venerdì 11 giugno 2010

Il Libro dei sogni



Dopo avervi depredato, ragazzi, di tutti i sogni, vogliono completare l'opera, manomettendo anche quel Libro che vi autorizzava a sognare, che vi dava il diritto di farlo? 
La Costituzione?
E' una bulimia di potere quella a cui stiamo assistendo?


Imbevibile Milano

Lo sferragliamento dei tram e l'urlo delle sirene sono quelli di allora e la gente che si muove e parla in fretta, sbuffando davanti alla minima incertezza di chi, passante o automobilista, intralci la sua corsa, sembrerebbe la stessa, eppure la sensazione che mi scivola sotto la pelle mi dà un senso profondo di angoscia. La città che mi accolse - sono passati vent'anni - con mattini nebbiosi che sapevano di croissant e caffè ristretto, da bere in fretta prima di scattare non di andare al lavoro, era pervasa ancora dalla voglia di fare, era orgogliosa, un po' superba come chi sa di essere il migliore. Circolavano soldi, tanti, e non ci ci perdeva in chiacchiere. Prima si lavorava e si produceva, poi si parlava, verificando che i risultati ottenuti fossero migliori di quelli preventivati.
E i ragazzi avevano un'aria disinvolta, anche se cominciavano a esserci troppe filiali di banche e troppa uniformità in quegli abiti grigio ferro con camicia azzurra e cravatta a strisce. Ma la città era sempre più grande e pronta ad accogliere e assimilare nuove ondate migratorie come, in ordine di tempo, aveva fatto con l'ultima, ingoiando contadini meridionali dalle mani callose e la coppola e sfornando dopo pochi anni milanesi di seconda generazione che parlavano in meneghino. Era ancora una città che sapeva premiare la fatica, l'impegno, capace di avvertire i cambiamenti ben prima della sonnolenta provincia italiana. Era la città dove gli operai avevano una tradizione di valori condivisi, dall'antifascismo alla lotta contro il terrorismo, dall'orgoglio per il lavoro fatto "a regola d'arte" alla solidarietà e alla cultura della fabbrica, che li rendeva "classe" dando loro un'appartenenza che già cominciava a traballare, ma ancora teneva. Le donne trovavano lavoro e, sulla scia dell'autonomia economica e del femminismo militante diffuso in città, acquisivano una sicurezza che stupiva ma anche inorgogliva le loro madri. Saliva il livello culturale: teatri, cinema,  librerie accoglievano conferenzieri e un  pubblico eterogeneo, sempre numeroso. I ricchi, tanti, si mimetizzavano dietro i portoni anonimi dei palazzi che custodivano la ricchezza senza ostentarla e i poveri allungavano il berretto, borbottando un  "grazie" tra i denti, ma senza esibire la loro povertà.
Era un mondo dove ancora si parlava, non si urlava.
In questi giorni mi sono trovata davanti  una città diversa, una città "stanca". Impotente, o convinta di esserlo. Ho colto questa stanchezza sui volti delle persone stipate come sardine sui mezzi pubblici, nei loro sguardi tesi, nelle bocche serrate. Anche i giovani rampanti manager tutti rasati, nervosi, grintosi, alla sera quando li incrocio, la giacca gettata sulla spalla, non hanno un'aria allegra: l'economia di carta che hanno contribuito a inventare si è rivelata una trappola mortale, una ricchezza virtuale che è scivolata lungo le autostrade immaginarie dei loro computer lastricandole di moneta scritturale. Numeri, solo numeri incasellati uno sotto l'altro, ordinatamente, a misurare una ricchezza finita soltanto nelle tasche dei banchieri, i nuovi predoni  in doppiopetto che si sono sentiti tanto potenti, da moltiplicare il denaro con la facilità con cui Qualcuno moltiplicò pane e pesci, ma per sfamare, non per affamare. Frastornati dal rumore i milanesi, quelli in età lavorativa,  sono ancora tutti in corsa, ma intruppati e consci di esserlo. E' una città incattivita e preoccupata che sente di aver subito non scelto il cambiamento di questi ultimi anni, conscia di non contare nelle singole individualità dei suoi cittadini , ma incapace di ribellarsi ad aggregazioni che si decidono altrove, nei "salotti buoni" dove i cittadini diventano consumatori, o consenzienti elettori di personaggi discutibili per permettere a pochi di guadagnare tanto sulla pelle dei tanti che guadagnano poco. Schiavi e padroni ci sono ancora, hanno soltanto cambiato aspetto, non condizione, e essere incatenati a un computer in un call center non è meno alienante di una vita consumata davanti alla catena di montaggio in una delle tante fabbriche che ci restituiscono la voce degli operai  soltanto quando muoiono o si piazzano sui tetti a gridare la loro disperazione di prevedibili disoccupati.
Quanto ai ragazzi che affollano i centri commerciali, standardizzati nell'aspetto esteriore, ridotti al rango inconsapevole di consumatori, tatuati nel corpo, ma più pesantemente nel cervello, resi acritici da un'educazione scolastica sempre più inconsistente, grazie a una riclassificazione di valori che ha collocato l'istruzione ai gradini più bassi tra gli obiettivi dello Stato,  è la loro  insensibilità al dolore, alla miseria o alla sofferenza dell'altro da sé che mi ha avvelenato l'anima. L'ostentazione della povertà che trabocca  e invade la metropoli, sottoponendola a un assedio di bisogni soffocante, sta scatenando una guerra tra disgraziati, tutti contro tutti, che pervade l'aria di rissosità, violenza e degrado.
Questa città, che mi ha insegnato molto, oggi non la ritrovo più.
E più non la riconosco.
Chi ha reso "imbevibile" Milano?
Chi comanda o chi subisce?
La risposta è così difficile?

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