venerdì 31 luglio 2009

Sua Santità e la RU486

Perché Santo Padre, pur portando questo nome, Lei le donne non le ama?
Capisco che come femmine possano inquietarla e sorvolo sulla questione. Per delicatezza. Ma, le donne, Lei non le ama nemmeno come figlie che, altrimenti, preferirebbe non vederle soffrire.
E, mi perdoni, mi sembra che essendosi fratturato un polso - eh sì anche i papi piangono, pardon cadono - Lei non abbia stoicamente chiesto di rinunciare all'anestesia, ma si sia avvalso della tecnologia medico/ospedaliera più avanzata. Noi, donne intendo, partoriamo già con dolore e, se la sofferenza nobilita, invochiamola per tutti, anche per i preti e per i papi.
La pillola, la RU486, si usa già in molti paesi dell'Unione Europea e, a tutela della libertà di scelta, non sarà imposta a nessuno. Lei si indigna, Santo Padre, per la morte dell'embrione e la rilassatezza dei costumi, ma non ho sentito la sua voce levarsi alta a additare il comportamento di un altro padre - più affettuosamente chiamato papi - che le donne, diversamente da Lei, le ama tutte, specie se giovanissime e bellissime.
E posso immaginare il Suo imbarazzo quando il nostro ha precisato di non essere un santo, prendendo da lei le distanze: padre, pardon papi sì, ma non santo papi. Sarebbe stato troppo anche per Lei. Capisco, Santità, perché è motivo di costante imbarazzo anche per noi, ma non s'illuda, si è salvato soltanto perché il nostro mira alto, al suo capo. Lui si sente Dio.
E, ultima cosa, la scomunica vale anche per quel presidente americano che ha sulla coscienza migliaia di bambini iracheni morti? Bambini, non embrioni, Sua Santità.
Devo dedurre che Sua Santità, pur non amando le donne, nutra simpatia per i presidenti?

La macchina americana.

E così la vecchia casa, palcoscenico privilegiato di tanti drammi e alcune commedie era stata venduta. A uno del paese emigrato, da ragazzo, in America. Erano passati tanti anni e quasi nessuno lo ricordava se non come un ragazzetto scarno, scuro, i capelli sempre sul viso a coprire gli occhi dallo sguardo selvatico, sfuggente. Aveva fatto fortuna vendendo automobili, poi aveva investito i suoi guadagni in borsa, a uollestrit o come diavolo si chiamava. Toniuzzo 'o Scaccolino aveva investito in borsa? E al paese, davanti al bancone del bar della piazza, si erano meravigliati, ma proprio di brutto, fino a pensare che quel paesano che aveva comperato la casa più bella del posto fosse un altro, non quel Toniuzzo che pochi ricordavano e che non aveva certamente l'aria di uno sveglio. Si era aggiudicato la casa all'asta e l'impiegato del Comune aveva raccontato alla moglie che l'impiegato del Catasto che aveva una nipote che lavorava presso l'Ufficio Pignoramenti e Esecuzioni del Tribunale...Be', tanto per farla breve, sarebbe arrivato alle quattro a ritirare le chiavi e a prendere possesso della casa. Chi? Lui, naturalmente: Toniuzzo 'o Scaccolino. In persona.
Tonino il barista sbirciò l'orologio. Segnava le quattro e un quarto. Non viene! - esclamò soddisfatto, aggiungendo:- Non è lui, avete capito male. Ma, mentre parlava, si udì il fruscio lieve di una frenata, seguito dal rumore di una portiera sbattuta. Il bar si svuotò: perfino Giovanni 'o ciuccio, che piuttosto di lasciare un bicchiere di vino non bevuto fino in fondo si sarebbe strafogato, era uscito a curiosare e, a questo punto, anche il barista non riuscì a resistere alla curiosità e, slacciatosi dai fianchi il grembiule, seguì gli altri sulla piazza.
Davanti all'ingresso della casa sostava una macchina bellissima, americana sicuramente! Una macchina così, non eguale ma simile, l'avevano vista soltanto al matrimonio della figlia del sindaco: bianca, candida come la sposa e, come lei, tutta infiocchettata. Era lunga, lunghissima e, nelle stradine strette del paese, ci sarebbe passata a stento. Aveva fatto bene Tonizzo a parcheggiarla nella piazza, così sarebbe stata al sicuro Avrebbero controllato loro che qualche ragazzino non ci strusciasse contro un chiodo, che la gioventù non era più quella di una volta. Era cambiata anche al paese.
Toniuzzo era già entrato, perché il portone d'ingresso era aperto, ma nessuno l'aveva visto.
Mentre commentavano a voce sommessa, si udì un rumore metallico e una delle finestre al piano nobile si spalancò, lasciando intravedere un uomo.
Toniuzzo 'o Scaccolino si voltò, lentamente, allontanandosi dalla finestra. La stanza era rimasta uguale: il pianoforte nell'angolo, il divano vicino alla finestra e le due poltrone una accanto al'altra. Come allora. Soltanto il caminetto, ora spento, quella sera era acceso, anche se lui, nonostante il calore del fuoco, ricordava il freddo pungente di quella giornata inverale, là alle pendici del Gran Sasso. Ma forse il freddo lui l'aveva avvertito quando lei gli aveva detto: "Non possiamo più vederci. Sposo Alessandro, devo salvare la casa...". Lui era ammutolito e per un istante aveva pensato di aver capito male, poi, afferrandola, le aveva gridato: "Aspettami, parto, vado in America. Vedrai diventerò ricco. Questa casa, la casa dalle novantanove stanze sarà mia..."
Lei aveva riso, con quelle labbra di miele che lui ben conosceva. "Sei povero Toniuzzo, sei povero e lo sarai sempre" gli aveva sussurrato, prima di uscire dalla stanza, l'aroma del suo profumo che ondeggiava nell'aria come se la primavera la seguisse.
Lui era rimasto lì, il cappello tra le mani, lo sguardo fisso sulla porta, e la speranza dentro che quella porta si riaprisse, facendola passare, volare fino a lui, facendole dire: "Vengo con te Toniuzzo... Partiamo". Ma i battenti si erano aperti soltanto per far passare la domestica che l'aveva accompagnato alla porta.
Uscito dalla stanza, Toniuzzo percorse il corridoio entrando in quella che era stata la camera che lei aveva occupato da bambina. L'avevano distesa sul suo letto da ragazza vestita di bianco, le margherite gialle, il suo fiore preferito, tra le mani. Si era uccisa,così gli avevano raccontato, sparandosi con il fucile da caccia del marito, quando lui era fallito, prima che i creditori mettessero la casa all'asta. In paese ne avevano parlato per mesi, poi quella morte era stata dimenticata. C'era una sua fotografia, il giorno delle nozze. Vestita di azzurro, sgomenta, più pallida dell'abito che indossava, non rideva, non sorrideva nemmeno. Lui era partito la sera stessa per Napoli e il mattino dopo si era imbarcato per andarsene in America.
Il dolore di averla persa l'aveva reso forte impedendogli di sentire la fatica, rendendolo insensibile alla solitudine che lo ingoiava, feroce, appena rientrava in quella stamberga da cui usciva alle prime luci dell'alba per rientrarci quando il sole già tramontava, in rossi cieli di fuoco sulla sua testa. Aveva il sole al tramonto lo stesso colore del pomodoro che mangiava lentamente, condendolo con un po' di sale e una fetta larga di pane. Poi restava lì, pensando a lei, alla curva dei suoi fianchi, ai seni eretti che aveva stretto tra le mani
quella sera, nella vigna viola di grappoli maturi. Non l'aveva più mangiata l'uva scura e quando la vedeva esposta dal verduraio, voltava la testa perché il lavoro, la stanchezza, la miseria le reggeva, ma la sua mancanza ancora gli faceva male.
Allungò una mano a sfiorare la fotografia.
Era arrivato troppo tardi - pensò, ma aveva mantenuto la promessa.
Si affacciò alla finestra del salotto che dava sulla piazza. Intorno alla sua macchina, come api sul miele, si muovevano cauti i paesani, sfiorandola con la punta delle dita, quasi fossero al cospetto di una reliquia.
" Paisa' che ci vuoi fare un giro?" gridò e i berretti dei paesani volarono nel cielo, alti e neri contro l'azzurro, come rondini in un cielo estivo.

Stessa spiaggia, stesso mare

Le vacanze, come i regali di Natale, mi hanno sempre immalinconita, forse perché ho la sensazione di cogliervi una forzatura, uno sforzo a essere ciò che non siamo. Quella domanda che - quando la temperatura sale e le giornate diventano interminabili - fiorisce, distratta, sulle labbra di chi incontriamo, quel "Dove andrai in vacanza?" mi ha sempre dato fastidio. Perché è, appunto, distratta e codifica un rito. Collettivo. Quasi si trattasse di "Tenere calmi gli indigeni" , i quali, di tutto avrebbero bisogno fuorché di essere tenuti sotto controllo.

La vacanza allontana dai problemi senza risolverli, forse perché i problemi vanno, o andrebbero, affrontati. La vacanza attenua il sintomo, non cura la causa del malessere. Se così non fosse, perché quei rientri stizziti, quel traffico che a settembre - lo ricordo a Milano - si incattiviva più del solito, digrignava i denti, gente nera di pelle e di rabbia, tacchi che picchiavano sull'asfalto, il conto corrente andata in rosso per conquistarsi un ombrellone sulla spiaggia ingorgata di gente come la tangenziale nell'ora di punta. Però, se rito è ne ha tutte le caratteristiche e, quindi, fornisce alibi: il tempo è stato pessimo, gli amici, con i quali abbiamo condiviso il soggiorno, insopportabili, il mal di denti, imprevisto, il tutto a giustificazione di quella inquietudine, quelle malinconie improvvise e tenaci da cui siamo stati colti a tradimento alla sera, in quelle stanze d'albergo anonime, in quei luoghi di villeggiatura che si sono improvvisamente mostrati in tutta la loro estraneità, facendoci sentire la voglia di rientrare in quel mondo da cui siamo fuggiti armati di zaino e mille progetti, qualche aspettativa e uno scampolo di libertà che siamo convinti di desiderare più di ogni altra cosa al mondo. Ma che, ora che la stringiamo tra le dita, ci accorgiamo di non saper gestire.

Forse è da qui che dovremmo partire, riflettendo sul fatto che la libertà concede scelte. E noi scegliamo? O subiamo? Scegliamo sulla base dei desideri o subiamo in base ai bisogni? Qual è la sottile linea di demarcazione che divide i bisogni dai desideri se non il nostro personale livello di libertà e autonomia personale. Solo chi è libero sceglie. E chi non lo è? Cambia: la conquista più ardua, più complessa, la sfida più difficile che la vita ci propone: il cambiamento. Il nostro, non quello di chi ci sta accanto e che non abbiamo nè il potere, nè il diritto, nè il dovere di cambiare.

