giovedì 9 dicembre 2010

Doppio binario (Racconto a puntate: ultima puntata)

E così lei, algida donna del Nord, aveva conosciuto la passione; quella che fa stirare le labbra ai benpensanti, facendo scuotere loro la testa e mormorare "Ma cosa  troverà in quella?... ". La vita aveva ripreso a scorrere nelle sue vene intorpidite. Aveva ricominciato a sorridere. A ridere.
Una luce, insistente, la seguiva nonostante i suoi tentativi di seminarla, di ignorarla strizzando le palpebre.Cosa volevano ancora da lei? - pensò mentre qualcuno accanto a lei borbottava qualcosa. Doveva muoversi, farsi bella, scendere a controllare che mancasse nel garage comune la macchina della moglie del musicista... Aveva comperato un regalo per lui, per il loro primo anniversario. Lui le aveva infilato un biglietto nella cassetta della posta, invitandola a cena fuori... Via libera: la macchina non c'era! L'abito corto le spumeggiava intorno alle gambe snelle che i sandaletti dal tacco alto rendevano ancora più lunghe.
Eccolo! Accostò la macchina allungandosi ad aprire la portiera dalla sua parte. Lei salì; il cielo sopra la sua testa era pieno di stelle mentre la macchina ingoiava la strada aumentando la velocità. Perché correva in quel modo? Non fece in tempo a chiederglielo: luci intermittenti, rossastre, oscurarono il bagliore delle stelle mentre accanto a lei qualcuno gridava, si lamentava... Poi il suono acuto, lacerante, di una sirena le trapassò il cranio, mentre il dolore la squassava, la ingoiava, l'attanagliava. Ingordo la fagocitava.
Aprì gli occhi. Anche il camice del medico profumava di Stira e Ammira.
Suo figlio aveva gli occhi gonfi: la barba, non rasata da giorni, gli conferiva un'aria stanca da uomo adulto.
Tentò di parlare, ma aveva le labbra secche e spaccate. Sua madre le fece cenno di tacere.
"E' mancato un soffio... " le sussurrò il compagno e il marito fece un cenno d'assenso.
La domanda che affiorava nei suoi occhi esigeva una risposta. Il marito le sussurrò: "E' morto!".
Lei chiuse gli occhi, raggiunta. Riacciuffata, si arrese alla vita.

domenica 28 novembre 2010

Sembra volo di farfalle...

Alzo gli occhi dal pc
e me la ritrovo qui

Sembra un volo di farfalle
dalle ali imbrillantate
e di ghiaccio ricamate

Sembra riso
che festeggi
due novelli
freschi sposi
sul sagrato di una chiesa

Sembra zucchero filato
a una festa di paese

Scende bianca
scende lieve

Sembra panna
ma è neve
e con lei l'inverno...
danza.

sabato 27 novembre 2010

Doppio binario (Racconto a puntate: puntata n°7)

Eh sì!, per la prima volta nella sua vita aveva provato a essere dall'altra parte della barricata, in quella zona d'ombra di cui le donne - quelle serie - non parlavano, se non con disprezzo e... rabbia. Rabbia per quelle squinziette, quelle rovinamatrimoni, quelle pantere che dava sollievo immaginare tutte curve e poco cervello, quelle donne che accendevano i loro stanchi partner di una vitalità nuova, inimmaginabile, stimolandone la fantasia erotica e la capacità, non meno fantasiosa, necessaria per organizzare una doppia vita, fatta di bugie a go-go, impegni di lavoro fasulli da inventare, doppio telefonino, maglioni di cachemire rosso rubino di cui giustificare l'insolita presenza nell'armadio, abitualmente immerso nella ripetitività tranquillizzante del grigio e del marrone /beige. Ora era lei quella presenza inquietante, erano i suoi quegli umori che rimanevano sulla pelle, tenaci e ineliminabili, quasi l'amore, quell'amore scatenato, avesse un profumo capace di resistere a qualsiasi doccia o bagnoschiuma... ora sarebbe stata lei, l'altra, quella che avrebbe annullato il tepore, la sicurezza delle abitudini, il fremito appena accennato di rasssicuranti amplessi coniugali.
Era stato esaltante essere l'oggetto della gelosia, non la vittima di quel sentimento doloroso, avvilente, acidulo e corrosivo come l'acido muriatico usato per scrostare il water; essere quella che scalzava, non quella che,  scalzata, veniva messa in disparte; essere la donna alla quale si regalava un profumo o un completino sexi o le autoreggenti, non la pentola a pressione o i guanti abbinati alla sciarpa.
Eh sì, il musicista aveva una moglie: molto impegnata, molto efficiente, bella, intelligente. Una donna che spesso era assente per motivi di lavoro, una donna che mai avrebbe pensato di poter essere tradita. Ma quale donna lo pensa?

(continua... )

Doppio binario (Racconto a puntate: puntata n°6)

Dopo aver lanciato un'occhiata verificando che non ci fosse nessuno sul pianerottolo o lungo le scale,  lei aveva raggiunto in tutta fretta la porta del suo appartamento dove l'aveva accolta la sua immagine, riflessa nello specchio dell'ingresso - scapigliata, le scarpe in mano, quelle labbra arrossate e lo sguardo chiaro insolitamente allegro - che le era apparsa improvvisamente estranea.
Eccitata e insonne si era affacciata alla finestra, contemplando la città che si andava svelando alla luce chiara dell'alba. Quella selva di case, dove le finestre sembravano buchi lasciati da sventagliate di proiettili, non le aveva comunicato l'abituale sensazione di solitudine; piuttosto le era sembrato che la città le strizzasse, complice, un occhio, proteggendola con il buio delle strade e il silenzio mai privo di suoni della metropoli. C'erano, come  sempre, porte che scricchiolavano, sbattevano e imprecazioni che seguivano, quasi a sottolineare la contemporanea presenza, nascosta dalla notte, di una vita sotterranea, vagamente peccaminosa, impudica e pericolosa.
Era cominciata così  quella storia, mai raccontata a nessuno, tenuta segreta non per vergogna, ma per la paura di vederla svanire come nebbia al sole, quasi si fosse trattato di un sogno, ritenuto per un istante nel passaggio allo stato di coscienza del risveglio già parte della realtà.
Era cambiata, quasi una luce le si fosse accesa dentro a illuminarne lo sguardo. Il suo corpo snello si era un po' ammorbidito, il  passo si era fatto più sicuro, le spalle si erano raddrizzate dando al suo portamento, già timido e dimesso, una sicurezza nuova.
Tutti, anche in famiglia, l'avevano notato. 
Al compagno, sicurissimo della sua fedeltà, aveva raccontato di improbabili disturbi ginecologici e lui, con pietose bugie, alle quali lei fingeva di credere, si era già interessato alla sua migliore amica che, quando parlava di lui, arrossiva e sbuffava, incolpando del fatto altrettanto improbabili scalmane da menopausa. 
Aveva scoperto il fascino potente della trasgressione e l'eccitazione dell'ambiguità...
(continua... )

sabato 20 novembre 2010

Come foglia, come pianto

Sull'autunno che la nebbia
già sbiadisce 
gronda pioggia, 
come acqua,
come pianto 

E sul ramo del ciliegio,
una foglia, 
una soltanto,
lenta ciondola 
e resiste
Chissà come,
chissà quanto?
 
Perché averti amato?
Tanto.
Non sapevo 
che l'amore,
come foglia 
come pianto,
dura un attimo
soltanto? 

Doppio binario (Racconto a puntate: puntata n°5)

Larghi fiocchi cadevano lenti rendendo invisibile il paesaggio e difficoltoso il passo, ma non i pensieri. Sua suocera non le aveva risposto, nemmeno una parola... mentre lei cercavadi giustificarsi per una scelta fatta tanto tempo prima, quando ancora la gelosia, per quel suo senso del possesso che nasceva dal bisogno di essere amata, e che in lei era stato- o ancora era? - voragine senza fondo, pozzo scuro al quale non aveva mai osato avvicinarsi, fiammeggiava come una torcia accesa nella notte. 
La stanchezza ora l'invadeva, muscolo dopo muscolo, confondendole i pensieri, mentre il suo passo si faceva pesante e la neve si accendeva d'oro, diventando luce gialla e calda che la faceva scivolare nel sonno Odiava i sogni - colori troppo violenti, situazioni angosciose - tutto un mondo che solo la razionalità imprigionava, murandolo vivo come un galeotto imprigionato in una fortezza inespugnabile, e per sempre.
"Allora, cosa ha deciso di fare?" la voce si sforzava di essere gentile, ma era seccata e troppo alta. Senza contare che le imponeva di prendere una decisione. Su cosa poi? Socchiuse gli occhi e le sembrò d'incrociare uno sguardo che la fissava, freddo.
"Allora mamma, anche il babbo... " Ci si metteva pure lui, il babbo come l'aveva chiamato suo figlio, a dettare legge. L'aveva appena spiegato che il rancore era ancora lì, vivo e vegeto, a darle una sensazione di blocco allo stomaco. E se lui, il figlio, aveva il diritto di mollarla in mezzo alla neve per scaldarsi tra le braccia della proprietaria di un bar golosa di ragazzetti, lei aveva il diritto di fare le sue  scelte senza avere tra le palle l'ex marito.
"Sarebbe la scelta migliore!"
Ma guarda - pensò - è arrivato anche lui, mentre riconosceva la sua voce e il profumo del suo dopobarba.
Era una vera e propria riunione di famiglia, peccato che considerandola importante quanto il due di coppe non le avessero detto nulla, né il marito, né il figlio, né... Be', questa era la più bella: c'era anche il suo compagno.
Da chi era stato invitato? E da quando lui e il marito si frequentavano? Eh, già, ormai andava di moda la famiglia  allargata: tutti a far finta di essere superiori, immuni da rancori, ripicche, tutti insieme appassionatamente a mimare di volersi bene, di essere preoccupati per le paturnie della ex moglie, ex compagna, ex, ex...
Se vi aspettate che vi dia il gusto di rispondere vi sbagliate di grosso - pensò, trincerandosi dietro alle palpebre chiuse.
Sentii volteggiare quella parola, noiosa come una zanzara: finge! Di non capire, di non sentire... finge, finge.
Finge cosa?. E' strano come chi dovrebbe conoscerci meglio, non ci ascolti, non ci osservi, arroccato nella presunzione di sapere tutto di noi, di dare per scontato un modi di essere dell'altro da sé immune da cambiamenti. Invece la vita non ci scorre addosso senza lasciare traccia, la vita ci cambia, ci modifica. Non le interessava  più la loro opinione: aveva voglia di vivere, di fare qualcosa per sé, non di dare agli altri, ma di prendere, afferrare per la coda la vita... e scoprirla. 
Aveva conosciuto quell'uomo, banalmente, quel nuovo condomino, arrivato un pomeriggio d'inverno, portandosi dietro un mare di scatoloni e quel pianoforte che non passava da nessuna parte, che aveva fatto imprecare e bestemmiare gli scaricatori, attirandola curiosa sulla porta di casa.
Se lo era trovato davanti, alto e bruno, gli occhi scuri  e i capelli ricci da ragazzo, appena ingrigiti sulle tempie.
Le aveva sorriso porgendole la mano e dicendole: "Non mi dica che odia la musica! Ho appena affittato l'appartamento accanto al suo" e lei aveva riso a sua volta, intimidita da quello sguardo che scivolava sull'interlocutore caldo come una carezza.
Alla sera, aveva suonato alla sua porta, tenendo in bilico su un vassoio una bottiglia di vino e un piatto di spaghetti.
"Ha già mangiato?" e il sorriso già contagiava gli occhi che la fissavano ammirati, indugiando sulle sue labbra, come se seguirne la geometria fosse la cosa più importante da fare in quel momento.
"No!"
"Allora, mi faccia compagnia, ma il vino lo offro io, sempre che riesca a trovarlo... " ed era partito in perlustrazione, aprendo scatoloni mentre lei lo seguiva aprendosi un varco tra scatoloni e mobili accatastati alla meno peggio.
Ricordava tutto di quella serata: il gusto del vino, la musica che lui le aveva suonato al pianoforte, le lunghe mani sottili e forti che scivolavano sui tasti e... , dopo, sulla sua pelle, con la stessa passione e sicurezza mentre la luce della candela - non aveva ancora la luce elettrica - si spegneva fumigando e la notte invadeva la stanza.
(continua... )

sabato 13 novembre 2010

Perché tanta meraviglia, Silvio?

