, pur di non stare a casa, passava le domeniche cavalcando. Fu in una di queste solitarie cavalcate che maturò in lui l’idea di andarsene in campagna a dirigere un’azienda agricola?
Così, facendo una scelta manicomiale, acquistarono un podere con stalla e mucche per la produzione di parmigiano reggiano e si trasferirono in campagna.
Quei mesi passati in campagna le tornavano spesso alla memoria. Il marito si alzava alle quattro del mattino per mungere le bestie nella stalla. Lei si svegliava alle sei, accendeva le stufe che immediatamente affumicavano tutte le stanze, poi preparava la colazione. La casa era gelida, umida, fumosa. A vista d’occhio all’intorno campi di trifoglio e vacche, soltanto vacche da tutte le parti.
Lucrezia e Giuseppe, che non avevano condiviso la scelta dei genitori, passavano le giornate sui letti delle loro stanze leggiucchiando giornaletti. Invece Alessandra si lasciava scivolare lungo le scale che dalla porta d’ingresso portavano all’aperto per arrivare fino alla stalla dove lavorava il padre. Soltanto lei sembrava felice, perché quella casa isolata sulla collina le concedeva spazi di libertà sconosciuti e fino a quel momento inimmaginabili.
Ludica girava con la figlia minore per le colline circostanti raccogliendo frutta selvatica e grandi mazzi di fiori di campo. Il cane le seguiva, apparendo e scomparendo da dietro ai cespugli o tra gli alberi del bosco. Quando attraversava quella manciata di case sparpagliate sulla collina, contadine un po’ inquartate negli anni, il grembiule di grisaglia annodato sui fianchi, la salutavano cerimoniose mentre i loro uomini, sulla porta delle stalle a bestemmiare contro le vacche, il tempo e il governo, si toglievano il berretto, tacendo impacciati. Dopo un po’, nel suo girovagare, avevano cominciato a invitarla a bere un caffè oppure un bicchierino di liquore, fatto con "i bargnulen" che chiazzavano di viola i cespugli spinosi lungo la strada. Aveva fatto amicizia con quelle donne semplici, piegate da anni di lavoro duro nei campi e nelle stalle, quelle donne che la guardavano stupite scuotendo la testa intimidite dai suoi modi cittadini, dalla sua gentilezza e da quella lingua italiana che solamente a tratti, sgrammaticata, affiorava nei loro discorsi. “Ma chi glielo ha fatto fare? Non è adatta per questa vita: bisogna esserci nate, in campagna. Non ci si improvvisa contadini…” le dicevano in dialetto, quando chiedeva aiuto perché un cane selvatico le aveva ucciso una gallina oppure i parassiti avevano divorato l’insalata del suo orto.
Come lei anche Giovanni, le mani gonfie, arrossate e piene di vesciche, affondava in quella realtà contadina che aveva conosciuto da padrone e non da servo, nei suoi anni giovanili. Invitava i vicini, di cui aveva assoluto bisogno, un giorno sì e l’altro pure e Ludovica spignattava come una pazza in quella cucina enorme che di sera, quando gli ospiti se n’erano andati, sembrava un bivacco di soldati.
C’erano stati anche dei momenti belli: un pomeriggio nel bosco, con Alessandra che le zampettava accanto nella luce calda di un autunno precoce, aveva raccolto castagne e funghi che le vicine le avevano insegnato a distinguere da quelli non mangerecci. Al ritorno verso casa avevano trovato un albero di noci e la piccola aveva riso felice mentre lei scuotendo i rami la bombardava, porgendole poi il cestino per farsi aiutare a raccogliere i frutti che le grandinavano tutto intorno. A casa al ritorno, acceso il fuoco, aveva cucinato i funghi e la polenta e, tritandovi dentro le noci, aveva fatto anche le crepes. Poi, notando la disponibilità del marito, aveva deciso di parlargli. (continua...)