Se fossimo davvero autonomi forse non avremmo bisogno di vacanze, ma, se stanchi, di riposo, se curiosi, di luoghi e/o esperienze in grado di soddisfare la nostra curiosità, se stufi del tran, tran, di una botta di novità. Insomma di tutto potremmo avere bisogno ma non della ripetitività stantia della stessa spiaggia e dello stesso mare.

mercoledì 29 luglio 2009

La solitudine non è uscire dal mondo, ma entrarvi per imparare, anziché per insegnare. Dal blog di Marco Freccero

Romanzo a puntate I Dellapicca

Maria, nella sua stanza, si avvicinò alla figlia prendendola tra le braccia e affondando il viso nei suoi riccioli mentre lei, con la sensibiltà animalesca dei bambini, nel sentirsi stringere in modo eccessivo, si scostava dalla madre guardandola interdetta, un accenno di lagna nella voce.
" Cosa facevano quando sei entrata? Di che cosa parlavano...", e il tono della voce di Maria era incalzante mentre, rivolgendosi a Tersina appena rientrata nella stanza, chiedeva:" Avrai ben sentito qualcosa, non saranno rimasti lì, come due stoccafissi a guardarsi", senza nemmeno darle il tempo di rispondere, andando avanti e indietro e origliando alla porta per sentire il rumore dei passi nel corridoio.
" Vai, vai, è uscito qualcuno: è il Moro, il padrone ha un passo strascicato che sono in grado di riconoscere. Vai a portargli qualcosa da bere e chiedi se ha bisogno - che ne so - di fumare uno 'spagnoleto'... Ma la ragazza esitava, spaventata, facendo indispettire la padrona, mentre la bambina, lasciando scivolare lo sguardo dall'una all'altra, incominciava a piangere, aggrappata alla gonna della madre.
Finalmente Teresina si decise a uscire, borbottando invocazioni alla Beata Vergine Maria. Nella stanza, rotto soltanto dal pianto, che si andava calmando, della bambina, scese il silenzio. Maria si avvicinò alla finestra in tempo per vedere il Moro attraversare il vicolo e dirigersi verso il porto. Alto e imponente, vestito di nero, la fusciacca e il copricapo rosso, si voltò alzando lo sguardo. Lei si ritirò, ma con la sensazione netta che lui l'avesse vista, mentre un rumore di passi nel corridoio attirava la sua attenzione e la porta veniva spalancata con violenza dal marito che entrava urlando:" Non pensare che sia finita così! Gliela farò pagare cara: io gli ho fatto togliere la corda dal collo e io gliela farò rimettere". Poi, avvicinandosi alla donna minaccioso, le agitò il pugno davanti al viso, continuando " E se pensi di vederlo ancora, ti sbagli di grosso. Avete finito di divertirvi alle mie spalle".
"La bambina si spaventa" disse Maria, tenendogli testa, anzi allungando su di lui uno sguardo colmo di disprezzo, mentre pensava " Forte con i deboli e debole con i forti; ma se pensa di spaventarmi... " e calmando la bambina, che aveva ricominciato a piangere, la depose nel lettino, pensando: "E questo se ne ritorna tranquillo, dopo anni, senza che gli sia passato per il cervello il minimo dubbio di eventuali conseguenze...ma cos'è la paternità per gli uomini? Un fiore all'occhiello da esibire in società? Si rendono conto delle conseguenze di un atto d'amore? Atto d'amore? E' un atto di possesso, una prepotenza, un modo di acquistare valore e importanza agli occhi degli altri uomini. Anche se il Moro mi è sembrato diverso, chi mi dice che lo sia? Di che cosa hanno parlato? Magari soltanto d'affari, sfidandosi l'un l'altro e gettando sul piatto della bilancia anche me? Io devo pensare al mio futuro e a mia figlia. Il Moro, non devo dimenticarlo, è un uomo di mare e come il mare è infido, traditore. Non le vedo intorno a me le donne dei marinai? Un figlio in pancia ogni volta che una nave arriva; poi a ogni partenza, sventolare di fazzoletti, lacrime e la fatica di tirare su i ragazzini da sole. Ah! con quanta ingenuità mi sono comportata e quanto alto è stato il prezzo che ho pagato. Dove sarà l'altra mia figlia? Che ne avrà fatto Sigismondo? Ma io riuscirò a trovarla, la cercherò fino a quando avrò fiato".
Mentre questi pensieri le passavano per la testa, Maria si muoveva efficiente per la stanza, controllando che la figlia si fosse addormentata, il lume fosse al minimo di olio per non infastidirla, sul comodino ci fossero la brocca dell'acqua e il rosario. Il marito, già a letto, la guardava muoversi con quel corpo che la maternità aveva arrotondato rendendolo ancora più attraente. La osservò togliersi il corsetto e sciogliersi i capelli mentre la sua bellezza nel chiarore soffuso della stanza lo soggiogava, quasi indispettendolo.
"Vieni a letto" le sussurrò, con quella voce da segreti appena mormorati che rivelava il suo desiderio.

Nella sua cabina il Moro si rivoltava, incapace di prendere sonno, imprecando contro il vento
che continuava a soffiare facendo aumentare il rollio del veliero, ben sapendo che era quella finestra da cui filtrava un accenno di chiarore, là, oltre i magazzini del porto, in quel vicolo stretto dove aveva rivisto Maria affacciata con la figlia alla finestra, che gli impediva di prendere sonno o, meglio, ciò che quella finestra proteggeva...
Conosceva quella stanza, quel letto a baldacchino dalle tende leggere e trasparenti che davano l'idea delle vele. E i ricordi, che gli impedivano di dormire, partivano da lì, da quelle bianche vele che in una notte d'estate avevano raccolto risate e sospiri che ancora gli bruciavano dentro e che non avrebbe mai più dimenticato. (continua...)

Amicizia e computer.

E bravo Bill, se n'è reso conto anche lui: una delle virtù della Rete, la possibilità di spaziare, diventa o potrebbe diventare uno dei suoi limiti. Oh, non per quanto concerne l'accesso alle informazioni, il travalicare tempo e spazio, ma per ciò che che ha a che fare con quella nebulosa, intricata questione che fa riferimento alle emozioni che, a loro volta, scaturiscono dai sentimenti o con questi s'intrecciano.
Diecimila richieste di amicizia! Be' lui, il destinatario delle richieste, è Bill Gates. Ma io, pensionata sul baratro della vecchiaia, un po' stralunata, sempre in difficoltà a smanettare in quella giungla di tasti e "bottoni" che mi risulta ancora incomprensibile, io che da donna, mentre mi aggiro per le vie della città risulto ormai completamente invisibile, un Fantomas in gonnella agli occhi degli uomini, ricevo quasi una richiesta d'amicizia al giorno.
Una richiesta d'amicizia? Abbiamo valutato il significato di questa frasetta alla quale diamo il via con un tic? L'amicizia è il più consolante, tenero, disinteressato, imputrescibile sentimento che la natura umana ci abbia dato da vivere...Su quale spalla abbiamo pianto quando abbiamo mollato quel vigliacco che ci aveva tradite affossando una storia, che avremmo giurato eterna, in un mare di bugie. Chi ci accetta, sempre, anche quando siamo pesanti come macigni e ripetitivi fino all'ossessione? Con chi abbiamo passato nottate a confidarci i reciproci segreti, il fumo delle sigarette che si faceva nebbia nella stanza, mentre esalava il suo profumo il caffè, caldo nelle tazze, e prendevano corpo i progetti? Eravamo giovani, intatte, ma l'amicizia è rimasta - forse ancora più forte - quando la vita ha dato, come un dinosauro risvegliatosi di colpo, i suoi tremendi colpi di coda. Non condividevamo più i progetti e le speranza, ma le delusioni e le ferite: eravamo disincantate ormai. Su tuttto, ma non sull'amicizia. Poi è arrivato lui, il pc, a parlare di un mondo irreale che chiamavano virtuale e...virtuale è diventata anche l'amicizia. Per molti, ma forse erano quelli che non l'avevano mai vissuta perché la sottoscritta, su centinaia di nomi che si allungano sui suoi web spazi, di amici ne ha trovati, in anni sul computer, solo due. Il terzo è in forse. Dovrei guardarlo negli occhi, davanti a una tazza di caffè per capirlo. Ma questo il pc non me lo concede: uno sguardo, un semplice sguardo, che a volte vale più delle parole, non rientra tra i suoi potentissimi programmi. E allora chiamiamoli contatti, che l'amicizia non è un sentimento con il quale si possa scherzare. E alle due amiche che ho trovato in Internet - preziose, come tutto ciò che è raro - mando il più tenero dei saluti.

martedì 28 luglio 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Il brusco passaggio dalla luce al buio gli snebbiò il cervello. Doveva calmarsi - pensò Sigismondo mentre, incespicando negli ostacoli che non riusciva a vedere, chiamava Teresina.
" Teresina, porta un lume...Teresina!"
Poco dopo la porta si spalancava e la ragazza, appoggiata la lampada sul tavolo, spariva con la stessa velocità con cui era apparsa, quasi il vento, che andava aumentando d'intensità, se la fosse portata via. Sigismondo, alzando gli occhi verso il Moro, gli chiese: "Allora, come sono andati gli affari?" aggiungendo, con una pausa significativa "Pensavo che non ti avrei più rivisto, e forse sarebbe stato meglio".
" Ho riportato la nave e ho salvato il carico. Siamo incappati in una brutta tempesta, una delle peggiori che io abbia mai visto". Parlava lentamente, studiando il suo ex padrone, conscio della pessima accoglienza che gli era stata riservata e di quel furore, appena trattenuto, che alterava il Veneziano. Maria aveva abbandonato la stanza troppo in fretta, senza nemmeno guardarlo e la servetta sembrava terrorizzata. Forse Sigismondo aveva saputo? Ma, in tal caso, sarebbe andato subito da lui e l'avrebbe passato a fil di spada davanti ai suoi uomini. Che idiota era! Attribuiva al suo vecchio padrone le reazioni che avrebbe avuto lui. Era l' avidità, il suo bisogno di denaro che gli gelavano le parole in bocca, permettendogli solo quelle battutine da educanda per fargli capire che sapeva, ma che avrebbe finto di non sapere. E, ora, nascondeva la sua vigliaccheria dietro all'arroganza, tentando di umiliarlo, tenendolo in piedi là davanti a lui, seduto, stravaccato sulla sedia, a incenerirlo con quello sguardo carico d'odio.
Lo fissò, cogliendo la pinguedine che lo appesantiva, il colore giallognolo di chi vive di notte, l'alone scuro degli occhi che brillavano di un eccitazione malata, frutto della rabbia che l'aveva assalito alla sua vista e non certamente di una vitalità, che era ben lontano dal possedere.
Anche il Veneziano, lo studiava pensando:" Ci sei arrivato, finalmente, diavolo di un nero, che nemmeno i tuoi compari dell'inferno ti hanno voluto...Hai capito che so. Hai paura? Non si direbbe a guardarti. E allora perché non ti fai sotto, perché non reagisci alle mie provocazioni? Cosa pensi di fare?"
Ma, quando aprì la bocca per parlare, disse soltanto" Be', sei qui. Ora sono stanchissimo, Ti aspetto domani al magazzino" e, effettivamente, appariva provato, mentre con un ultimo gesto di spregio indicava la porta all'uomo, sussurrando: "Non ti trattengo oltre" e il Moro, che era rimasto immobile, quasi pietrificato fino a quel momento, dopo un'ultimo sguardo, che sanciva una tregua stabilita dai bisogni, di denaro del Veneziano, di quella donna che aveva invano tentato di dimenticare nelle bettole e nei bordelli di ogni porto, infilava la porta lasciando il Veneziano in compagnia dei suoi pensieri e dell'urlo del vento che si abbatteva con violenza sulla casa, quasi tentasse di sradicarla facendola volare nel cielo cupo dove fredde brillavano le stelle. (continua...)