Perché tanta meraviglia, Silvio? Hai trasformato la politica in spettacolo, in show televisivo, ponendoti al centro della scena - tu, inguaribile  istrione,- e recitando la tua parte, inorgoglito dagli applausi sempre più calorosi,  standing ovation inclusa? E allora? Il tuo pubblico si è stancato, forse perché il tuo spettacolo si è fatto ripetitivo: sempre le solite donnine, tutte curve e poco cervello, sempre la stessa menata, sempre uguali anche i sorrisi mentre gli spettatori all'uscita non trovavano più il cappello, o l'ombrello oppure i guanti, e, alla fine, nemmeno il cappotto e, tornando a casa, qualcuno si è ritrovato il soggiorno allagato e - come consolazione - solo le tue promesse e, di reale, una bottiglia d'acqua minerale e una vanga. Per cominciare a spalare il fango, anche dal laboratorio tirato su a fatica in anni di lavoro... "Come in guerra... " ha sussurrato tra i denti una vecchietta intervistata in TV, "come in guerra" mentre tu, simpatica canaglia, aggiungevi alla tua collezione di case l'ultima: la reggia di Antigua, costruita lontano dal Belpaese, poiché qui tutto rovina e i paesi ruscellano a valle dopo due giorni di pioggia, insieme alla terra resa instabile, ballerina, dal dissesto idrogeologico. E così qualcuno ha cambiato canale e magari ha scoperto un comico più bravo - uno che ha recitato gratuitamente - prendendoti per i fondelli, facendoti apparire per quello che sei sempre stato: un guitto. Un guitto! Sì, ma della politica che, di allegro, non ha mai avuto tanto e che - diciamocelo una volta per tutte - dovrebbe essere una cosa seria.
Si può sempre cambiare canale, Silvio, e se dovessi apparire a reti unificate, basterebbe un clic per spegnere il televisore. E' la politica via video, quella dell'immagine, quella "usa e getta", quella che tanto ha contribuito al tuo successo... Non ridi più? Il mugugno non dona in TV, te lo sei scordato? Uno come te?
Mi meravigli, Silvio!

venerdì 12 novembre 2010

Doppio binario (Racconto a puntate: puntata n°4)


Si voltò e fissò quel volto rotondo e largo di contadina.
"Quanti anni,  Angela... ".
Le sorrise interrogativa.
"Maria, la nuora di Peppino... "
Fece un falso cenno di assenso chiedendole: "Qui non abita più nessuno?"
"Dopo la morte del marito è andata a vivere in città: dal figlio. Viene ogni tanto. Mette due fiori al cimitero... "
"E' quello che farò anch'io" tagliò corto sorridendo, mentre già s'incamminava lungo la strada che svoltava poco lontano per inerpicarsi a spirale lungo i fianchi della collina fino a raggiungere il cimitero sul cocuzzolo. La seguirono alcune parole che il vento raccolse sparpagliandole sui prati.
Ripercorse quella strada come tante volte aveva fatto: i figli bambini che le saltellavano accanto rumorosi contendendosi la sua mano e litigando tra loro. Il sole alto nel cielo scioglieva la neve che cadeva dai rami in uno sfarfallio acquoso che non la intristiva. Varcò il cancello: la tomba della famiglia s'imponeva aggressiva e massiccia sulle piccole lapidi che la circondavano, quasi si trattasse di uno stuolo ossequioso di soldati che circondasserero un condottiero a cavallo.
Fu in quel momento che la vide. Si stagliava netta ritagliandosi uno spazio nel biancore luccicante del paesaggio, l'abito nero che le ricadeva sul corpo snello confondendosi con la massa scura, lucida, dei capelli, la veletta che le oscurava lo sguardo. Si squadrarono per un lungo istante, prendendosi le misure. Diffidenti.
"Angela: non pensavo che ti avrei rivista" le disse sua suocera.
"La vita ci sorprende. Sempre!" le rispose avvicinandosi. Si meravigliò che portasse quel cappello eccessivamente elegante, poco adatto al luogo e alla stagione, come l'abito e le scarpe dal tacco alto di camoscio nero.
"Non sei cambiata" aggiunse, con una certa invidia, notando che il volto, dal profilo altero, era ancora bello, incredibilmente bello per la sua età, mentre il bisogno di giustificarsi davanti a lei la induceva a dirle "So che non hai approvato la mia decisione, ma... "
La donna la guardava, in attesa. O era lei che scambiava per attesa ciò che era soltanto una patina di cortese indifferenza?
Incominciò a parlare, la voce che nel silenzio del luogo si era fatta un bisbiglio quasi incomprensible, mentre lei tentava di dare a quelle parole che uscivano a stento dalle sue labbra una pienezza che non avevano. Perché non riusciva ad articolare le parole, né a staccarle l'una dall'altra? Erano, come un torrente in piena, l'espressione di un'angoscia ormai incontenibile che tracimava invadendo il silenzio, rimbalzando sulle lapidi e sul viso della donna che, davanti a lei, la osservava fredda, distante, l'espressione immobile, come quella dei volti che le lapidi incorniciavano nel gelo del marmo.
Il rancore, mai superato del tutto, la soffocava e il silenzio dell'altra, lungi dal calmarla, aumentava la sua rabbia mentre le accuse rivolte al marito rimbalzavano su quel nome, il nome della rivale, che le sue labbra nominavano torcendosi.
"Be', dimmi qualcosa, rispondimi!" esclamò alla fine, sempre con quella voce soffocata, innaturale, monotona che non le apparteneva. La risposta fu un enigmatico sorriso, seguito da un gesto fatto la mano: quasi un gesto d'addio che tale si rivelò quando, distratta da un frullo d'ali, dopo aver seguito il volo di un uccello, lei riabbassò lo sguardo notando, stupita, che davanti a lei non c'era nessuno e l'unico rumore che si udiva era il cigolio sommesso che proveniva dalla porta socchiusa che dava accesso alla tomba di famiglia. Una sensazione di paura la morse allo stomaco e la fretta, quella fretta che per pochi minuti le aveva concesso una tregua, la spinse di nuovo a mettersi in marcia... Ad andare e, come un animale braccato, a correre, per sottrarsi a qualcosa, a qualcuno. Pochi secondi le bastarono per raggiungere il cancello e uscire. 
Aveva ripreso a nevicare.
(continua... )

lunedì 8 novembre 2010

Mio caro Presidente...

Mio caro Presidente,
non ha ancora capito che il suo tempo è scaduto? Dai tetti delle fabbriche, dall'alto delle gru, dalle strade che sempre più spesso si colmano di gente, arriva un urlo, un frastuono che presto sarà boato. Non li sente, Presidente, non li sente, i ragazzi che hanno fame di lavoro, gli immigrati che reclamano il diritto ad esistere, ad essere cittadini come gli altri, non le sente le ghignate che arrivano dall'estero, i risolini di scherno che la seguono, la circondano, le voci false dei servi che ancora la adulano... ? E' sordo, Presidente? E' cieco? La sta aggirando, e superando, la Storia che corre veloce, dove diretta non ci è dato sapere, ma certamente in un futuro che lei non vedrà perché è vecchio, è sfatto. E' la vita, Presidente, con le sue regole, e non c'è carta di credito che possa cambiarle.
Si guardi allo specchio nella luce livida, implacabile, del giorno che nasce e capirà di essere un uomo finito. Si tolga il cerone, si sfili quelle assurde scarpe con il tacco - non è una ballerina, è un nonno - smetta di sorridere e si  (ci)  risparmi quelle battute becere, volgari, quelle barzellette che non fanno più divertire nessuno. Prenda la porta e se la schiuda alle spalle. Non abbiamo voglia di ridere, dobbiamo voltare pagina ... 
E ricominciare.
Scompaia, Presidente. Si dimetta! E' quello che il Paese attende, è quello che il Paese esige.

lunedì 1 novembre 2010

Doppio binario (Racconto a puntate: puntata n°3)

Devo andare - pensò, alzandosi in fretta e lasciando il denaro sul tavolino, senza voltarsi indietro, l'urgenza di muoversi che dava ai suoi gesti una concitazione per lei inusuale.
Il sole ora avvolgeva la valle che si spalancava davanti ai suoi occhi. Conosceva quelle montagne aspre, puntute, e il loro silenzio, conosceva quella strada che si snodava, alternando curve a brevi rettilinei, giù nella valle. Pur coperta dalla neve avrebbe saputo distinguerne il tracciato, anche a occhi chiusi. Affrettò il passo, scendendo sicura. Rispetto alla notte appena passata avanzava abbastanza spedita. Il figlio non la seguiva più... Doveva essersi fermato. Forse la proprietaria del locale gli aveva offero le salsicce di fegato sott'olio, forse si era stancato di seguirla in quella sua corsa che doveva essergli sembrata priva di senso. Be', era adulto e vaccinato, se la sarebbe cavata da solo in un modo o nell'altro.
Il caffè le bruciava lo stomaco e il freddo pungente la faceva rabbrividire. Quasi senza rendersene conto si ritrovò in una piazzetta, una di quelle piazze così comuni nei paesi da non essere quasi distinguibili l'una dall'altra. L'immancabile chiesa da un lato, il bar dall'altro, case e un negozio di alimentari a delimitare quello spazio che è il cuore pulsante di ogni paese. Qualche vecchio con le carte da gioco in mano, le beghine davanti alla chiesa, nere come corvi saltellanti sulla neve in cerca di cibo. Nulla sembrava cambiato, nemmeno nella casa accanto alla chiesa.
Si avvicinò e accostò l'orecchio al battente del portone. Silenzio. Assoluto. Era passato tanto tempo, cosa si era aspettata? Di trovare qualcuno? Di essere accolta al suono delle fanfare?
Si mosse lentamente e sbirciò, attraverso la cancellata, nel giardino. Era incolto, i cespugli avevano invaso le aiuole. La siepe non più potata, fitta come un muro, ricadeva in disordine intrecciandosi alle erbacce e debordando nella piazza.
"C'è nessuno?" La sua voce risuonò stridula e alle sue spalle sentì, prima ancora di avvertirne la presenza, una voce di donna apostrofarla in tono interrogativo: "Sei tu Angela? Mio Dio, quanto tempo è passato?"
(continua... )

domenica 31 ottobre 2010

Doppio binario (Racconto a puntate: puntata n°2)