lunedì 27 luglio 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Il Moro, l'andatura elastica e sicura, entrò, fece qualche passo, accennò, piegando il tronco mentre le palpebre si abbassavano a nascondere il suo sguardo, un saluto in direzione di Maria e poi, la mano appoggiata sull'impugnatura del pugnale infilato nella cintura di seta rossa, si voltò verso Sigismondo che, ostentatamente, né si alzava, né lo invitava a sedersi, lasciandolo lì, in piedi impalato, come un servo. Sulla stanza calò il silenzio che Teresina infranse borbottando:" Vado in cucina..." mentre Maria si alzava e, rivolta ai due uomini, diceva: "Vi lascio ai vostri discorsi d'affari" aggiungendo, con un accenno di sorriso, "Avrete molte cose di cui parlare". Quindi, con un breve cenno formale in direzione del Moro che, a sua volta, chinato leggermente il capo in risposta si scostava per farla uscire dalla stanza, sussurrava "Bentornato a Trieste!" prima di chiudersi la porta alle spalle.
" Ma che bel minuetto!" borbottò sarcastico Sigismondo, versandosi da bere. Il Moro, davanti a lui, non muoveva un muscolo. In attesa. Il padrone di casa si agitò sulla seggiola, a disagio.
Quel traditore del Moro, convinto che ignorasse ciò che era accaduto, era tornato, aveva osato tornare e presentarsi a casa sua - pensò mentre, scrutandone il volto, aveva la fugace impressione di scorgere una scintilla d'ironia nello sguardo dell'uomo che, apparentemente, non denotava il minimo disagio per l'insolenza di cui il Veneziano lo faceva oggetto. Sentimenti contrastanti s'incrociavano scontrandosi dentro di lui, mentre le mani gli tremavano tradendo più che l'intensità delle sue emozioni, l'incapacità di una scelta chiara e decisa alla quale ispirare il suo comportamento. Era già stato informato - le chiacchiere volavano come il vento di bocca in bocca nell'ambiente del porto - di quel carico che riempiva la stiva e che, venduto, avrebbe risolto tutti i suoi guai con i creditori, che lo tormentavano come mosche con il ronzio fastidioso e continuo delle loro richieste. Ma il desiderio di vendicare il suo onore ferito gli mordeva l'anima e ora, ora che se lo trovava finalmente di fronte, la rabbia gli saliva al cervello, offuscandoglielo. Lo sguardo gli cadde sul pugnale che il Moro teneva infilato nella fusciacca e sulla mano che si appoggiava - o stringeva? - l'impugnatura. Lui era disarmato! E se l'altro avesse voluto...?
Sentì che il sudore gli imperlava la fronte. Incrociò, cercando di leggervi dentro i pensieri e le emozioni, lo sguardo dell'altro, ma Il Moro non si muoveva, limitandosi a seguire i suoi movimenti, il volto che sembrava privo d'espressione.
Poi, Sigismondo si alzò: lentamente. Fuori il vento aveva cominciato a soffiare. Un refolo, infilatosi nella stanza da qualche fessura, spense il lume, precipitando il locale nel buio. (continua...)

domenica 26 luglio 2009

Lettera a una donna geniale

Mia cara B... (con il giusto rispetto della privacy) ho cominciato a conoscerti leggendo il tuo libro e andando a curiosare sul tuo blog, già sprangato come un portone chiuso e che, pur consentendo ancora la lettura dei tuoi post, già rimandava a un altro luogo della vasta blogosfera, dove la tua presenza era, però, vaga, quasi fantasmatica. Il tuo libro mi aveva sconvolta in tutti i sensi: non soltanto per la crudeltà, l'orrore, l'incubo che raccontava e così efficacemente descriveva - la guerra si sa non è argomento per stomaci delicati - ma anche, e soprattutto, per la qualità della tua scrittura, che poteva piacere o meno ma era Scrittura: forte, esasperata, martellante, greve da non scendere nella strozza ma anche aerea e struggente come una terra che, allontanandosi, si facesse profilo sempre più esile sulla linea dell'orizzonte, lacerandosi da noi. Sei apparsa, hai brillato - luminosa, scintillante come un fuoco d'artificio in una notte estiva - sei scomparsa. Perché? Potrebbe essere stata una tua scelta, ma una persona che la scrittura se la porta nelle pelle, se la strappa dalle budella, se la sente gorgogliare in gola come rosolio, non rinuncia a scrivere e, inoltre, non rinuncia a farsi leggere, perché si scrive per essere letti, i manoscritti nei cassetti sono come le perle non indossate: muoiono.
Ti sei ricordata, quando il successo ti ha baciata di essere una donna? Hai fatto tesoro degli insegnamenti di tua madre? Te la sei ripetuta la sua esortazione alla modestia, alla ritrosia. Hai saputo arrossire al momento giusto, parlare a voce bassa, lasciare agli altri, uomini di esperienza e - prepotenza dici? - la parola? Hai creduto, per un attimo, che il successo e la genialità in una donna fossero dolci come il miele d'acacia e avessero la stessa valenza che hanno per un uomo. E sì che mamma e babbo ti hanno fatta studiare: le donne, se e quando scoprivano un erba che aiutava a partorire, non venivano premiate: venivano bruciate. Capisco, l'avevi scordato pensando che il mondo, la società fossero cambiati. La Levi Montalcini? Eccezionale! purtroppo, e quindi adatta a confermare la regola, che altro non è se non il più bieco piattume. Avresti dovuto guardarti intorno: nei luoghi dell'esercizio del potere non ci sono donne - al G8 dici? - se non, appunto, stavo per arrivarci, a dare un tocco di classe, ma leggero mi raccomando: molti sorrisi e poche parole, poiché è sempre preferibile per una donna sposare un uomo di successo, che averlo il successo. E' dello stesso avviso il nostro illuminato premier che suggerisce alle belle ragazze italiane, per superare la crisi, non di studiare e specializzarsi, ma di sposare un uomo ricco come il suo splendido rampollo, tale Piersilvio. Ascoltate la mamma ragazze e, se avete avuto la sfortuna di nascere un po' troppo sveglie, fingetevi tonte: la genialità sulle labbra di una donna non è miele. E' fiele.

sabato 25 luglio 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Nella sala da pranzo dei Dellapicca, le prime ombre della sera danzavano sulla tovaglia prima di acquattarsi negli angoli, in silenziosa attesa.
Sigismondo mangiava svogliatamente e Maria, davanti a lui, lo osservava incredula chiedendosi come fosse possibile che non avesse saputo dell'arrivo della Capinera. Oppure ne era a conoscenza, ma stava archittettando qualcosa? e, mentre questi pensieri le attraversavano la mente, lasciava scorrere lo sguardo su quel volto maschile dalla bocca rapace e dalle guance molli e gonfie che ne lasciavano intuire l'avidità e la debolezza. Con il passare degli anni, aveva perso, a contatto con la gente del porto, anche quella patina formale di raffinatezza che l'ambiente dal quale proveniva gli aveva dato e, ora, trasudavano dai gesti e dagli sguardi la noia, il disincanto velato di cinismo e la mancanza d'iniziativa e interessi. Tutto lo infastidiva a esclusione di quel suo, sempre più stanco, rincorrere le femmine e sedere al tavolo da gioco, le carte in mano, il tacco della scarpa che, quando s'intestardiva a perdere, picchiava sul pavimento con un gesto che ne denunciava la mai superata arroganza.
Perchè non diceva nulla? Cosa aveva intenzione di fare? La gola strozzata, Maria cercava di darsi un contegno, mentre Teresina le lanciava occhiate sgomente, alludendo con il mento al padrone, il viso tondo di ragazzina che assumeva un'espressione interrogativa. Il silenzio gravava sulla stanza, rotto soltanto dal tintinnio delle posate. Nella mente di Maria il ricordo di due notti: quella delle nozze, con Sigismondo addormentato, senza una parola, una carezza, il peso di quel corpo estraneo che la opprimeva e, poi, l'altra, quella rubata... Il marito partito per un viaggio d'affari, e il Moro a cena. Avevano parlato tutta la notte: lui le aveva raccontato dei tramonti sul mare quando nello spazio fugace in cui la notte scaccia il giorno l'aria si riempie di sussurri e le donne pesce cantano. Pur avendo percorso tutti i mari e visto tutti i paesi, quell'uomo ricordava soprattutto i giardini della sua terra e il loro profumo in notti in cui lo scirocco non faceva dormire e la mente, stanca, partoriva sogni o incubi. L'aveva amata con una passionalità sconcertante...
Un rumore attraversò l'aria, spezzando il silenzio, scacciando i ricordi. Qualcuno aveva bussato al portone d'ingresso. Maria vide raggrinzirsi il volto del marito, mentre il cuore le balzava nel petto e il suo viso sbiancava. Poi un rumore di passi lungo il corridoio, la porta che si apriva e Teresina che, balbettante, annunciava il Moro che, alle su spalle, sfumava indistinto come un fantasma nell'oscurità del corridoio.

venerdì 24 luglio 2009

Romanzo a puntate e carica dei "101"