Si voltò. L'uomo, anzi il ragazzo che la seguiva, le sorrise, e con  una breve corsa la raggiunse.
"Ma che giorno è?" le chiese.
"Domenica credo, altrimenti io sarei al lavoro e tu a scuola".
E sorrise, osservandolo, l'espressione corrucciata di sempre, il maglione di sghembo, e quel passo nervoso che si mangiava la strada.
"Che bella questa vallata, mamma, mi emoziona ogni volta che la vedo... "
"E' bella, ma io amo il mare".
"Lo so, sei proprio una lucertola"
Scendevano affiancati lungo lo stretto viottolo, non nevicava più.
"Ho fame e tu?" lui le chiese.
"No" gli rispose.
Il baretto del paese era piccolo, squallido in quel suo lindore di plastica e odore aspro di detersivo che saliva dal secchio, colmo di acqua schiumosa, dove la proprietaria intingeva il moccio che strizzava prima di passarlo con foga eccessiva sul pavimento.
"Un caffè ristretto e una cioccolata. Avete delle brioches?"
"Teniamo salame e formaggio, signo' " e la donna rise, le mani sui fianchi larghi e ondeggianti, guardando golosa suo figlio che già assentiva.
Lo osservò mangiare, il caffè forte e aspro che le scendeva nello stomaco, e gli chiese:
"Allora, hai deciso che facoltà... "
"Buono questo salame... "
"Lo faccimo noialtri, credo ch'è bono... " e curiosa la donna chiese "Da dove venite?"
"Da lontano, molto lontano"  lei rispose.
"Economia, nella migliore tradizione di famiglia... " e rise concludendo "mi hai convinto".
La proprietaria armeggiava ora intorno a una vecchia radio. Pochi secondi e nella stanza irruppe la musica. Vorrei che fosse amore, amore quello vero... e lei continuò, a mezzavoce,  la cosa che io sento.... e guardando suo figlio la colpì quel suo modo di guardare e il colore dei suoi occhi, come se l'avesse scoperto in quel momento. Cosa? "Che i cromosomi non sono acqua" pensò, confusamente, perchè la felicità non richiede intelligenza, solo la capacità di lasciarsi andare per afferrarla con tutti i sensi e in tutta la sua assenza di senso.
Dalla finestra entravano il luccicchio bianco della neve e il sole di sghembo. Prepotente.
(continua... )

sabato 30 ottobre 2010

Doppio binario (Racconto a puntate: puntata n°1)

             La notte era buia, senza stelle, cupa. Lei avanzava lungo il sentiero quasi a tentoni, inciampando a tratti sulle radici d'albero affioranti dal terreno, la mantella che le svolazzava intorno, gonfionadosi di vento e impigliandosi sui rami degli alberi che intravedeva quando emegevano spettrali dall'oscurità.
Andava, senza fermarsi, passo dopo passo, quasi un istinto la guidasse. Ma dove? Sapeva di dover andare, sperava che il suo istinto la guidasse. Ogni tanto alzava gli occhi a fissare il cielo che, senza soluzione di continuità, si fondeva con l'oscurità della terra, avvolgendola in uno scrigno di velluto.
"Ci sarà un lampione a un incrocio, una finestra orlata di luce, una stella sfuggita alla gabbia delle nuvole... " pensava mentre i suoi piedi calpestavano la terra spaccata dal gelo e lei andava, andava. "Da quanto tempo? Che ora poteva essere? Non portava orologi, non li aveva mai sopportati. Il tempo lo teneva a distanza, come un amante sgradito non lo degnava di un'occhiata: aveva già invaso la sua vita portandogliela via a pezzi, a morsi, a bocconi sempre più grossi... "
Un lampo azzurro infranse l'oscurità. Una voce, sgradevole, lo accompagnava. Qualcuno la chiamava. "Angela, Angela... buongiorno!" E questa chi è? Affondò in due tette mastodontiche, profumate di "Stira e ammira", boccheggiando; sentì un dolore acuto al braccio e, mentre rispondeva educatamenteva "Sì?", la voce di poco fa chiese "Come andiamo?". "Cosa te ne frega?" lei non riuscì a fare a meno di pensare ma rispose, sapendo di dover rispondere qualcosa, mugugnando quelle due parole "Non male... " e tenendo gli occhi chiusi, ostinatamente chiusi, perché non era questa la luce che cercava.
Qualcosa le scivolò in gola... Poi di nuovo buio e tra le labbra si ritrovò un fiocco di neve che, ghiacciata, si scioglieva al contatto della sua bocca. La dissetò, ma ci mancava solo la neve a rendere il suo cammino ancora più stentato e difficile.
Nell'aria un baluginio chiaro fece impallidire la notte.
Stava sorgendo l'alba.
Il mondo riacquistava contorni definiti: la sua risatina di sollievo cantò, come un ruscello al disgelo, la sua eco che si amplificava cozzando, rimbalzando di roccia in roccia, mentre il sole illuminava la valle che si spalancava davanti a lei, i casolari gettati a caso, come dadi su un tavolo da gioco. Un gallo cantò e qualcuno che camminava alle sue spalle, affrettò il passo.
(continua... )

Il ritorno di Casanova

Amo Schnitzler, Arthur Schnitzler, di cui ho appena letto  Il ritorno di Casanova, piccolo gioiello scritto a inizio Novecento dall'autore austriaco. Calandosi nei panni di un Casanova sessantenne, lo scrittore ne ipotizza il declino, proponendolo sul filo serrato di un monologo interiore che, come una colonna sonora in sottofondo, ne ritma la cadenza. E la storia ci presenta un Casanova costretto a prendere atto dell'insulto del tempo, che sfida cercando il confronto con la giovinezza integra - e la bellezza che ne consegue - dell'amante di Marcolina, un giovane e aitante ufficiale innamorato della ragazza, al quale Casanova, a seguito di una perdita al gioco che glielo consegna calzato e vestito in tutta la sua debolezza, farà una proposta indecente: una notte con Marcolina in cambio dell'azzeramento del debito. Casanova, fingendosi il giovane ufficiale con il  favore delle tenebre, penetrerà nella camera della donna e... , a questo punto, la posta in gioco non sarà solo un'avventura amorosa, una in più da aggiungere alla lunga lista delle conquiste di Casanova, ma il  diritto, la possibilità, la familiare consueta capacità di seduzione che dovrà dimostrarsi non solo intatta, ma incandescente, esplosiva come un fuoco d'artificio in una notte di festa, capace di sgominare non solo ogni altro pretendente, riconoscendo in lui, per l'ennesima volta, il seduttore che non teme rivali, l'uomo al quale ogni donna non può non sognare prima o poi di concedersi, ma anche e soprattutto il destino che alla vecchiaia ci condanna.
Non vi anticipo il finale che, in un crescendo di sfide e di sentimenti che le impongono, non potrà che essere, come è inevitabile sia,  frutto della consequenzialità logica degli eventi che ritmano la vita.
Sullo sfondo, anche se nulla lega i luoghi del romanzo all'Austria di Schnitzler, il grado di maturità cui l'autore perviene nell'approfondire l'indagine psicologica dei personaggi, in primis Casanova, mi riporta alla Vienna di Freud, alla nascita della psicanalisi che quella cultura fu in grado di produrre ...  un istante prima che la guerra travolgesse e distruggesse per sempre l'Impero degli Asburgo.

venerdì 29 ottobre 2010

Anche ora, anche adesso.


Odio del dolore
la voce
potentemente muta,
l'arroganza di sentirsi perfetto 
e, tra tutti i sentimenti, 
l'eletto.
Odio la sua resa alla vita
la sua debolezza. 
Odio il pietismo viscido 
che tradisce lo sguardo 
di chi mai è riuscito a tagliare un traguardo.
Odio che mi imprigioni, 
mi soffochi, 
mi domi.
Odio i suoi passi lenti, 
quell'andare pacato
i suoi tempi lunghi 
che la mia vita hanno divorato.
Odio il suo retrogustogusto 
amaro come il fiele
di un ultimo caffé, 
nero come i tuoi occhi
nei quali già danzava 
il suo sorriso di miele.
Odio la sua cadenza 
le sue contraddizioni
quel modo di spezzarti,
schiantarti
e devastarti
per farti poi scoprire,
quasi fosse un suo vezzo,
che la vita la ami
anche quando è ben dura,
anche in questo momento,
anche ora,
anche adesso.




lunedì 25 ottobre 2010

Puzza di padroni

E bravo il nostro Marchionne che seduto - quasi appollaiato come una statuaria civetta intagliata nel buio della notte -  davanti a Fazio, ieri sera a Che tempo che fa, discetta, con l'evidente ma tollerante fastidio che si prova davanti a un interlocutore un po' ottuso, di impresa. Sì perché il nostro, pur laureato in filisofia a riprova del valore, da lui ribadito, del pensiero che sviscera le idee traendone ideali, emozioni e sensazioni, è un metalmeccanico, uno che fa automobili... E' uomo del fare, lavora diciotto ore al giorno, somma e sottrae numeri per produrre utili, utili non balle. Snocciola posizioni in graduatoria, percentuali e poi butta là, con la nonchalance che si addice a un uomo del suo prestigio, quell'utile operativo trimestrale non solo elevato, ma soprattutto prodotto totalmente fuori dal patrio suolo. Sì, perché il costo del lavoro, che tanto incide sull'utile operativo, è alto, troppo alto in Italia rispetto a quello della Polonia o della Serbia. E così scopriamo che sugli operai italiani grava la responsabilità primaria della crisi del settore industriale, sulla loro esosità, sullo scarso attaccamento alla fabbrica, sulle assenze ingiustificate, sulle pretese... Quegli stessi operai ai quali Marchionne ha pensato quando, opponendosi alle richieste dei suoi più fidati collaboratori, si è rifiutato di chiudere gli stabilimenti di Pomigliano, per inciso, anche per non riconsegnare quel territorio alla mafia. Fazio ascolta e oppone a Marchionne i miserandi stipendi percepiti dagli operai, l'insicurezza del posto di lavoro, gli incentivi corrisposti dal governo alla Fiat, ma le sue parole sono spazzate via da un Marchionne seccato che sottolinea come gli incentivi abbiano favorito gli acquirenti - tra l'altro pochi - di macchine italiane e solo indirettamente la Fiat, la quale nulla deve al governo con cui ha chiuso ogni posizione debitoria.
Fazio deglutisce imbarazzo e sbandiera ignoranza economico/imprenditoriale nonché sociale consentendo a un Marchionne ormai lanciato di esporsi fino a garantire un adeguamento dei salari nostrani al livello di quelli comunitari in cambio di una collaborazione - proficua per tutti - con i sindacati. Per inciso con la controparte sindacale più riottosa - quella Cgil che ancora punta i piedi e rappresenta una parte irrilevante dei dipendenti Fiat. 
Poi si alza e se ne va, lasciando dietro a sé un odore fastidioso ma conosciuto: puzza di padroni. 

domenica 24 ottobre 2010

Giovani e disoccupazione

Mentre me ne sto qui, in queste giornate ancora piene di luce, a pensare - che molto d'altro ormai non riesco a fare - mi vengono in mente i disoccupati, sì proprio loro. Li immagino come una lunga fila di persone, a testa china, incollati l'uno all'altro: in attesa. Cosa aspettano e cosa pensano? Come vivono, o meglio, come non vivono i disoccupati? Si alzano tardi perché si addormentano tardi, tardissimo... guardano film che la TV trasmette a ore impossibili, tanto loro non sono stanchi: sono soltanto angosciati e quindi cercano di distrarsi, ma invece di addormentarsi, sfiniti dal lavoro quotidiano, davanti alla solita pappa americana tutta eroi ed effetti speciali, incominciano a vedere film di pregio. E' una televisione che era loro sconosciuta, che all'inizio li fa un po' sbadigliare, ma poi... Poi iniziano a pensare, con fatica si staccano dal pensiero ricorrente e angosciante che domina il loro cervello, quel posto di lavoro perduto diventato nel ricordo simbolo di un Eldorado da sogno. Guardano film intelligenti e scoprono di avere un cervello anche se per molto, forse troppo tempo, lo hanno ignorato: al punto di credere a un ometto che snocciolava bugie come una mitragliatrice proiettili, al punto di credere che la crescita economica sarebbe stata inarrestabile, il posto di lavoro sicuro, ricchezza e benessere a portata di mano. Capiscono di essere stati ingannati, sfruttati e poi "gettati a mare" come la zavorra di una nave in un mare in tempesta. Lo sconforto diventa rabbia, si colora di umiliazione mentre scatta l'invidia, esplode la collera. A volte a farne le spese sono figli e mogli, oppure i genitori, dai quali si è ritornati per avere un tetto sulla testa, instaurando convivenze impossibili. Si oscilla tra la depressione che uccide e la rabbia che fa uccidere. Serpeggia la ribellione, lievita come un dolce appena infornato. Una generazione fatta a pezzi apre gli occhi sul deserto che l'avidità dei padri ha lasciato in eredità ai figli. I progetti, i sogni si rivelano illusioni, pure illusioni, si vive all'insegna della provvisorietà, si naviga a vista, come navi nella nebbia. Nemmeno i più ottusi potrebbero pensare a una crisi congiunturale: è in atto un cambiamento epocale la cui portata è imprevedibile, anche se qualcosa sembra emergere dalla nebbia.
Sarà un mondo più povero, molto più concorrenziale: un mondo nel quale l'America e l'Europa faranno i conti con la Cina, l'India e altri paesi emergenti, altre culture... Sarà un passaggio di consegne morbido o strideranno cupe le armi? Il  potere non si concede, né si cede. Si conquista, si strappa a chi lo detiene.
Speriamo che i nostri giovani, obbligati a smettere la tuta, non indossino la divisa... Sarebbe l'ultimo schiaffo del Potere a una generazione che ha già pagato un prezzo altissimo.
Speriamo che Leone, Coppola, Monicelli, Rosi, Scorsese e Cimino, in quelle lunghe notti davanti alla TV, abbiano insegnato loro qualcosa.

lunedì 18 ottobre 2010

Velo d'organza


Velo d'organza


Nell'aria tiepida della sera
quella tua grazia,
appena scoperta
velo d'organza
la racchiudeva.

Velo da sposa
inghiottiva il pallore
ardevano i ceri 
sull'altare maggiore

Rossovestita,
molto scollata,
con la sapienza
che richiedeva
ballare il tango,
assecondavi
la sua arroganza

Di pizzo i guanti
sulle tue mani
senza domani
lo segui a stento
è un  valzer lento
sempre più lento

come la vita
che più non danza.
Porti pazienza.

domenica 17 ottobre 2010

Neuroni adieu...

Si ritrovavano ogni mattina nel bar a sinistra in Piazza Nigra; anche oggi che l'aria trasudava nebbia ad annuciare un altro inverno e le prime gocce di pioggia rimbalzavano sul selciato.
"Ciao Giovanni, come va?" Era Michele che, in piedi davanti al bancone, si accendeva una sigaretta.
"Solito... " borbottò l'altro,  facendo un cenno alla barista, la Gianna, ogni giorno un po' più inquartata a dimostrazione delle sue origini contadine, il seno ampio e generoso come quella sua risata che accendeva sempre negli occhi di Michele bagliori dimenticati.
Entrarono Mario e Lorenzo: bagnati e infreddoliti.
Si conoscevano ormai tutti e si chiamavano per nome. Quando erano in vena ricordavano i tempi eroici, quei tempi ormai lontani in cui erano stati tanti e agguerriti, decisi a lottare fino all'ultimo uomo: decisi a non arrendersi. Per una questione di dignità, di decoro...
Il nemico era stato abile: si era insinuato nella loro terra in modo subdolo, senza dare nell'occhio: una puntata qua e una là, furtarelli di poco conto che, come la zampata di un gatto, lasciavano segni sottili, quasi invisibili.
La tigre si era acquattata nell'ombra a spiarli, a studiarli... Era cominciata la guerra, ma senza una dichiarazione ufficiale, una guerra negata da tutti. E quel disagio che serpeggiava nel Paese, quell'intoppo negli spostamenti, quella mancanza di nerbo, la fragilità? E la stanchezza? E tutti o quasi a dire "La gioventù non è più quella di un tempo, non ha carattere, si spaventa di fronte si problemi, trema... ".
In effetti, nonostate il Paese sembrasse lo stesso, a un osservatore attento non sarebbero sfuggiti quel rallentamento nelle attività produttive, quella mancanza di progettualità, quell'apatia che obbligava  chi di dovere a fornire aiuti, supporti...
Il deterioraramento lento ma inarrestabile aveva richiesto approfondimenti, analisi  particolareggiate: il nemico era stato individuato, fotografato... , intuito più che visto. Finalmente aveva un nome, un volto: il nemico si era materializzato, apparendo per ciò che era: un morbo maledetto, invasivo, potente e inarrestabile. Destinato, in tempi più o meno lunghi, a vincere ogni resistenza, a fiaccare ogni anelito di libertà.
Il Paese era rimasto sbigottito, atterrito. Incredulo. Ma come: allora non era dipeso da nessuno! Beh, da qualcuno sì, ovviamente, ma risalire alle responsabilità precise sarebbe stato difficile e a questo proposito, si vagava ancora nella nebbia più fitta, nella nebbia delle ipotesi.
E così era cominciata la Resistenza.
Erano stati stanati uno a uno... e ormai erano pochi, troppo pochi per far funzionare il Paese.
Si trovavano là al bar dell'angolo, ad aspettare il loro turno.
Lei lanciò loro un'occhiata pensosa, anche un po' complice e mormorò: "Confidiamo nella ricerca ragazzi! E... resistiamo!"
I suoi neuroni, con uno sforzo quasi eroico, raddrizzarono le spalle, assumendo un'aspetto vagamente marziale. Fuori, un raggio di sole, trafitte le nuvole, accarezzò il selciato sconnesso prima di essere nuovamente imbrigliato nella prigione compatta delle nuvole. Come lei.

La libertà è...

La libertà viene data per scontata quando c'è, un po' come la salute. Poi però succede qualcosa - un simbolo leghista imposto all'interno di una scuola, tanto per dirne una - ed ecco che scatta dentro di noi una sorta di allarme, un disagio che fa accapponare la pelle. Cosa sta succedendo o - ancora più inquietante come domanda - cosa succederà?

In un film di Marco Risi, Fortapasc, una frase "Ci sono i giornalisti, giornalisti, e... gli altri" mi fa scorrere di nuovo un brivido sulla pelle, mentre mi chiedo come sia possibile vivere in un Paese dove si muore per avere scelto di fare bene il proprio lavoro. L'attacco forse più pericoloso è alla madre di tutte le libertà, quella d'informazione. E Santoro, giornalista che non s'inchina al potere, che dà voce alla rabbia, alla paura, all'umiliazione accendendo i riflettori sulla parte in ombra del nostro Paese, quella invisibile, non solo non viene premiato - come dovrebbe accadere in ogni paese civile -  ma viene punito.

 La verità, cibo per stomaci forti, sorella siamese della liberta, poiché l'una non può esistere scissa dall'altra, è ormai diluita, triturata, ridotta in poltiglia da una informazione che deve rassicurare, tenere calmi gli indigeni.

Raramente come in questo momento l'unione può e deve fare la forza. La spaccatura all'interno del sindacato, il lancio di uova contro le sedi sindacali sono l'espressione di una guerra tra poveri che sta perdendo di vista i veri responsabili della crisi. Mentre gli operai riempiono le strade di striscioni colorati e di rabbia, i banchieri in doppio petto si defilano e - lungi dal ricominciare a speculare su cambi e titoli - continuano a spostare miliardi da una piazza finanziaria all'altra per incrementare i loro profitti. Perché nessuno li ha fermati, perché
per fermarli dovrebbero essere emanate nuove leggi a tutela del risparmiatore, perché per fermarli dovrebbe essere ripristinata una normativa di controllo sull'esercizio del credito... Perché nel nostro Paese siamo fin troppo impegnati a emanare nuove leggi, finalizzate al controllo sì, ma di uno dei tre fondamentali poteri la cui indipendenza garantisce la tenuta della democrazia, il potere giudiziario.

E allora ben vengano a farci scattare n piedi, come la platea di Annozero, le parole di una delle più belle canzoni di Gaber, la libertà è... partecipazione!

mercoledì 6 ottobre 2010

Barcellona e Woody Allen

Due turiste americane, cresciute a latte e bistecche al sangue, sbarcano a Barcellona. E' estate, il sole arroventa le guglie della cattedrale voluta da Gaudì, fa brillare di colori pastosi una città calda, sensuale... Mani brune pizzicano le corde di una chitarra. La rossa camicia del pittore, cangiante, fa risaltare il suo sguardo, impudico quanto la proposta che l'uomo fa alle due ragazze... E il vecchio Woody decolla: si dice ciò che non si pensa, si fa quello che non si dice, ci si misura con la vita o ci si nasconde in questa città di cui Cristina, una delle due ragazze, quella che ha già programmato tutta la sua vita futura sulla base dei solidi rassicuranti valori borghesi che le sono stati inculcati, cerca di cogliere l'identità catalana, per farne l'oggetto della sua tesi di laurea, per contenere nella gabbia delle parole, il calore che le divampa dentro, quella passione nascenteche la indurrà a cedere alla lusinga di quello sguardo che le scivola sulla pelle come una bruciante, insostenibile carezza. In pochi minuti scoprirà la donna che potrebbe essere, ma solo per negarla, come i desideri ai quali per sempre rinuncerà, scegliendo di sposare il solido, rassicurante fidanzato americano.
L'amica che l'accompagna invece sceglie - subisce? - il fascino del pittore, la disordinata anarchia della sua vita, lo scontro/incontro con la donna che è stata sua moglie e che riappare nella sua vita, sconvolgendola con la violenza di un tornado. Penelope Cruz è nera di occhi e capelli quanto l'amante americana dell'ex marito è bionda e pallida, quasi a sottolinearne la diversità  e il potere dell' attrazione/repulsione. Concentrato di genialità alla quale tutti s'inchinano ammirati ne incarna tutta la prepotenza, la bellezza e la mancanza di limiti. E' troppo per l'americana che forse nella dipendenza dell'amante dalla ex moglie, scoprirà una debolezza in cui  riconoscersi e ricacciarsi, insoddisfatta, alla ricerca di una completezza che si capisce o intuisce essere solo una chimera, un'ipotesi, una promessa non mantenuta.
Un attimo e... via, come la vita. 