Ricordo le solite frasi fatte degli insegnanti (anche perché ho fatto parte della categoria) del tipo "I ragazzi di oggi non scrivono più...", "oggi usano soltanto il telefono per comunicare, noi invece..". Poi la tecnologia innestò il turbo e la nostra vita cambiò. Arrivò il pc e quei ragazzi, che non sapevano tenere una penna in mano né, secondo noi insegnanti, leggere, ci costrinsero per l'ennesima volta a prendere atto dell'ottusità rassicurante delle generalizzazioni. Cominciarono infatti a scrivere e molti tra loro rivelarono doti notevoli. Fiorirono i blog che, come ben sappiamo, non sono soltanto bla, bla, bla.
Scrissero racconti, romanzi. La narrativa di tipo onnicomprensivo si diversificò, anche formalmente, nei generi letterari. Scrivere decentemente su un blog non è facilissimo: è necessario essere sintetici, chiari nonché corretti, interessanti, esaurienti, preparati, capaci di reggere il confronto dialettico imposto dai commenti, appassionati e, perché no, un tantino ironici. Be', molti di loro, scrivi che ti scrivi, si scoprirono aspiranti scrittori e, manoscritti sotto il braccio (o chiavetta USB in tasca) decisero di affrontare quel girone dell'inferno che è il mondo dell'editoria, che non è diverso dal resto del mondo. Manco per nulla! E', come ogni settore oggi, finalizzato soprattutto al guadagno e quindi un po' miope, o soltanto disinteressato a cogliere specificità interessanti e originalità che, in quanto tali, risultino nuove e/o di rottura. Meglio andare sul sicuro e non rischiare i propri soldi.
Ma "i nostri", che sono giovani, giustamente arroganti, pieni di forza, di idee, che sono una carica dei "101", non disposta a farsi sbattere una porta in faccia, girare i tacchi e andarsene con la coda tra le gambe, hanno aggirato o, perlomeno, tentato di aggirare l'ostacolo. Questi non soltanto le pensano tutte, ma utilizzano, al meglio e con originalità, gli strumenti informatici, che fanno ormai parte del loro mondo e della loro cultura. Mescolando Balzac (chino a scrivere la puntata di uno dei suoi romanzi nell'alone di luce tremolante di un lume, per tacitare i creditori) alla tecnologia più sofisticata, bypassano con la loro vitalità, fantasia e creatività l'ostacolo di un'editoria ferma, incancrenita e stantia . In che modo? Raggiungendo il lettore direttamente, senza intermediazioni: il romanzo lo si legge su un blog, si riceve per posta oppure sul telefonino mentre, appesi ai sostegni del tram, si sta andando al lavoro: direttamente dal produttore al consumatore.
E, a proposito di Balzac, hanno rispolverato anche il romanzo a puntate, carico di colpi di scena o romanzo popolare a tutti gli effetti.
La sottoscritta ne sta scrivendo uno che, iniziato per esplorare un'altra modalità di comunicazione scritta romanzata, si sta rivelando per me molto interessante per i problemi che mi costringe a affrontare, ma anche molto divertente. Anche se la mia età anagrafica mi colloca nella terza età, e quindi fuori dalla mischia, la scoperta della scrittura mi ha caricata dello stesso entusiasmo di questi ragazzi, dei quali seguo con passione e interesse il percorso, curiosa di vedere ciò che riusciranno a combinare perché loro hanno già un piede là dove io non camminerò mai...Loro sono già il nostro futuro.
Con voi ragazzi mi piacerebbe confrontarmi. Vi aspetto.

Romanzo a puntate I Dellapicca

Borbottando tra sé e sé, l'uomo camminava veloce lungo la stretta via del ghetto, gettando rapidi sguardi alle sue spalle, quasi temesse di essere seguito. Alzato lo sguardo, identificò la casa che cercava e bussò, rispondendo a bassa voce a chi, dall'interno, chiedeva chi fosse.
" Sono Amos, aprite: ho una notizia urgente per il Rabbi".
La porta si schiuse e una donna lo accompagnò fino allo studio dove, dopo aver bussato, venne fatto entrare.
" Felice di rivedervi, so che siete appena arrivato in città " e, dopo una misurata pausa, il vecchio concluse "con la Capinera".
" Vi porto il Moro su un piatto d'argento, anzi, a voler considerare la mercanzia che contiene la stiva della sua nave e che il sottoscritto ha inventariato, d'oro", rispose l'altro, agitandosi a disagio sotto lo sguardo del Rabbi.
" Il Moro è tornato di sua volontà: sappiamo - da uomini - quanto potente possa essere il richiamo esercitato da una donna...Non ha fatto la scelta migliore, ma la più prevedibile si! E, ora, spiegatemi il motivo della vostra visita, a un'ora così insolita".
" C'è un compenso..."
" Per che cosa?"
" Io so molte cose sul Moro".
E il giovane Amos tacque, saggiando l'effetto delle parole appena pronunciate sull'altro, ma il Rabbi, del tutto indifferente, sembrava interessato soltanto all'alone dorato che il lume disegnava sulla scrivania.
" Non vi interessa sapere che..." e la voce di Amos, che stava salendo d'intensità, assunse un timbro acuto e sgradevole che sembrò infastidire il vecchio, inducendolo a intervenire interrompendo l'altro, mentre accompagnava le sue parole con un gesto inequivocabile di commiato.
" Ho il Moro, ho la mercanzia. Mi mancano, in questo momento, solamente il silenzio e l'isolamento necessari per le mie preghiere".
Amos uscì borbottando dalla stanza dietro a quella figura di donna che si era materializzata nel buio e che lo condusse alla porta, accomiatandosi con un " Portate i miei saluti a vostra madre. Sarà felice di rivedervi" e, mentre già si chiudeva il portoncino,
" Bentornato in città e che il Signore vi protegga".
L'uomo, stizzito, borbottando qualcosa tra i denti, a lunghi passi nervosi, girò all'angolo allontanandosi lungo le vie del ghetto, mentre quel pensiero " Mi vendicherò" gli attraversava il cervello tanto da impedirgli di notare la donna chegli veniva incontro lungo la strada.
" Bentornato Amos "
" Scusatemi Yael, non vi avevo vista" e, pronunciando queste parole, lo sguardo gli cadde sulla bambina che la donna portava in braccio. Osservò stupito il contrasto tra gli occhi azzurri e le caratteristiche negroidi che conferivano una bellezza tutta particolare alla creatura che si nascose, intimidita, tra le braccia della madre.
" Che splendida figlia..." borbottò, mentre la donna, salutandolo, gli rispondeva:
" Il Signore è stato generoso con me", allontanandosi in fretta e stringendosi addosso la bambina quasi a volerla proteggere da un immaginario pericolo.

giovedì 23 luglio 2009

Nomen omen

Era superstiziosa e nello sguardo che si fissava insolente sull'interlocutore affiorava spesso una muta domanda, come se l'essenza ultima delle cose le sfuggisse, oppure percepisse il sapore del mistero nel mondo che la circondava. Senza un briciolo di mistero vivere sarebbe stato troppo difficile: l'imponderabile concatenarsi di una serie di circostanze insensibili al suo controllo avrebbe potuto fare fallire qualunque sua iniziativa o, esporla, brutalmente e suo malgrado a un impensabile successo...Quindi quel suo senso del mistero, il suo riferirsi a un arcano incomprensibile le permetteva di non assumersi mai la totale responsabilità di ciò che faceva. Aveva iniziato a scrivere con quel cognome importante, assurdo, che molti, quasi a alleggerirlo, pronunciavano con l'accento sulla prima sillaba mentre lei, pazientemente rettificava, pronunciandolo con l'accento sulla seconda sillaba. Si sprecavano le domande idiote nelle quali veniva tirato in ballo l'autore dell'Iliade e dell'Odissea. A scuola aveva dovuto sopportare ironie pesanti, mentre fioccavano altre domande senza senso sull'origine della famiglia e lei sentiva che quel cognome non le era stata assegnato dal caso. Nomen omen, un destino già segnato? Quanto a fantasia non le mancava certo, ma, a dirla tutta, fino a quel momento le aveva causato incredibili guai, dovuti alla sua marcatissima sbadataggine che le aveva complicato a dismisura la vita. Sua madre, nel tentativo di renderla meno svagata le aveva imposto studi tecnici e una laurea in Economia e Commercio che, nonostante fosse stata conseguita nei tempi regolamentari, non aveva ottenuto i risultati sperati. Lei era nata per raccontare storie e la vita l'aveva portata per mano, attraverso svolte apparentemente casuali, a quel bivio. Aveva svoltato a destra - e sì che era sempre stata di sinistra! - e era finita tra le braccia della Scrittura, come un morto di sonno in grembo a Orfeo.
E, ora, viveva per scrivere, anche se - grazie alla mamma! - non scriveva per vivere.
"Omero?"
"Sono io" rispose e gli occhi pesti le brillarono, curiosi, nel grigiore indistinto di quella giornata invernale.

mercoledì 22 luglio 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Sul ponte di comando, il cuore che gli caracollava nel petto come un puledro selvaggio, il Moro vedeva avvicinarsi la costa. Ora riusciva a distinguere anche il formicaio di uomini in movimento che animava il porto e dietro, oltre i magazzini, le prime case e quella un po' squadrata, vecchiotta, certamente non un palazzo, che era l'unica che il suo sguardo, con la sotterranea assurda paura di non trovarla, cercava. Perché mai? Le case, a differenza delle persone, non si spostano, né - normalmente - scompaiono e, mentre questo pensiero gli attraversava la mente, un sorriso attenuò la durezza abituale del suo volto dai lineamenti decisi. Intanto, le funi lanciate verso terra venivano afferrate per ancorare la nave al molo, mentre la scaletta scendeva e il Moro, seguito dal passeggero, rimetteva finalmente i piedi sulla terraferma, la camminata incerta tipica dei marinai. Circondato dalla gente del porto, che lo salutava calorosamente, le domande che s'intrecciavano nell'aria, il Moro non dava risposte limitandosi a cenni di saluto, grandi sorrisi e manate sulle spalle mentre, deciso, si faceva largo tra la folla, dirigendosi verso l'osteria che dava sul porto, seguito dalla gente e dall'amico, che sceso con lui, ora, dopo averlo ringraziato e salutato con enfasi, si stava allontanando in gran fretta nella direzione del ghetto ebraico.
Entrato nella taverna, il Moro ordinò da bere per tutti, scatenando l'entusiasmo generale; poi, nella baraonda che si era creata, brindando con un marinaio che conosceva bene, chiese, con apparente indifferenza:" Il mio socio, come sta? Avete notizie sue e... della moglie?" " E' diventato padre di una bambina. Dicono che sia bella come la madre...Eh, il Veneziano, che Dio se lo pigli, ci ha rubato..." ma il Moro, interrompendolo, quasi pensasse ad alta voce:" Ah! E' diventato padre", disse. Quindi, quasi esitando "Che età ha la bambina?" chiese. Il marinaio assunse un'aria perplessa, mentre il banconiere interveniva dicendo "Ha compiuto due anni: é proprio uno splendore, anche perché suo padre non bada a spese e la tratta come una principessa. Mi auguro che gli affari siano andati bene, perché il vostro socio é pieno di debiti e tiene a bada i creditori con la promessa di pagarli all'arrivo della nave. Si dice che abbia ottenuto credito dando in pegno la mercanzia che avrebbe dovuto riempire la stiva della Capinera".
Il Moro ascoltava in silenzio, la confusione intorno a lui che aumentava di minuto in minuto, mentre si faceva riempire più volte il bicchiere fino all'orlo scolandolo sempre tutto d'un fiato. Quindi, gettate alcune monete sul banco, il gigantesco nero si diresse verso la porta del locale, aprendosi un varco tra la folla che, attratta dalla prospettiva di bere gratuitamente, aveva ormai riempito il locale. A fatica riuscì a guadagnare l'uscita, scrollandosi di dosso gli ultimi seccatori. Pochi istanti dopo, barcollando leggermente, un'espressione indecifrabile sul volto, risaliva sulla passerella e, vestito, si gettava sulla branda, addormentandosi pesantemente.
Dalle finestre delle case intorno al porto, incurisite dal rumore che proveniva dall'esterno, si affacciavano delle donne, sporgendosi a guardare. Deve essere appena arrivata una nave - pensò una di loro, sentendo un brivido scorrerle lungo la schiena. Riusciva a scorgere i pennoni più alti delle navi in porto e aguzzando lo sguardo intravide una bandiera: nera in campo color oro, una capinera sembrava pronta a spiccare il volo. Oh, mio Dio! Il Moro era tornato! - sussurrò, mentre uno scalpiccio rompeva il silenzio del corridoio e Teresina entrava senza bussare, le mani bagnate che stropicciavano il grembiule.
" E' arrivata la Ca...." ma Maria l'interruppe con un secco "Lo so! " chiudendo la finestra con un gesto secco, quasi tentasse di proteggere la sua casa e la sua vita da quel veliero che, inquietante come un vascello fantasma, riappariva all'orizzonte con quel diavolo nero che, sfuggendo alle molte insidie del mare, l'aveva riportato a casa, quando lei ormai sperava che fosse colato a picco nella profondità degli abissi.
Teresina, facendosi il segno della croce, mormorò: "Cosa succederà?", ma la padrona, raddrizzando le spalle le rispose: "In qualche modo ce la caveremo" mentre il suo bellissimo viso, ormai un intenso volto di donna, assumeva quell'aria volitiva che tanto indispettiva il marito il quale, al contrario, si lasciava andare a un'apatia che gli spegneva lo sguardo e gli appesantiva il corpo, dando di lui l'impressione di un uomo già anziano, più padre che marito della giovane moglie.

domenica 19 luglio 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

La Capinera risaliva l'Adriatico e tra il Moro e Geremia, l'ebreo sefardita imbarcato a Salonicco, lo scambio verbale scontato dei primi giorni si arricchiva di considerazioni personali mentre, nelle lunghe sere passate davanti a una bottiglia di vino, i due uomini si lasciavano andare a confidenze sempre più intime e personali. Avevano in comune, al di là della differenza di razza e religione, vite difficili che li avevano resi attenti e pronti a cogliere il pericolo, astuti e abili a trarsi d'impiccio nelle situazioni difficili. Geremia, che in realtà si chiamava Amos, non aveva fatto cenno a quell'incarico che l'anziano più autorevole del ghetto triestino, il vecchio Gospez, aveva fatto circolare di bocca in bocca, rendendolo alettante con un compenso in denaro non disprezzabile, e che invitava tutti gli ebrei a drizzare le orecchie e aguzzare la vista per stanare e riportare a Trieste dal suo ex padrone un nero, sulla cui forza e audacia si favoleggiava, che veniva chiamato "Il Moro" così come il suo padrone, ora socio, era ormai conosciuto da tutti come "Il Veneziano". Geremia tentava di tenere sotto controllo la situazione nel tentativo di percepire un compenso - senza avere in realtà fatto nulla - dal rabbino, ma anche di dare una mano al Moro che aveva deciso di tornare a Trieste soprattutto per rivedere Maria, con la speranza di indurla a seguirlo, abbandonando il marito.
Geremia che, rimasto vedovo con una figlia piccola affidata alle cure della nonna, conosceva il dolore per la perdita della propria donna, diffidava, però, di quella storia che non lo convinceva affatto e tentava - invano - di indurre l'amico a togliersi quella donna dalla testa. "Mai sposare una femmina troppo bella" gli aveva detto, aggiungendo "lascia che se la tenga il marito...Di notte tutte le gatte son bigie, sono altre le doti che deve possedere una moglie..." ma il Moro, guardandolo ridendo, gli rispondeva:" Questa gatta non è come le altre, la distinguerei tra mille e nella notte più nera" e lo sguardo degli occhi scurissimi si addolciva. Geremia, sentendo un brivido percorrergli la schiena, borbottando un saluto si alzava e se ne andava a dormire. Allora il Moro, insonne, andava sul ponte di comando a scrutare il mare, lo sguardo che inseguiva i ricordi mentre, come un animale selvaggio costretto in gabbia, lo percorreva in lungo e in largo, gli occhi che nell'oscurità brillavano di desiderio e impazienza. Ma un mattino, cogliendo qualcosa in lontananza, un tremolio lontano di luci, che non era il riflesso delle ultime stelle che sbiadivano in cielo specchiandosi nell'acqua, afferrò il cannocchiale: sulla superficie del mare si alzava la linea morbida e sinuosa della terraferma e, mentre l'emozione che ogni uomo di mare prova nello scorgerla lo prendeva alla gola, dietro a lui qualcuno gridava " Trieste all'orizzonte, siamo a casa, siamo a casa!" e la Capinera sembrava mettere le ali. Il sole nascente illuminava la costa che appariva sempre più nitidamente. Affioravano incerti i contorni dei palazzi e i riflessi di sole sulle vetrate mandavano lampi di luce, mentre il Moro dava ordine ai marinai che, veloci come gatti, si arrampicavano obbedendo, d'imbrigliare le vele, sottraendole al sospiro del borin, per manovrare meglio la Capinera nella fase di attracco al molo.

sabato 18 luglio 2009

L'Italia non è un Paese normale

Era nato nel 1940, oggi avrebbe compiuto sessantanove anni il giudice Paolo Borsellino. Forse li avrebbe festeggiati in famiglia, con la moglie, con i figli, l'immancabile sigaretta accesa tra le dita. Sarebbe stato sufficiente farsi spostare in qualche ufficio tranquillo a occuparsi di immigrati e lasciar perdere la mafia e il fumo. E invece ha continuato a fumare, per tenere a bada la paura, l'angoscia per quel botto che sapeva sarebbe arrivato, per scacciare dalla mente quelle macchine accartocciate, il sangue sui corpi a brandelli...E il dolore che si tinge di rabbia.

Paura, dolore e rabbia, una mescolanza di sentimenti che quel suo sguardo esprimeva, perché il giudice Borsellino era un uomo normale che voleva soltanto alzarsi al mattino, prendere il caffè e fare due chiacchiere con il barista prima di andare in ufficio. Impegnarsi nel proprio lavoro, assaporando l'orgoglio di chi lavora bene. E, nelle sere chiare e assolate in quella sua Palermo carica di Storia e bellezza, tornarsene a casa, i ragazzini che non rispettano la stanchezza, la moglie che ride nella cucina che sa di basilico fresco. Era un uomo normale il giudice Paolo Borsellino inserito in un contesto che di normale non aveva e non ha nulla.

Come il suo amico e collega, il giudice Giovanni Falcone, voleva un Paese normale. Per questo
motivo sono stati assassinati. Mandanti sconosciuti! Come normalmente avviene nel nostro Paese.

Romanzo a puntate I Dellapicca.

La Capinera, le vele gonfie di vento, si allontanava da Salonicco. All'orizzonte, mare e cielo si fondevano senza soluzione di continuità in un azzurro acceso dando la sensazione, che mozzava il fiato, di poter essere risucchiati, in ogni momento, in un gorgo turchino.
Il Moro respirava quell'odore aspro di mare fissando le onde, i ricordi che arrivavano a folate. La stiva scoppiava di merce e l'equipaggio lo venerava. Per un istante un sorriso addolcì il suo volto massiccio, mentre ricordava come fosse riuscito, con pochi danni, a salvarsi da una tempesta che si era ingoiata velieri ben più attrezzati della Capinera. Imbrigliate le vele, si era fatto legare al timone e aveva affrontato quelle onde gigantesche senza mostrare il minimo timore. I marinai, terrorizzati, gli avevano detto di aver provato la sensazione di assistere a una battaglia all'ultimo sangue tra un dio, nero come la notte, e un mare pazzo di vento e tempesta. Da quel momento, in cui la sua prestanza fisica e la sua forza si erano fuse con il coraggio, ogni suo atto aveva acquisito un'autorevolezza che nessuno avrebbe più osato porre in discussione. Ora sapeva cosa avrebbe dovuto e potuto fare: vendere la merce e sparire in quel vasto mare che era il suo mondo, con la nave e l'equipaggio che l'avrebbero seguito ovunque. Anche all'inferno. Nei confronti di chi avrebbe dovuto avere degli scrupoli? Del Veneziano? Erano pari, non gli doveva più nulla. Ma che ne sarebbe stato di Maria? Come un cristallo di pregio, anche lui aveva un punto di rottura e era quella donna. Mettere tra loro miglia e miglia di mare non era servito a nulla. Anzi! La lontananza, concedendo alla fantasia di volare libera dal confronto con la realtà, aveva circonfuso di una luce irreale l'immagine di lei che si portava dentro. Doveva rivederla, parlarle, sapere cosa volesse e, soprattutto, cosa l'avesse spinta a tradire il marito. Forse lo amava e aveva già intuito la superficialità e l'arroganza celate sotto quella patina di eleganza e raffinatezza formale del marito?
Viaggiatore, sperso nel deserto della sua solitudine, il Moro intravide un miraggio, e su quell'immagine, nata dai suoi bisogni, diresse la sua nave. E la sua vita.
"Si torna a casa" tuonò, facendo esplodere la ciurma in un urlo di gioia che percorse la nave in lungo e in largo. Distolto dal suo lavoro, il viaggiatore conosciuto a Salonicco, che nella stiva stava inventariando la mercanzia, sollevò il capo e poi, intuendo il motivo di quel'allegria, ridacchiò, riprendendo, serio, il proprio lavoro. (continua...)

venerdì 17 luglio 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca.