Ancora su donne e autonomia

Nell'immaginario collettivo, la madre è vissuta come la personificazione dell'altruismo e della bontà. A differenza del padre, che  finisce sui giornali immortalato in versione mammo con il pupo tra le braccia nel caso - raro - in cui si faccia carico di allevare un figlio, la madre se cresce da sola due o tre pargoli lavorando non fa assolutamente notizia. E' normale, come naturale è rinunciare al lavoro per i figli, sacrificare i propri talenti per occuparsi della famiglia, sì della famiglia, l'intera famiglia: quella che comprende i nonni e include il cane, il gatto e anche gli eventuali canarini e i pesci rossi... E' tutta manodopera gratuita alla quale spesso è sufficiente assicurare solo ciò che serve alla sua sopravvivenza. La retta di un asilo nido, lo stipendio di una badante inciderebbero in misura tale da rendere praticamente nullo l'apporto economico di una madre lavoratrice gravata da figli piccoli e genitori non autosufficienti, senza contare che la casalinga assicura un clima più disteso alla famiglia. I dati sulla depressione  e l'alcolismo che affliggono le appartenenti alla categoria sembrerebbero indicare, però,  una realtà ben diversa da quella ipotizzata negli spot televisivi.
Questo serbatoio di potenzialità, talenti e opportunità è quindi un magma indistinto che funge da salvagente e protezione all'interno della nostra società? Se sul piano giuridico le donne non possono essere considerate cittadine di serie B, e se si laureano e si specializzano come ( e più) dei maschi, quando si delinea il divario con l'altro sesso e perché si allarga? Le contraddizioni esplodono nel mondo del lavoro, ma un lavorio sotterraneo, quasi un brusio indistinto negli anni formativi dell'adolescenza e del'infanzia, ha già conferito alla donne un marchio di diversità, preparandole non a lottare per fare valere i propri diritti, ma a  rinunciare.
Così si rimanda la maternità per tenersi il posto, per competere con i colleghi, per non essere angosciate dal senso di colpa, per evitare le critiche delle donne più anziane che hanno fatto scelte differenti.
La donna, a parità di preparazione con un maschio, non viene scelta dal datore di lavoro, è la prima a essere licenziata nei momenti di crisi, ed è colei che si sobbarca il peso di un doppio o triplo ruolo, occupandosi della casa e della famiglia.
Spesso è costretta a difendersi anche dalle avance del capo o capetto di turno.
L'ambizione e la voglia di misurarsi nel lavoro, doti nei maschi, nelle donne sono osservati con inquietudine e sospetto e se, all'interno della famiglia, è la donna a fare carriera il rapporto con il marito probabilmente entrerà in crisi. Non dobbiamo dimenticare che nel nostro Paese le donne devono fare i conti anche con la Chiesa che ancora non accetta conquiste civili come l'aborto o il divorzio allungando sul mondo femminile la sua lunga e inquietante ombra per continuare ad ancorare  le donne al concetto di peccato e non di responsabilità. La bellezza femminile che ingabbia la donna nello stereotipo della tentatrice,  vera e propria emanazione del Diavolo, bandita dai palazzi del Vaticano e umiliata nel grigiore degli abiti che le monache indossano, la dice lunga sulla concezione cattolica in merito alla questione femminile... Chi ironizza o grida allo scandalo sul burka dovrebbe riflettere chiedendosi se seppellire le donne nei conventi o incartarle nelle cupe vesti che contraddistinguono i vari ordini religiosi sia poi così diverso?
Perché la società non considera la diversità femminile una ricchezza? Perché la donna si vive in termini di alternatività riduttiva e non di complementarietà fonte di arricchimento? O madre o professionista, o femmina intrigante o moglie/madre casta? Quale ruolo gioca e ha giocato la cultura sull'evoluzione femminile? Quanto il lavoro di cura all'interno della famiglia, non remunerato e nemmeno considerato, permette allo Stato di risparmiare sul Bilancio pubblico? Quanto ottuso è quello Stato che rinuncia a ciò che la metà dei suoi cittadini potrebbe dare in progettualità, in fantasia, in talento organizzativo e innovativo e - considerazione finale, ma non ultima - quanto ristretta è l'ottica di quel mondo maschile che detenendo il potere avrebbe la possibilità di cambiare le cose ma si guarda bene dal farlo per conservare un'illusoria  e - come dimostrano i Paesi del Nord Europa - obsoleta concezione di superiorità?

sabato 2 ottobre 2010

Tolstoj in fuga da... ?

Com'é la vita con un genio? La vita minuta, quotidiana, quella che non conosce l'intrusione dei fotografi, la curiosità invadente del pubblico che ti osanna ma s'intrufola nel tuo privato.
In The Last Station di Michael Hoffman  il  regista prova a infrangere la barriera di cristallo che separa il privato di un grande artista come Tolstoj dallo sguardo del suo pubblico.
La moglie e i figli, tredici figli...  Di lei, Sofia, avevo saputo qualcosa leggendo qua e là, intuendone la caratterialità anche attraverso lo sguardo di una scrittrice femminista - tante, troppe, maternità, un marito vecchio e dispotico, quelle riscritture dei romanzi, fatte a a mano, a penna, tra biberon e culle... - che non mi aveva convinto. La finezza psicologica che caratterizza i personaggi femminili del grande scrittore nasceva solo dal suo genio? Oppure, mentre scriveva, la moglie commentava, chiedeva, approvava? Stregata da tanta genialità ma osando anche - magari mordicchiandosi il labbro pensosa  - esprimere i suoi dubbi su alcuni personaggi, soprattutto quelli femminili? E con quanta attenzione  Tolstoj l'avrà osservata, quali dialoghi gli avranno permesso di avere accesso all'intimità più profonda di una donna, esplorando l'anima della moglie?
Sofia e il marito sono colti e osservati dal regista nell'ultimo tratto del loro percorso di vita insieme: quella stazione finale, alla quale il titolo allude, è ormai a pochi passi ma l'intensità profonda che la comunicazione tra loro ha ormai acquisito, come quel tratto rosso che sottolinea la femminilità delle donne di di Shiele, fiammeggia, prorompe, tracima lasciando intuire la complessità di un amore /passione che può travolgere fino a diventare dipendenza relazionale, temuta  ma cercato, vissuta ma negata.
Il Grande Vecchio fuggirà nella notte, come un ladro, per affrontare la morte che sente alitargli sul collo ma alla quale non può abbandonarsi senza prima essersi staccato dal mondo, strappandosi di dosso Sofia che tra le sue braccia lo ingabbia,  incatenandolo alla vita, alla sua vita, quella che lei vuole per lui  o per lei e con lei...
Riporterà a casa solo il corpo del marito,  strappatole prima che dalla morte, da un ultimo necessario, nella evoluzione umana e artistica dello scrittore,  bisogno, nel tempo assurto a dignità di desiderio, di... libertà da ogni laccio: anche da quello, dolcissimo, dell'amore.

lunedì 27 settembre 2010

Etica e politica

"Abbiamo fatto un patto con l'elettore... ". Questo ritornello mi ha stancata.
Il primo patto da fare è sull'etica: quella che scegliamo di fare nostra, e questo patto non deve essere infranto. Mai! mio caro Fini, mai...

Cielo e maternità (2)

Autonomia? Cos'è l'autonomia se non la capacità di "cavarsela", e soprattutto da soli? Non tutti gli adulti sono autonomi; per il cucciolo d'uomo  l' apprendistato è complesso e soprattutto lungo: deve infatti imparare a camminare, a parlare, a mangiare da solo, a non pisciarsi addosso e chi più ne ha più ne metta. Per una madre è una responsabilità pesantissima sempre ma, soprattutto, per il primo figlio e nei primi mesi di vita del bambino. Responsabilità che può assumersi se è autonoma, lei per prima, non quel pupattolo urlante che spezzetterà le sue  notti, concedendole ritagli di sonno più o meno esigui, e sommergendola di cacca e pianti. Non sarà però così difficile perché quel bambino è già diventato suo nei mesi della gravidanza. Lo ha sentito muoversi, gli ha raccontato le prime favole, ha scrutato il suo viso e ha ritrovato in lui i segni di un'appartenenza che le hanno dato un'illusoria sensazione di continuità e quindi c'è già un legame che giorno dopo giorno diventerà più stretto... anche perché la dipendenza, che nel bambino è totale per molto tempo, dà alla madre un potere che, in quanto donna , ben raramente le sarà consentito di esercitare. Nel mondo degli affetti la donna è regina. In lei convergono, intrecciandosi, il potere di sfamare ma anche quello di consolare, di rassicurare o minare alla radice il senso di sé del figlio. Il legame è talmente coinvolgente e stretto da rischiare di confondere i due vissuti, d'impedire l'identificazione del figlio, la creazione di quel confine che permetterà al bambino di acquisire autonomia e una personalità ben distinta da quella della madre. E se la madre non fosse autonoma? Se, a sua volta, non fosse riuscita a distinguersi dalla propria madre, convinta, inoltre, di averlo fatto soltanto perché abituata a contrapporsi a lei?
La contrapposizione presuppone un riferimento  continuo, costante alla madre e alle sue scelte. Contrapposizione e identificazione sono le due facce della dipendenza. Entrambe, infatti, escludono la scelta sulla base delle proprie personali caratteristiche. Detto così sembra facile, ma non lo è: potere amoroso è un ossimoro,  l'essenza del potere  non è l'amore, è la coercizione.  L'amore, inoltre, non incatena all'altro da sé, non è amore quello che soggioga, quello che obbliga a restare e non fa scegliere ogni giorno, liberamente, di continuare un rapporto. Ecco allora che questo rapporto, che gli spot televisivi ammantano di dolcezza, delicatezza e profumo di talco, mostra il suo lato in ombra che esploderà su quegli stessi schermi televisivi, con le notizie agghiaccianti delle madri che, i figli, li hanno fatti a pezzi: annegati, uccisi a bastonate o scaraventati giù dal terrazzo.
E' questo lato in ombra della maternità che il femminismo non ha sufficientemente indagato: hic sunt leones!
Lo stereotipo della madre non si tocca, è troppo pericoloso scandagliare il vissuto della maternità nel profondo: ci sono troppe incognite, troppi rischi? Quali?

(continua...)

lunedì 20 settembre 2010

Bella la vita dello scrittore?