Il sole calante accendeva il mare e una brezza leggera faceva dondolare i velieri. Salivano e scendevano balle di stoffa, sacchi e cesti lungo le scalette traballanti che univano le navi ai moli. Pile di mercanzia si alzavano e altre decrescevano ai piedi delle navi e nelle stive. Le urla dei marinai e degli scaricatori fendevano l'aria, mescolandosi allo sciabordio dell'acqua, al rumore delle catene delle ancore, allo schioccare secco del cordame che si avviluppava su se stesso. Nelle pieghe del vento, sussurravano aspri o dolci lingue e dialetti del Mediterraneo e dell'Egeo. Il Moro, seduto davanti al bancone di una delle osterie del porto sorseggiava il vino forte e dolce di Salonicco, affacciandosi ogni tanto a controllare la sua nave. La Capinera era ormai la sua casa e soltanto in mare aperto, la faccia offerta al sole e al vento, si attenuava il ricordo di Maria, quel desiderio di lei che lo aveva indotto a partire, nel tentativo di fuggire da se stesso, dai suoi pensieri che, ossessivi, lo riportavano sempre lì, a quella donna dalla pelle chiara e morbida come la seta, a quelle poche ore in cui l'aveva avuta... e ancora sentiva - indelebile nel ricordo - quella sua risata di gola, piena e tintinnante come una cascata di monete d'argento. La ricordava al ballo di Carnevale, tra le braccia del Veneziano: per la prima volta aveva parlato con lei, accompagnandola a casa, in quella notte che aveva cambiato la sua vita.
"Siete il comandante della Capinera?" La voce dell'uomo accanto a lui lo distolse dai suoi pensieri.
"Sì" rispose, voltandosi .
"Gran bella nave" continuò il suo vicino, aggiungendo "Da dove venite?"
"Da Trieste" rispose il Moro.
"Il mondo è piccolo: sono di Trieste anch'io" rispose l'uomo, ordinando da bere per tutti e due.
"Quando avreste intenzione di ripartire?"
"Domani mattina, alle prime luci dell'alba".
"Io devo tornare a Trieste..." disse l'uomo e il Moro, alzandosi un po' barcollante, gli sussurrò "Siete fortunato! Ormai ho la stiva piena di merce, torno a Trieste anch'io".
"Benissimo! Affare fatto e...quanto mi costerà?"
Il Moro sorridendo gli rispose:"Dipenderà da ciò che sarete disposto a fare a bordo" e, osservandolo pensieroso, aggiunse "Sapete scrivere?"
L'altro fece un cenno d'assenso con la testa.
"Allora mi catalogherete la merce".
Poi, assestandogli una manata sulla spalla, lo invitò a seguirlo.
Negli occhi dell'uomo passò un lampo d'ironia, mentre un sorrisetto gli incurvava le labbra sottili e ben disegnate, ma il Moro era troppo ubriaco per cogliere questi particolari e, traballando, mentre una melodia simile a una nenia gli saliva alle labbra, precedette l'uomo uscendo dalla taverna. Pochi minuti dopo si ritrovavano entrambi ai piedi della scaletta della Capinera, le prime ombre della sera che annunciavano l'oscurità di una notte senza stelle. (continua...)

giovedì 16 luglio 2009

La blogsfera non ha bisogno di paletti.

Era una giornata d'inverno. La nebbia, che si annidava in ogni angolo di quella casa ancora estranea, aveva il gusto aspro della solitudine. I figli lontani, il compagno altrove, il lavoro spazzato via dal pensionamento.
La sua vita si era impantanata, girando a vuoto in un mare di fango...Le sembrava di affondare in quel fango. Ogni giorno un po' di più. Tra capo e collo una diagnosi medica infausta a darle il colpo di grazia. La depressione l'aggrediva.
In cantina ancora scatoloni imballati.
La gatta, che dalla finestra si era lanciata a cercare un po' di vita, era ruzzolata attraverso un vetro rotto nella sua cantina e da lì, miagolando spaventata, aveva comunicato la sua posizione, nonché la sua disperazione. Sbuffando era scesa a recuperarla mentre, soffiando inferocita, non si decideva a scendere da una pila di scatoloni.
Sul più alto risaltava quella scritta a pennarello: computer.
Era il vecchio computer di suo figlio che aveva maldestramente imparato a usare e che, come un salvagente lanciato a un naufrago dall'alto di una nave, avanzava verso di lei.
L'aveva afferrato.
Il giorno successivo era già a picchiare sui tasti.
Quando aveva deciso di aprire un blog?
Quando e come aveva incominciato a risalire la china? Quando il tempo, non più sgranarsi vuoto di ore, era diventato ricchezza a cui attingere per fare ciò che non aveva mai potuto fare? Aveva scoperto una persona che non sapeva esistesse, le sue passioni, le sconosciute potenzialità, cominciando a comunicare, a confrontarsi. La Rete, a differenza del mondo fuori, ascoltava anche la sua voce, incurante degli anni che l'avevano rinserrata nella prigione senza scampo delle sue rughe. Il suo contributo, se valido, s'incanalava in un fiume di esperienze e conoscenze che s'ingrossava, si sviluppava dando origine a quella intelligenza connettiva e collettiva che già coglieva in quei nativi del web che erano i suoi nipoti e che intuiva sarebbe diventata la porta d'accesso a un altro mondo. Si sbriciolava un confine, lo sguardo abbracciava spazi inimmaginabili che la dimensione virtuale le metteva a disposizione. Lei, donna che per una vita aveva lottato per conquistare brandelli di libertà, andava a briglia sciolta nella blogsfera: una sensazione esaltante che invalidava gli abituali concetti del tempo e dello spazio.
Erano queste sconfinate praterie dell'informazione e del sapere, nate dal popolo del Web, che facevano paura? Così sembrava. Un esercito di omini piccoli piccoli era già pronto a piantare paletti, alzare recinzioni, costruire muri. Ma il mondo non aveva bisogno di muri, aveva bisogno di libertà: come lei! La blogsfera l'aveva salvata, imbrigliando anche la sua malattia che, davanti all'entusiasmo e alla forza che la scrittura le aveva dato, si era rintanata in un angolo, assopendosi. Mentre digitava quelle tre parole che erano diventate una bandiera, un modo di riconoscersi tra simili, un largo sorriso le illuminò il volto. "Yes, we can " scrisse. La nebbia si sfaceva, leggera, sotto un pallido sole invernale.

mercoledì 15 luglio 2009

Essere donna è...

Essere donna è camminare sulla strada della vita con le scarpe strette. Le ricordo quelle scarpe di vernice nera, a punta e con i tacchi a stiletto: avevo sedici anni e era il mio primo festino. Ballavo impacciatissima, Mina cantava "questo soffitto viola, no, non esiste più..." e io controllavo l'orologio. Alle nove a casa, si raccomandava mia madre. E io cercavo di convincere mia sorella, un po' più grande di me, a seguirmi. Altrimenti...Altrimenti cosa? mi chiedeva lei, irritata, decisa a lottare e a protestare per ottenere uno scampolo di libertà.
La libertà cos'era per noi donne nate in guerra, cresciute in un Paese che usciva dal Fascismo e dall'incubo delle bombe? Mio padre, l'abilità di un equilibrista, portava l'anguria sulla bicicletta in quelle sere di settembre in cui qualche rondine ancora disegnava geroglifici neri contro il cielo che si andava incupendo.
Mia madre si appuntava fiori freschi sul colletto e rideva con quella sua bocca rossa di anguria, ma papà era severo. Molto: colletti bianchi inamidati e bocche cucite. Una parolaccia, impensabile. Ancora oggi non riesco a dirle e men che meno a scriverle.
Il sesso era prima di tutto un mistero, e subito dopo un incubo. Le brave ragazze al moroso non concedevano nulla e le date delle mestruazioni erano scritte sui calendari in cucina, indicate con fiorellini. La libertà noi donne la strappavamo con i denti, brandello dopo brandello. I ragazzi uscivano, bevevano e smadonnavano...noi ragazze guardavamo le madri, disorientate di fronte a modelli femminili inquietanti.
Il rock and roll cominciava movimentare i festini e le più spericolate, piroettando, mostravano le gambe. I bikini diventavano più ridotti.
Ricordo tanta libertà in meno, rispetto ai maschi, tanti obblighi, anche piccoli come quelle scarpe strette, i bigodini, i pantaloni soltanto per passeggiare in montagna o, al mare, quelli corti. La modestia imposta, in quell' educazione da "Piccole donne crescono", mentre già serpeggiava la ribellione, la voglia di spazi meno ristretti e quella parola libertà rimbombava dentro.
Poi il tornado del Sessantotto: la ribellione esplodeva come i fuochi d'artificio in una notte d'estate e tutto sembrava a portata di mano: la pillola a allontanare l'incubo delle gravidanze indesiderate, il divorzio (e non sarebbe stata più la morte a liberare dall'incubo di un matrimonio sbagliato) e l'aborto. La riforma del diritto di famiglia.
Avevamo conquistato tutto? Eravamo, noi donne, libere? Quanto ci volle a scoprire che eravamo cadute in altri tranelli, che eravamo finite in altre prigioni? Il dilagare dell'anoressia, della bulimia, della depressione, spie di un disagio femminile profondo, portava alla dannazione del dover essere - di nuovo e sempre - belle, magre e, ora, anche efficienti donne in carriera. Quale carriera? Quella concessa dall' istituzione delle quote rosa? La parodia della libertà e dell'uguaglianza, tanto per tenere "calmi gli indigeni"? E quei divorzi spesso, troppo spesso, pagati con la vita, ammazzate davanti agli occhi dei figli, scannate per aver scelto di chiudere un rapporto?
E, ora, la crisi. Durissima: una miscela esplosiva di inflazione e recessione a far scoprire alle donne che le prime a essere licenziate sono state loro, loro che saranno le ultime a trovare un nuovo lavoro, sgambettando da un'agenzia interinale a un'altra: ai piedi ancora...scarpe dai tacchi a stiletto. Ancora e sempre troppo strette.

lunedì 13 luglio 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Un rumore molesto, ripetitivo, al quale invano cercava di sottrarsi, svegliò Sigismondo che, borbottando con la voce impastata di sonno, disse: "Entrate...", allungando le braccia e sbadigliando. La porta si aprì lentamente facendo intravedere il viso spaventato di Teresina che si affacciava titubante, riportando di colpo il padrone all'angoscia in cui gli avvenimenti del giorno precedente l'avevano precipitato. Con un balzo l'uomo scese dal letto, avventandosi sulla ragazza. "Dammi le chiavi della stanza della padrona!" le ordinò mentre lei, borbottando " Non le ho, entro facendomi aprire dall'interno", si sottraeva alle sue mani e alla sua collera indietreggiando.
Ma il Veneziano, ormai deciso a affrontare la moglie, la stava già sospingendo fuori dalla stanza lungo il corridoio, fino a quella porta sprangata sulla quale, mettendosi il dito sulla bocca, a gesti, la invitò a bussare facendosi riconoscere. La ragazza tamburellò con le nocche, due rapidi colpetti intercalati da un suono sommesso, e la porta si schiuse, permettendo all'uomo di inserire un piede e con una spallata entrare, mentre Teresina, in lacrime, scappava allontanandosi lungo il corridoio.
All'interno della stanza i due, per qualche istante, si fronteggiarono: Maria, avvolta nella vestaglia, i capelli sciolti a incorniciarle il volto, la bambina tra le braccia e i seni pieni che la camicia conteneva a stento. Negli occhi, che scivolavano sul marito, immobile davanti a lei, pallido di rabbia a stento trattenuta, non c'era traccia di paura mentre chiedeva: " Dove hai portato mia figlia?"
" Non lo saprai mai! Non ti scaraventerò fuori dalla mia casa a calci solamente perché ho una reputazione da salvare e quello che mi preme, ora, è ritrovare il Moro..."
" Non sarà così stupido da farsi prendere a meno che non decida lui di ritornare"sussurrò la donna che, dopo aver ripetuto: " La bambina non è colpevole" aggiunse "Il Moro te la farà pagare. Tu senza il suo aiuto..." ma il marito già l'interrompeva, afferrandola per un braccio e strattonandola mentre, paonazzo dalla rabbia, la copriva d'insulti e la schiaffeggiava
" Sono stato un idiota, ti avevo tolta dal fango elevandoti alla mia altezza, dandoti il mio cognome...Avevo fatto di te una Dellapicca e tu, tu..." ma Maria, dopo aver adagiato la bambina nella culla, tenendogli testa gli urlava: " Ha fatto quello che avevi tentato di fare tu..."
" Quando?"
La moglie taceva.
" Quando?" e il tono era minaccioso.
" Che importanza ha?" lei rispose.
" Perché?"
Lei fece un gesto vago con la mano e poi, fissandolo, disse: "Sentivo il tuo disprezzo. Noi non siamo fatti della stessa pasta mio caro conte ..." Lui la interruppe " Il tuo avventuriero, quel pendaglio da forca è adatto a te. Io, il conte Sigismondo Della..."
" Conte dalle braghe onte " lei borbottò in dialetto, ironica, aggiungendo " E' così che noi, gente del popolo, vi chiamiamo" andando alla finestra e spalancando le imposte.
Il sole entrò di prepotenza nella stanza scivolando sulla culla e infastidendo la neonata. Sigismondo, che si era avvicinato, fissandola con attenzione fu colpito dal candore della sua pelle e dalla peluria dorata che le incorniciava il viso, impreziosendolo. Le sue labbra, mentre la guardava, si strinsero riducendosi a un taglio che gli indurì l'espressione mentre le nocche delle mani nei pugni contratti sembravano forare la pelle. Ci fu un lungo minuto di silenzio, poi l'uomo, girati i tacchi, uscì imprecando dalla stanza. Maria, emesso un impercettibile sospiro di sollievo, crollava, esausta, sulla poltrona.(continua...)

domenica 12 luglio 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Entrando nella camera Sigismondo trattenne il respiro, poi, deciso, si diresse verso il letto e accese il lume sul comodino. La luce della fiammella svelò il grande letto in perfetto ordine. Vuoto. Si guardò intorno: della culla non c'era traccia. "Teresina" gridò, l'urlo che rimbombava nella stanza, mentre si precipitava nel corridoio, di porta in porta, continuando a gridare, affannato, furente...
"Teresina, svegliati! Dove ti sei cacciata?"
L'ultima maniglia sulla quale si era avventato si abbassò, ma la porta rimase chiusa, evidentemente sprangata dall'interno. Pur tempestandola di pugni e calci, non cedeva. Spossato, le braccia che gli ricadevano inerti lungo i fianchi, Sigismondo appoggiò l'orecchio all'anta della porta e rimase in ascolto. Un vagito proveniva dall'interno, mescolandosi a un sussurro, un mormorio incomprensibile.
Ah, temendo la mia reazione, si sono chiuse a chiave nella stanza, tutte e tre...Benissimo, ormai è notte e io sono stanchissimo. Affronterò la situazione domani mattina - pensò - e chissà che la notte non mi suggerisca cosa fare, come comportarmi.
Provava, meravigliandosene, una sensazione di sollievo all'idea che la moglie fosse ancora lì, accanto a lui, nella grande casa. Temeva la solitudine, il confronto con i suoi fantasmi che si sarebbero alimentati da quella notte di un nuovo rimorso, acquattato nella sua mente, pronto a trasformare in incubi i suoi sogni notturni.
Si staccò dalla porta e, brancolando nel buio, raggiunse la sua camera da letto. Pochi secondi dopo crollava, ancora vestito, sulle lenzuola, le tende del baldacchino che si chiudevano su di lui, calando sul letto come un sipario su uno spettacolo teatrale.

venerdì 10 luglio 2009

Romanzo a puntate ( I Dellapicca)

Sigismondo, provato da tutto ciò che aveva dovuto affrontare nel corso della giornata, giaceva, sconvolto, sul sedile imbottito della carrozza che si dirigeva verso casa. Sul riquadro del finestrino, che si andava tingendo del colore della notte, il vento bussava in raffiche che andavano aumentando d'intensità, facendo da sottofondo sonoro, cupo e drammatico, ai pensieri che attraversavano la sua mente. Restava ancora una decisione da prendere e riguardava Maria e la figlia. E se la moglie fosse stata costretta a fare ciò che aveva fatto, se avesse subito? In fondo anche lui aveva tentato di possederla con la violenza e l'inganno, considerandolo quasi un suo diritto, però ricordava anche con quanta energia e coraggio si fosse difesa. E se, con molta astuzia, avesse deciso di mentire? Le domande senza risposta si affastellavano nella sua mente, facendolo piombare in un imbarazzo confuso e inconcludente ma, per la prima volta, Sigismondo si chiedeva chi fosse quella donna che aveva sposato, perché la bellezza di Maria era tale da far passare in secondo piano tutto il resto. Era una piccola miserabile astuta, che lo aveva raggirato, o una ragazzina ingenua, manovrata dalla madre, e finita tra le mani di due uomini senza scrupoli com'erano lui e il Moro? Pur interessata agli abiti lussuosi e conscia di quel suo aspetto fisico che induceva gli uomini a mangiarsela con gli occhi e le donne a ignorarla, invidiose, trattandola con evidente fastidio e distacco, era una ragazza pratica che si era presa cura della casa, e, quasi subito, anche del magazzino, accorgendosi, abituata com'era a trattare con uomini e denaro nella locanda del padre, immediatamente delle ruberie del magazziniere.
Ora, anche se in modo confuso, Sigismondo si rendeva conto di sapere poco o nulla di quella donna con cui divideva la sua casa, si svegliava al mattino e si addormentava alla sera, la bocca sulla sua spalla e il tepore della sua pelle ancora tra le dita. Al di là di vaghe generalizzazioni che avevano l'unico scopo di rassicurarlo, cosa sapeva delle donne?
Si rese conto in quel momento che la carrozza, dopo avere rallentato, si era fermata davanti al portone della sua casa. Scese, sollevando lo sguardo sulla facciata davanti a lui, poi entrò, esitante, avvolto dal buio e dal silenzio, avvertendo una sensazione di solitudine profonda, quasi un senso di angoscia: per la prima volta la moglie non lo aveva accolto andandogli incontro. Se n'era andata con la domestica? L'aveva lasciato portandosi dietro la figlia? Per l'ennesima volta lo sorprendeva decidendo di testa sua? Forse stava semplicemente dormendo, sfinita dal parto e dalle emozioni della giornata? Esitante salì le scale e pochi secondi dopo si ritrovò davanti alla porta della camera da letto. Non un fruscio intaccava il silenzio. Abbassò la maniglia e entrò, aguzzando lo sguardo nell'oscurità.(continua...)

mercoledì 8 luglio 2009

Bla, bla, bla tra le rovine

I Grandi a passeggio tra le rovine, immortalati sorridenti tra le rovine, chiacchierano. Sentendo parlare tedesco avranno tremato anche i pochi muri rimasti in piedi, che solo le pietre ormai ricordano: i vecchi, testimoni dell'orrore, non ci sono quasi più. Gli ultimi se li è portati via il terremoto, in quelle case di sassi e sputo, là tra le montagne d'Abruzzo. Ora il silenzio calerà, come un falco, a riprendere possesso dei luoghi. Per grazia di Dio i morti non hanno voce, per grazia di Dio i morti non possono urlare!

martedì 7 luglio 2009

Caduta libera e leggerezza

Le era caduto un dente, non proprio caduto come succede ai bambini, con il dente nuovo che già biancheggia, rassicurante. Si era spezzato a metà, un po' più di metà.
Si era guardata allo specchio, meravigliata, poi angosciata.

Quando era esploso il sollievo? Realizzando che era finalmente successo ciò che da anni temeva, che la faceva stare malissimo. Era uno dei suoi incubi ricorrenti: quante volte si era svegliata in piena n0tte, sudata, una mano sulla bocca a verificare che ci fossero ancora, quei bastardi. A ogni caduta o estrazione nuova il dentista appariva più falsamente ottimista e nel guardarla - il maledetto, a bocca socchiusa, mentre lei spalancata fino alle tonsille cercava, senza riuscirci, di assumere un'aria dignitosa - le proponeva qualche diavoleria, sempre più invasiva e costosa. Era per questo motivo che lui sorrideva a trentadue denti: non solo perché li aveva tutti, ma anche perché allo sdentarsi di lei ampliava la villa al mare.


E così pensò che avrebbe dovuto brindare: uno in meno contro cui combattere, che non avrebbe prodotto ascessi o granulomi e non si sarebbe cariato rintronandola di dolore proprio nelle due settimane di ferie in un'isola greca. E avrebbe dovuto piangere? Tutto ciò che possiedi ti possiede - aveva detto qualcuno e lei stava sentendo un gustino, un incredibile sapore di... di? Era la libertà che sapeva di panna?