Splendida vita quella dello scrittore, anche se all’interno di questo post di Giulio Mozzi gli ostacoli che lo scrittore incontra sul suo cammino sono tutti correttamente segnalati. Perché in questa filière editoriale lo scrittore è l’artista, è il pifferaio magico, è il cantastorie fascinoso che sa incantare colui che legge penetrandogli dentro e aprendogli le porte del mondo fantastico che la sua arte gli consente di evocare.
Se poi, di questa capacità di narrare che gli è stata data in dono dalla complessa e oscura alchimia che decide delle caratteristiche di ognuno di noi, lo scrittore volesse fare strumento idoneo a consentirgli di vivere, trampolino di lancio per acquisire notorietà, se non addirittura espressione di una genialità o presunta tale idonea a farlo diventare ricco e famoso, beh, allora la faccenda si complicherebbe notevolmente e, su questo punto è inutile mi dilunghi perché l’autore del post, Giulio Mozzi, è concisamente esaustivo.
Arte e denaro accostati producono un suono stridente, sono come il Diavolo e l’Acqua Santa. Essere uno scrittore e non uno scribacchino dipende da quello che si scrive e da come lo si scrive e, sarò un’illusa?, questo è  l’aspetto che più inquieta chi narra o tenta di farlo. L’artista è un vanesio, nonostante possa essere anche timidissimo, e la sua arte è come il panno rosso del matador: danza davanti al pubblico dell’arena incatenandone lo sguardo a ogni gesto, a ogni spostamento, a ogni guizzar di muscoli del matador che, appunto, mata, uccide o viene ucciso.
Che cos’è infatti l’arte, qualsiasi forma d’arte, se non l’espressione estrema, e quindi anomala, della normalità?

Vite diverse

             Accanto  a me, stessa stanza bianca, asettica, a descrivere l'inferno lei mugugnava parole spezzate, scomposte come il suo  corpo, quel grumo d'ossa tenute assieme dal dolore su cui si schiantava l'orrore  che lo sguardo della figlia non riusciva più a contenere.
Era la mia vicina di letto: aveva la mia stessa malattia: il morbo - ora diventato malattia, come se cambiando  le parole mutasse l'essenza di ciò che descrivono, - di Parkinson.
Sono rimasta parecchi giorni in quell'ospedale: lunghe ore vuote, con lo sguardo fisso sui riquadri di cielo, che le finestre incorniciavano, scoprendone la mutevolezza. Forse mai nella mia vita l'avevo osservato così a lungo e con tanta attenzione: nero e impenetrabile nelle ore notturne, animato appena qua e là dall'alone dorato di quelle luci che illuminano sempre l'entrata di un Pronto Soccorso  ospedaliero, o invaso - erano passati pochi minuti o lunghe ore? - da uno spiraglio di luce che  lasciava emergere nuvole in corsa, cieli bigi e, a volte, il sole che, a fiotti, fiotti caldi di sole, entrava dalle finestre. Il sole, a settembre, ha una luce di una tonalità calda, morbida, avvolgente, quasi volesse farsi perdonare  la sua fuga nell'oscurità dell'inverno in arrivo.
L'alternativa al cielo era la parete: bianca, uniforme e vuota come un foglio di quaderno, sulla quale immaginavo di scrivere i miei pensieri, le mie fole.
Pensavo. Molto. Almeno quando il Dolore me lo consentiva, perché quando arrivava lui, il Signore delle Steppe, invadeva anima e corpo e il pensiero era solo speranza, raggrumata e contorta, di qualcosa, qualunque cosa potesse imbrigliarlo, imprigionarlo, scaraventarlo lontano, in quel cielo che sembrava indifferente e così lontano.
Cosa pensavo?

(continua...)

giovedì 16 settembre 2010

L'ordine della morte e il calore della vita

La luce viola intermittente mi ferisce gli occhi che nemmeno le palpebre riescono a proteggere. Il non silenzio dell'ospedale si anima e da brusio diventa sussurro, cigolano le ruote dei carrelli, esplodono i sospiri, quella sorta di lagnanza  che come una preghiera sussurrata a mezza voce si leva dai letti dove il risveglio non è solo quello del corpo, ma  anche dei dolori che lo affliggono. Le regole dell'opedale si susseguono a dare un'illusione di normalità a corpi feriti, segnati dalla malattia, sofferenti, mentre le infermiere, ragguagliandosi e ragguagliandoti sul tempo, i rapporti con il marito, le beghe con i figli, rifanno i letti,  passano a distribuire medicine, ti tolgono il sangue, misurano la pressione, verificano la temperatura.
Lungo i corridoi sfila l'esercito silenzioso e efficiente delle donne che assistono i malati quando addirittura non passano la notte appollaiate su sedie  sbilenche o sdraio da campeggio a scrutarne i volti che la luce elettrica illividisce. Dove sono gli uomini? Quelli sani intendo. A disagio passeggiano lungo i corridoi, a voce troppo alta parlano nelle stanze, schifati seguono con lo sguardo il groviglio delle flebo che con i loro aghi, piantati nella carne come croci  in un cimitero di guerra, trafiggono i malati. Quel mondo dolorante che la malattia imprigiona è cristallizzato in regole che solo due eventi, la guarigione e la morte, vivacizzano rendendo quotidiano il dualismo che contappone la vita, alla quale la guarigione restituisce, alla morte che come il banco in un casinò alla fine vince sempre . Inevitabilmente e inesorabilmente.

martedì 24 agosto 2010

Elogio del dolore

Banale, quasi ottusa come la bellezza di un'adolescente, perfetta ma non intrigante, la gioia non ha storia.
Potente, avvolgente e coinvolgente è il dolore: qualsiasi dolore, a condizione però che sia profondo, che scenda nelle viscere e risalga, emerga, scoppi nello sguardo, trabocchi in parole incontenibili, nel disagio di mani intrecciate e sudate che si sciolgano per disegnare nell'aria un affanno prorompente.
Con il dolore si cresce perché scatena in noi domande, fa nascere dubbi, obbligandoci a chiedere aiuto, imponendoci confronto e cambiamento. Per sottrarci alla sua morsa partiamo verso l'ignoto, esploratori  dell'anima ci caliamo in territori inviolati alla ricerca di risposte.
Accomuna (il dolore) e crea complicità: in trincea si getta la maschera, non si finge e, scoprendo la solidarietà, si diventa amici, perché nulla lega più dell'avere condiviso momenti terribili.
La gioia suscita l'invidia e isola dal mondo, racchiudendoci in una realtà perfetta che rifugge da ogni cambiamento. Cristallizza, arresta il flusso della vita e spegne il desiderio di conoscenza. E', come la morte, statica.
Dopo aver affrontato incredibili peripezie i protagonisti delle fole e delle storie si sposano con quelle scontate parole "...E vissero felici e contenti" e la favola, ogni favola, si affloscia, priva di passione, e si conclude. Invece non condivido la santificazione, prevista dalla morale cattolica, della sofferenza, e, in quel porgere l'altra guancia, colgo un masochismo che ritengo deteriore, soprattutto per le donne che ancora lottano per la parità di diritti rispetto agli uomini, e che la gerarchia ecclesiastica non sembra certo avallare.
Ma è soprattutto per quegli artisti particolari che sono gli scrittori che la sofferenza non è corona di spine ma aureola scintillante, perché è proprio da questa dimestichezza con la sofferenza che la loro sensibilità trae alimento, s'impreziosisce, quasi il dolore assumesse il senso per l'artista di un apprendistato doloroso ma necessario. E' da questo substrato di disagio profondo che spiccheranno il volo i personaggi inventati e le loro emozioni alla ricerca di una vita immaginaria, contraltare, schermo e contenitore di una realtà a volte troppo crudele e difficile da vivere ma carica di passione da usare a livello narrativo.

lunedì 23 agosto 2010

Parole, parole, parole...

Le parole, le parole sempre mi sorprendono. Le buttiamo là e, a volte, con superba indifferenza le sprechiamo o giochiamo con loro come il gatto con il  topo. Convinti di possederle, tutte e per sempre.
Invece le parole sono ambigue, pericolose come una femme fatal e altrettanto avvincenti. Capaci di rivoltarsi come boomerang dovrebbero essere maneggiate con attenzione, pronunciate dopo attenta riflessione. Chi non ha usato la parola sempre, impegnandosi ad amare fino al suo ultimo giorno, fino alla tomba, per poi finire tra le braccia di un altro/a appena girato l'angolo?
Chi non ha affermato perentorio un "mai" mentre già dentro gli sbocciava un "forse"?
Questo potentissimo strumento di comunicazione è un'arma. A tutti gli effetti. Multiuso. Può lenire una ferita dell'anima, rassicurare, incitare e portare alla rivolta, blandire, ingannare, suscitare il sorriso o ferire. A morte: come e più di una spada. Gelida come un coltello, la parola, una soltanto, può massacrarci, stampandosi nella nostra memoria a perenne ricordo di qualcosa che ci ha cambiati per sempre.
Possedere (le parole), equivarrebbe a stringere tra le mani un potere immenso, ma non c'è prigione che possa ingabbiarle, cassaforte che possa custodirle: come l'aria, sono di tutti a disposizione, come l'aria non si comperano e non si vendono.
Hanno un solo nemico: l'ignoranza.

domenica 22 agosto 2010

Amarcord triestino

In quella terra aspra di vento,
chiare di occhi
e di pelle,
donne bionde,
donne belle,
animano di colori
i severi
grigi moli

Taglia l'aria
quel dialetto
rozzo   e grezzo
che è di gente
un po' smagata,
forte, ironica
sguaiata

In quell'angolo di mondo
son cresciuta,
tra le rocce
e le doline
e il merletto delle spume
sullo sconfinato mare
che è  legato,
incatenato,
a quel cielo
che la bora lustra
a specchio
come donna che la cera
dà al parquet a primavera.

mercoledì 11 agosto 2010

Morire è volare

L’ambulanza sembrava scricchiolare, quasi stesse gemendo in un ballonzolare di oggetti appesi che sbattevano e cigolii che produceva la barella, tutta ruote rientranti e leve e levette che avevano impegnato - e non poco -  i barellieri. Erano ragazzi: due maschi e una femmina. Erano giovani, disponibili, quasi affettuosi, soltanto che stavano diventando quasi violacei… e lustri. Di sudore?
Parlavano al telefono con un medico: sembravano rispondere alle sue domande dando dati numerici. Variabili, misteriosamente variabili, pericolosamente variabili. Ora lo capiva anche lei che qualcosa non stava andando per il verso giusto: il senso di soffocamento aumentava, cresceva il peso sul torace, come se vi si fosse assiso uno di quegli obesi più larghi che lunghi che ormai si vedono un po’ dappertutto.
“Che giorno è oggi?”
Perché le faceva una domanda cretina: era malata non deficiente. Provò a rispondere: le labbra sembravano incollate, e l’aria, l’aria dov’era?Scarseggiava, si andava rarefacendo, dalle labbra le uscì un sibilo e quella richiesta – aria –la capirono dalla sua faccia, affiorò nei suoi occhi che seguivano quanto stava accadendo con crescente paura.
Le misero la mascherina sul viso e iniziarono a pompare ossigeno. Non bastava, non respirava quasi più, stava provando formicolii fortissimi  agli arti.
“Resista” a lei.
“Non sentiamo il polso” al medico con cui comunicavano via telefono.
Altri numeri, ma ormai non capiva più molto, erano i messaggi che le arrivavano dal corpo quelli che stava seguendo.
Gelo: saliva dalle gambe, aveva freddo, tremava e batteva i denti, non respirava quasi più…
“Apra gli occhi! Apra gli occhi…” a lei.
Altro dato numerico e una soffiata di ossigeno le gorgogliò sulla faccia.
“La stiamo perdendo!” al medico, all’autista, alla collega cianotica che le cercava il battito sulla gola E a lei!
Perdendo dove? Si era aperto lo sportello? Forse, dato che ora stava bene, benissimo. Volava come un uccello in gabbia in quell’ambulanza che, a sirene spiegate, si mangiava l’asfalto.
I ragazzi le davano sberlotti urlando: “Resista, siamo arrivati. Apra gli occhi, apra gli occhi, ma lei non li sentiva più, non aveva la minima intenzione di rientrare in quel corpo abbandonato sulla barella, le braccia penzoloni, il colorito da spettro.
“Oplà”, ora se la palleggiavano? Non solo, le toglievano i vestiti, le infilavano aghi e la sberlottavano  sollevandole le palpebre sotto una luce cruda e forte che spioveva dall’alto.
“Cosa è successo?”
Il dolore è tornato: la assale, la aggredisce da ogni parte, la stana dal cielo, le taglia le alucce appena spuntate, la morde alla gola, le rintrona nel cervello.
E viva! E dolorosamente, inequivocabilmente, dannatamente viva. Di nuovo.

lunedì 9 agosto 2010

Domande e risposte


Le ore
o son minuti?
si son fatte di ghiaccio.

Che aspettano?
Una nuova primavera
per scorrere 
ruscelli gonfi d'acqua 
a divorar  l'inverno?

Dove mi porta delle domande il tempo?

A ruminar parole
che si son fatte pietra,
muro,
piombo,
zavorra greve
sopra stanche spalle 

Per strada,
sperse, 
dimenticate
son le risposte.
Come la nebbia
son svaporate.






giovedì 5 agosto 2010

Questa guerriglia non è amore

Gli occhi sgranati sull'abisso
son di paura neri
e ancor più belli
le mani sue nervose 
stringono
solo l'aria.

Quante donne ho visto così?

"Mi ama  a modo suo..."
mentendo afferma
"Come sa..."
ribadisce.


"Questa guerriglia che ti sta devastando,
amica mia
di certo non è amore... "
le dico.
Non ascolta

Quante donne ho visto così?

lunedì 2 agosto 2010

Ore 10.25 Bologna

Era un mattino d'estate, traffico da bollino rosso. Le fabbriche chiuse e le autostrade intasate. Treni stipati di passeggeri: ragazzi con gli zaini sulla schiena e famiglie. Il padre in testa con la valigia più pesante e la moglie dietro, la sporta con la bottiglia della coca cola e i panini con la mortadella. I figli piccoli per mano, ben stretti, ché perderli è un secondo.
La stazione di Bologna è un intrico di rotaie che si intersecano e, per raggiungere la Riviera romagnola, con le sue spiagge di sabbia e l'acqua bassa come i prezzi delle pensioni, le Ferrovie dello Stato hanno istituito treni speciali. L'Italia è ormai entrata nel club dei paesi industrializzati, quindi in agosto... Tutti al mare!
La stazione è piena di gente, c'è aria di festa, gracchiano gli autoparlanti in sottofondo, nell'aria una risata e il pianto di un bambino, voci che gridano nomi... Un uomo entra nella sala d'aspetto e... vola. Volano con lui calcinacci e corpi, valige che si aprono in un arcobaleno di indumenti che scendono a terra. Una pioggia di calcinacci, corpi bruciati, smembrati. Polvere, tanta polvere che pietosa si alza a occultare l'orrore.
Sono le 10.25 sull'orologio della stazione di Bologna.
L'urlo delle autoambulanze riempie l'aria.
Come in guerra.

domenica 1 agosto 2010

La questione morale

"Berlusconi è...  "e giù tutta una serie di accuse! A milioni di italiani non occorre rinfrescare la memoria, milioni di italiani sanno perfettamente chi è  il Cavaliere, perché il Cavaliere non ha cambiato pelle, né bandiera, né ha modificato forma e sostanza dei suoi proclami. E' rimasto quello che era: un uomo che è sceso in campo e si è dato alla politica per non finire in galera, un personaggio che ha ottenuto finanziamenti  "allo scoperto" da un sistema bancario che non concede fido senza firme di fideiussione di madre, padre e amante, ma nel caso di Berlusconi ha cambiato le regole, perché chi garantiva era qualcuno di tutto "rispetto", sconosciuto, inafferrabile, ma solido: un fantasma per tutti, ma non per i funzionari della banca alla quale il Cavaliere si rivolse.
Amico dei potenti, quasi per osmosi diventa potente e poi, rapidamente, onnipotente. 
Troppo.
Il primo colpo di coda è quello di Veronica, la moglie. Scrive ai giornali e chiede il divorzio.
E in questi trent’anni di convivenza che cosa ha fatto? Si è tappata occhi e orecchie facendosi ammansire con dimore e regali principeschi? Ora che il forziere è pieno ha un soprassalto di dignità offesa?
Tardiva, direi.
Veronica, con le sue parole incrina l’immagine faticosamente e abilmente costruita del Cavaliere che prosegue indomito per la sua strada, attorniato dai codazzo dei servi plaudenti, ma un po’ imbarazzati.
Sempre più imbarazzati, anche se ancora plaudenti.
Ora è la volta di Fini che del Cavaliere ci elenca i limiti, che noi ben conosciamo. E non da oggi. E lui, il braccio destro del capo, lui, il politico attento, misurato, l’uomo dallo sguardo di ghiaccio, soltanto ora ha preso le misure al cavaliere? Soltanto ora, lo ritiene illiberale, affetto da bulimia di potere? Anche il presidente della Camera Gianfranco Fini si era lasciato incantare dal pifferaio magico, subendone la malia?
Dubito.
Non vorrei si usasse la questione morale, che si nutrì della passione politica di Berlinguer, per ottenere un vantaggio personale.
Staremo a vedere.


sabato 31 luglio 2010

I topi abbandonano la nave di Capitan Berlosco

I topi più astuti avevano abbandonato la nave, dopo aver sentito non soltanto puzza di naufragio ma anche quelle parole sconnesse che il comandante, Capitan Berlosco, tronfio di orgoglio e prosopopea, aveva pronunciato solcando in lungo e in largo, la falcata a misura delle corte gambette, il ponte della nave. A essere sinceri non che fosse una novità, spesso il suo braccio destro l'aveva soppesato meravigliandosi che un ometto, così corto e inquartato dagli anni, riuscisse a racchiudere in sé una simile carica di arroganza, ma era stata proprio quell'arroganza a sostenere e soddisfare l'avidità del capo, la sua  inesauribile voglia di dominio, di potere e di denaro, di cui tutti, in maggiore o minore misura, avevano beneficiato.
Se una dote non si poteva non riconoscergliela - pensò Fino, così chiamato sia per il fisico longilineo ed elegante, sia per la capacità d'individuare, con sicuro intuito politico e prima degli altri, i segnali di un cambiamento,  era quella di soggiogare, quasi irretire, da grande istrione qual era, il suo interlocutore. Eh sì, il capo, alla testa dei suoi Bassotti - per non sfigurare i collaboratori era solito sceglierseli della sua altezza, ma per lui, Fino, aveva fatto un'eccezione, viste le evidenti qualità - aveva scorrazzato, instancabile e inafferrabile,  per tutti i mari, assaltando e depredando velieri e creandosi anche la fama di corsaro, quando in realtà era stato sempre e solo un predone, il capo indiscusso della Banda Bassotti.  Da quel bugiardo patentato che era,  Capitan Berlosco la sua discesa in campo l'aveva giustificata dichiarandosi al servizio di un Regno e del suo sovrano, dando alla "corsa", la razzia che era solito fare, un alone tra il rocambolesco e il donchisciottesco che avevano contribuito a fare di lui una figura quasi leggendaria. Ma poi aveva esagerato, perdendo il senso della misura, ignorando ogni regola, addirittura quelle di chi, più potente di lui, ne aveva tollerato la presenza, in cambio di denaro, molto denaro, prendendone però le distanze e iniziando a guardarsi attorno alla ricerca di complicità meno imbarazzanti.
E Fino, l'occhi azzurro freddo e tagliente che  sapeva guardare lontano... aveva capito.
Il braccio destro, diventato "sinistro" in una notte, si allontanava portandosi appresso i i suoi uomini, una vigorosa bracciata dietro all'altra sotto le stelle che tremolavano sussurrando "On n'est jamais trahi que par le siens!".

giovedì 29 luglio 2010

Identità di frontiera

                             Trieste è una città particolare della quale è facile parlare aderendo a un cliché: il mare,  il Carso e, a ruota, le mule triestine lunghe di gamba e di lingua, il Centro di Fisica ... e via discorrendo, per concludere, mi sembra scontato, con la bora che soffia, più o meno impetuosa, sulla città che profuma di  Mittteleuropa come un caffè viennese di Sachertorte.
Era con gli occhi di una giovane studentessa che io avevo osservato quella città e l'entusiasmo che ancora vivacizza i miei "amarcord" affonda le radici nella sensazione che allora provavo: poter cogliere, come un frutto da un albero, tutto ciò che la vita mi offriva. In realtà questa bellissima città, adagiata tra il mare che la riflette e il Carso che la incorona,  se non dorme sugli allori (come una  Bella addormentata nel bosco) certo sonnecchia, alternando occhiate compiaciute a un'immagine di sé che la soddisfa, a garbati sorrisi  (evitiamo la scontrosa grazia che le ha attribuito uno dei suoi illustri figli) con i quali ricambia i complimenti che le vengono indirizzati.
E' città che non sa volgere lo sguardo al futuro, preferendo vivere di passato come si può desumere, anche da esempi banali, scorrendo ad esempio la posta dei lettori fatta pervenire al Piccolo - il quotidiano più letto in città -, e scoprendo che dietro a un "foresto" non si nasconde un marocchino o un polacco o un cinese (come sarebbe ovvio ipotizzare in qualunque altra città italiana) bensì un istriano, uno dei discendenti di quell'ondata di profughi che alla fine della seconda guerra mondiale abbandonarono l'Istria, temendo le rappresaglie degli slavi. Con un dialetto, forse, più simile al veneziano poiché su quelle terre la Serenissima aveva esteso il su dominio, ma non altro, eppure... Eppure la città è ancora lì a considerare i friulani i cugini di campagna, gli sloveni "i s'ciavi" e Roma "un po' ladrona", poiché non dobbiamo dimenticare che la prima forma di "leghismo" nell'Italia settentrionale vide la luce a Trieste con il "Melone", lista autonoma che coagulava consensi attorno a un programma comune incentrato sul rilancio della città per riportarla all'antico splendore. Lo sguardo corto, rivolto alla tutela del proprio personale interesse, non fa onore a quei cittadini che, con entusiasmo, aderirono alla lista civica aprendo la strada, di lì a poco, a personaggi inquietanti  come "il senatur".
Come la rivale Venezia, Trieste si considera città dal passato imponente, ma la sua storia ci rivela che non molto ebbe a che vedere con la raffinatissima nobiltà veneziana, i suoi cicisbei, la musica di Benedetto Marcello, Vivaldi e Albinoni  (tanto per citarne alcuni) che nei palazzi lungo il Canal Grande, tra parrucche incipriate e dame invitanti che occhieggiavano dietro ai ventagli, riempiva di sonorità aggraziate  i salotti dove si ballava il minuetto e si discuteva dell'ultima commedia di Goldoni mentre, appena più in là,  l'Arsenale sfornava navi a getto continuo, come un forno biscotti e, nel Senato veneziano, la più ricca, raffinata e incredibile tra le "Repubbliche marinare" faceva esercizio di democrazia.
Diversa storia vanta Trieste che si sviluppò soprattutto come città mercantile, quando Carlo VI, deciso a farne lo sbocco sul mare dell'Impero, attribuendole la qualifica di porto franco, aprì la strada allo sviluppo di una solida economia basata sul porto e i commerci. Le caratteristiche del luogo in cui viviamo  finiscono per influenzare le nostre scelte: Venezia, imprigionata tra cielo e mare, i canali che svaporano, i palazzi che emergono dalla nebbia come miraggi che la stanchezza accende negli occhi di un viaggiatore stanco, è  luogo che evoca il conflitto di creature non più di terra ma non ancora d'acqua, l'odio/amore per quella città d'oro e di azzurro.
Ben diverso, vitalistico e improntato ad una autentica joie de vivre è il rapporto con la natura dei triestini che, abituati fin da bambini a vivere sensazioni forti, cercano l'abbraccio del vento non appena smette di ululare e placare la sua forza e saggiano la forza dei muscoli "scarpinando" lungo i sentieri del Carso o calando in mare, dopo averle ripulite e ridipinte con la cura che le casalinghe dedicano alle pulizie pasquali, le barche, con le vele gonfie di vento che chiazzano di bianco l'azzurro come nevicate di margherite i prati a primavera.
I triestini si fondono con il  mare, si abbandonano al vento e, quando se ne vanno a cercare lavoro altrove, da vecchi ritornano, e li vediamo  pescare sui moli,  bere un bicchiere in compagnia e scatenarsi nei "vitz",  sparlando delle "babe'", perché amano la loro città di un amore intenso, incapace di raziocinio, assoluto, come soltanto un amore adolescenziale può essere. La gioventù triestina è particolarmente bella e sedersi al tavolino di uno dei tanti caffè che costellano le strade consente di godersi  una sfilato di mule che sembra la passerella di un concorso di bellezza: donne belle, emancipate, sicure, abituate da generazioni ad accompagnare i loro uomini ai moli, a sventolare il fazzoletto e poi a cavarsela da sole che "un omo tien su un angolo dela casa e una dona quatro... ".
Ai parterre dei teatri veneziani e ai boudoir dei palazzi settecenteschi animati da una nobiltà decadente, ormai alle corde - luoghi chiusi che comunicano sensazioni di asfissia - Trieste oppose i moli gonfi di vento, le botteghe artigiane, le piazze dove si stipulavano affari, e una borghesia nascente - e vincente - che fece decollare commercio e ricchezza, assumendo caratteristiche che ancora in parte la individuano. Vogliosa di prestigio sociale e un po' invidiosa, da parvenu, della raffinatezza della città rivale farà sfoggio di laboriosità, impegno, rispetto delle regole e frugalità preferendo essere una provincia dell'Impero, che queste qualità apprezzava, piuttosto che la numero due dell'Adriatico.
L'attuale borghesia triestina non ha saputo trovare in sé quella forza trainante, quella capacità di innovare che sola avrebbe potuto ridare slancio alla città, ritornata all'Italia nel 1918, in uno sventolio di bandiere a Piazza Grande, ribattezzata per l'occasione Piazza Unità d'Italia, quell'Italia che tanto avrebbe deluso i triestini, facendo rimpiangere a molti di loro Francesco Giuseppe e i bei tempi andati.
Sono lontani i tempi in cui, a ondate successive, greci, sloveni, serbi, macedoni sbarcavano dalle navi mescolandosi ai burocrati austriaci, selezionati accuratamente a Vienna e mandati a gestire una delle province più turbolente del'impero, nonché, incalzati dai pogrom russi e polacchi e rassicurati dalla tolleranza della città nei confronti delle diverse etnie, gli ebrei askenaziti , la componente più colta e ironica del mondo ebraico. Mi chiedo se i gruppi etnici che, ancora oggi, convivono nella città si siano fusi. Nonostante le tante bandiere e i molti cimiteri, sono state più numerose le triestine che hanno sposato soldati americani che quelle che hanno contratto matrimonio con uno slavo. La città mitteleuropea, crogiolo di razze apparterrebbe dunque al cliché? Direi di sì, perché, se ripenso al passato ho la sensazione di udire un mormorio stizzito, il sapore di rancori ancora vivi e, serpeggiante, la diffidenza. Le ferite aperte dalla guerra, quei quaranta giorni con i neozelandesi fermi alle porte di una città stremata, in attesa, fanno ancora male. Cosa avvenne in quei giorni? I soldati di Tito fecero piazza pulita delle ultime sacche di resistenza nazifascista. Non solo. La contabilità  sinistra della guerra esigeva che si quadrassero i conti? E questo avvenne, e il Carso diventò famoso in tutto il Paese per le sue foibe. Foibe, delazioni e un forno crematorio a rendere drammaticamente nota al resto del Paese la Risiera triestina.
Questa è storia di cui ho sentito narrare da chi la visse in prima persona, e ancora ricordo le discussioni accesissime che scoppiavano a casa di mia nonna, quando ci si riuniva per le festività natalizie o pasquali e noi bambini venivamo spediti a giocare nelle altre stanze mentre le voci salivano d'intensità, fino a quando, più grande, chiesi e ottenni il permesso di ascoltare e fare domande. Forse ancora i sopravvissuti cercano, frugano nel passato alla ricerca dei responsabili.... Quanto di ciò che avvenne è da attribuirsi alla guerra e quanto è riconducibile a una responsabilità non collettiva, ma personale? Personalmente non credo che possa emergere, in circostanze eccezionali, se non ciò che si è e io odio la guerra proprio perché legittima ciò che la pace ci obbliga a censurare: la bestia che sonnecchia in ognuno di noi. Quelle discussioni, così intense e appassionate mi fecero capire che appartenevo alla gente di frontiera:  confini reali, quelli che passano tra le case e tagliano i cimiteri, ma anche confini immaginari, limiti autoimposti avrebbero sempre marcato in me territori della realtà e della fantasia. Vivere a ridosso di un confine segna, inevitabilmente, ma abitua al confronto perché è costante l'incertezza, il passato allunga un cono d'ombra che ingloba il futuro e alimenta la paura: dello scontro e del diverso, l'altro da noi, quello che vive dall'altra parte. 
Claudio Magris la chiamerà, identificandone i tratti, "identità di frontiera" a legittimazione anche di un briciolo di follia che, al di là dei limiti impliciti in ogni generalizzazione, non deriva ai triestini solo dalla bora, ma ha radici ben più profonde e lontane...

giovedì 22 luglio 2010

Che stupida...

Erano amiche da tanto tempo, un'amicizia calda, sicura che attraverso percorsi diversi le aveva portate a condividere parecchie sofferte conclusioni alle quali erano pervenute in momenti diversi. Ora, sedute davanti a una tazza di caffè, chiacchieravano a ruota libera senza seguire uno schema preciso, privilegiavano quella comunicazione fatta di parole in libertà che si colorava, a effetto, di frasi in dialetto: ognuna il proprio.
"Te la ricordi Margherita? Il marito, che aveva un'amante, le aveva fatto credere che, nello studio dove lavorava , il responsabile avesse deciso - il momento è difficile e i clienti si devono corteggiare - di saltare la chiusura estiva, e, anche se con orari ridotti, di lavorare nei mesi di luglio e agosto" e Giovanna scoppiò a ridere, concludendo "così da poter giustificare, con un impegno di lavoro, improvviso eventuali ritardi. Ah, gli uomini... "
Lei sentì il caffè calarle sullo stomaco martirizzando la sua ernia iatale, mentre tentava di ridere, senza riuscirci. Poi, guardò l'amica e disse: "E' altamente improbabile che a Milano, con il caldo africano di queste settimane... La vita si ferma in questa città  a luglio. Ad agosto, poi, sembra 'the day after'...  "
Tentò di ridere: il risultato fu una smorfia pietosa mentre borbottava:
"Cristo! Perché non l'ho capito?"
Calò un silenzio imbarazzato.
Giovanna borbottò: "Quel porco, non dirmi che c'eri cascata... "
Lei si stava chiedendo se avesse per errore ingoiato varechina o acido muriatico al posto del caffè.
"Come ho potuto essere così stupida... "borbottò, mentre davanti agli occhi le scorrevano quelle immagini: lui che borbottava al telefonino mentre lei si allontanava per qualche secondo ma,  appena la vedeva tornare, salutava, borbottando con fare seccato "una collega... " .Lei non gli aveva mai chiesto chi fosse e men che meno perché lo chiamasse con tanta frequenza, né per quale motivo lui, così evidentemente scocciato, non avesse trovato il modo di arginare quella invadenza. Non aveva dato il giusto peso nemmeno a quelle due cravatte nuove, al maglione di cachemire che si era comperato, lui che non entrava mai in un negozio e si faceva comperare tutto da lei.
Si fidava, si era fidata di lui, anche se ultimamente, quando parlavano lui spesso le era apparso distratto, svagato, quel sorriso un po' fisso sulle labbra e lo sguardo che la trapassava come se lei fosse diventata trasparente. Il buffetto sulla guancia alla sera, prima di girarle le spalle e addormentarsi, non l'aveva insospettita: lavorava tanto, molti straordinari. Possibile che non si fosse accorta che erano troppi?
"Che stupida!" balbettò di nuovo.
"Si pensa succeda soltanto agli altri" le sussurrò l'amica, ma lei non l'ascoltava, era già in piedi, voleva tornare a casa, frugare alla ricerca delle prove, aspettarlo e guardarlo negli occhi, tra le mani una camicia sporca di rossetto, che lei non aveva mai usato.
"Ti accompagno? Sei sicura di non... "
"Sicurissima" rispose, mentre entrava in macchina e partiva. A tutta velocità.
Il telefonino la distrasse e, rischiando di finire nel fosso, identificò il numero.
Era lui.
"Che estate di m...a! Farò tardi anche oggi... "
"Una riunione improvvisa?" lei gli chiese.
"Già, ti lascio, mi stanno chiamando".
Lei ti sta chiamando -  pensò, mentre il morso della gelosia le stringeva la gola.
La giornata, intorno a lei,  moriva.
Come la sua storia.
Scivolandole come sabbia tra le dita.