Non aveva più la paura terribile che le succedesse: era successo, era sopravvissuta, era libera di vivere senza quel dente. Ormai era tutto in caduta libera: che sollievo lasciarsi andare, lasciar cadere tutto ciò che era attratto verso il basso. Legge di gravità si chiamava, ma abbandonarvisi apriva le porte alla leggerezza. I vecchi che ricordava nei suoi anni infantili erano sdentati e le vecchie quando ridevano si coprivano la bocca con la mano, in un insopprimibile rigurgito di civetteria. Liberarsi dal peso, non di essere, ma di fingersi giovani: ridere ignorando le zampe di gallina intorno agli occhi, sfidare il sole in pieno viso, accettando l'abbinamento di un'anima ferita dalla vita con un corpo altrettanto logoro, il passo stanco, di correre verso il nulla, poiché al capolinea ci si arriva lo stesso e, mentre si va, guardarlo questo mondo che è ancora lì, bellissimo e grottesco, con i nostri occhi gonfi ma esperti e sempre e comunque curiosi.

Con un sorriso sdentato attese il tonfo.

lunedì 6 luglio 2009

Il tempo passava

Il caldo fondeva il cervello in quell'estate che si annunciava torrida.
Seduta davanti a un tavolino, i gas di scarico che si diffondevano nell'aria a zaffate aspre e regolari, in quella Milano che nessuno si sarebbe più sognato di bere, pensava.
" Cosa le porto?"
" Qualcosa di fresco.."
" Alcolico o analcolico?"
" Una coca..."
Aggiunse" Non ghiacciata."
Poi rise con quella risata di gola, gorgogliante. Qualcuno si voltò a guardarla e lei gli fece un gestaccio con la mano. Poteva farle male: più di quella lettera che aveva ritirato al Centro Tumori?
Il tempo passava: l'aria non sapeva più di croissant, sui tavolini arrivavano insalate e panini farciti, mentre il traffico s'ingolfava e i clacson facevano a gara a chi ululava più forte.
Il tempo passava.
Caffè in tutte le varianti possibili, per essere efficienti.
'Milano non è città per perdenti' ...pensò.
Il cameriere cominciava a osservarla.
Ordinò un caffè. Con panna.
Il tempo, ritmato dalle campane di qualche chiesa che gareggiava con il rumore del traffico, scampanava a ogni volger di ora. ' Din, don, campanon, tre civette sul canton che facevano l'amore con la figlia del dottore...
Le sei.
Le sette.
Il caffè si svuotava nella sera che, spintonando il giorno, prevaleva.
Nel condomino di fronte si accendeva di luce il riquadro di una finestra.
Strade deserte e gracchiare di televisori.
Il cameriere puliva i tavolini con uno straccio umido e guardandola appoggiava l'indice della mano sull'orologio che aveva al polso, sollevando un sopracciglio.
Poi abbassava a metà la serranda del bar. Rumorosamente.
Il tempo passava o era già passato?
Lei non lo temeva più.
Il cameriere la ricordava, seduta sempre nell'ultimo tavolo in fondo.
Prendeva il caffè, sempre con la panna.

Romanzo a puntate (I Dellapicca)

La carrozza si fermò davanti all'imboccatura della strada che, infilandosi tra le case, portava al ghetto, nell'intreccio dei vicoli che la sera colmava di silenzio e ombre minacciose.
" Aspettami qui!" intimò Sigismondo al cocchiere, scendendo in fretta con quella neonata urlante tra le braccia, per addentrandosi, quasi di corsa, lungo la via in fondo alla quale, svoltato l'angolo, sorgeva l'abitazione che cercava. Si guardava intorno sospettoso, rintronato da quel pianto disperato che gli martellava dentro e che si lasciava dietro un' eco che risuonava cupa, di vicolo in vicolo, quasi a urlare di fame e disperazione fosse l'intero ghetto. Finalmente riconobbe il portoncino. Bussò e, a voce alta per farsi udire, disse il suo nome.
Sentì il rumore del chiavistello e, dopo pochi secondi, si trovò nell'ingresso.
" E' tardi! Cosa volete?"
" Devo parlare assolutamente con il signor Gospez" rispose Sigismondo.
" Non potreste tornare domani?" e la voce della donna denotava una certa irritazione.
" No! " rispose perentorio Sigismondo mentre dal corridoio, alle spalle della donna, si udiva un rumore di passi e una voce che diceva:" Lo conosco, fallo entrare Genoveffa."
Sigismondo s'infilò in quel budello buio e, seguendo l'ombra massiccia che lo precedeva, entò nello studio.
L'uomo passò dall'altra parte della scrivania e poi si accomodò sulla sedia: le mani in grembo a sottolineare l' attesa. Muto.
Sigismondo si sedette a sua volta con la neonata, urlante tra le braccia che rivelava una goffaggine in lui insolita, non in linea con il personaggio.
L'uomo che lo fronteggiava non diceva una parola, limitandosi a osservarlo.
Il veneziano sospirò, inspirò una boccata d'aria e poi, a voce bassa, come se ogni parola pronunciata lo sfinisse dentro, disse: "Mia moglie ha partorito due gemelle, poche ore fa..."e sollevò il fagotto, scostando la coperta per esporree alla luce della lampada a olio
la neonata. Il vecchio le lanciò una rapida occhiata e, mentre un sorriso gli increspava le labbra, disse:" Complimenti, è una bellissima bambina."
" Peccato che non sia mia figlia..." borbottò Sigismondo.
" Non siete il primo" e continuò " non sareste l'ultimo a allevare un figlio non vostro. La paternità, a differenza della maternità, si acquisisce con la frequentazione, pian piano. Non provereste sentimenti diversi se fosse vostra figlia, quindi presumo che il problema riguardi l'impossibilità di nascondere il tradimento a chi vi conosce e, forse, la persona che..."
" E' inutile giriate intorno al problema: sapete, come tutti in città, che il mio socio, meglio sarebbe dire il mio servo, è, non solo un negro di grande prestanza fisica, ma anche l'unico ammesso nella mia casa, alla mia mensa... Che il demonio se lo porti, che gli abissi marini si rinchiudano su di lui "
" Con la nave e la mercanzia dietro?" concluse il vecchio e l'ironia questa volta non era nemmeno velata.
" Voi dovete trovarlo e riportarlo qui" ordinò Sigismondo.
" Non posso promettervi nulla e poi" e qui esitò, la mano grinzosa che saliva a accarezzare il mento in un'espressione pensosa, "vi costerà molto. Dovremo scucire molte bocche offrendo denaro. Il Moro è astuto, adorato dai suoi uomini. La bambina potrebbe essere un'esca alla quale far abboccare il nostro uomo."
" Io non la voglio nella mia casa, devo salvarmi la faccia, voi mi capite, ma non so come disfarmene, a chi consegnarla assicurandomi il silenzio di questa persona. Voi potreste...?
" Mi chiedete molto" rispose il vecchio.
I due uomini si valutavano, guardinghi, nello studio che rimbombava dell'urlo disperato della neonata, che si stava facendo roco dallo sforzo e dalla debolezza, quasi a reclamare un diritto alla vita che per quella creatura non era certo scontato e che si nutriva dell'avidità del vecchio e del desiderio di vendetta del Veneziano. Una stretta di mano, che sanciva l'accordo, la salvò e, finalmente, dopo meno di un'ora, una donna se l'attaccava al seno, spiandone stupita il viso che il chiarore della lampada sul tavolo illuminava.
Era Yael, una donna del ghetto, che il giorno prima aveva partorito una bambina morta. La donna, sospirando di sollievo, sentì diminuire la pressione violenta del latte sui seni gocciolanti, mentre accarezzava la bambina e, un po' ridendo e un po' piangendo, se la stringeva tra le braccia.

domenica 5 luglio 2009

I Dellapicca

La carrozza di Sigismondo filava verso il porto e il conte, la neonata accanto a lui sul sedile imbottito, passava dalla rabbia, dal desiderio di schiacciare la faccia del Moro, la sua testa contro un muro, alla constatazione che dell' ex servitore e attuale socio non aveva notizie da mesi. Dov'era? A ridersela di lui da qualche parte? E se avesse deciso di scomparire, lasciandolo con due bastarde e senxa mezzi, anzi indebitato. Beh, lui era uomo di mondo e qualche debituccio in giro, con l'impegno di pagare tutto e tutti all'arrivo della nave carica di mercanzia, l'aveva fatto. E ora?
La rabbia per il tradimento della moglie lasciava il posto alla paura di ritrovarsi come al suo arrivo a Trieste, a vivere nella squallida locanda della moglie, senza un soldo e senza la forza e l'intraprendenza del Moro. Maledetto nero color dell'inferno! Doveva trovarlo, ma come? Chiedere al porto, far sapere che lo cercava lo avrebbe messo sull'avviso. La faccenda doveva essere trattata con delicatezza e perizia...A chi rivolgersi? E la bambina non poteva riportarla a casa e, mentre si prendeva la testa tra le mani sconvolto, un'idea gli attraversò il cervello, più che un'idea un volto, quello del vecchio Gaspez, l'uomo più potente del ghetto. Si sarebbe rivolto a lui, promettendogli un bel po' di denaro per indurlo a mettere in moto la sua gente e tirare fuori dal suo nascondiglio, come un fagiolo dal baccello, il Moro.
Sigismondo si rilassò, gridò al cocchiere di dirigersi verso il ghetto e, sentendo un vagito provenire dalla coperta accanto a lui, scostò il panno e osservò la neonata. Era bella e...strana.
Sotto i capelli nerissimi il viso aveva i lineamenti da cammeo della madre: gli occhi azzurri, chiarissimi, contrastavano con pelle, scura come quella del padre. Sbarazzarsi della bambina sarebbe stato un errore. Si sarebbe limitato a farlo credere alla moglie, per punirla di ciò che aveva fatto.
La carrozza filava verso il ghetto ebraico e Sigismondo guardava fuori dal finestrino, contrariato, lanciando ogni tanto un'occhiata in direzione della neonata che aveva cominciato a piangere affamata mordendosi una mano, mentre il vento calava d'intensità e le prime ombre della sera si allungavano sulla città. (continua...)

venerdì 3 luglio 2009

Romanzo a puntate

Non mi ero mai cimentata in un romanzo a puntate, cominciato per gioco alla metà di maggio, ma dopo aver ruminato e scritto parecchio su due città, Trieste e Venezia, alle quali mi lega un rapporto ombelicale, carnale.

Città complesse, difficili, alle quali mi avvince una Storia che non è amore, è passione che ti chiede l'anima, restituendotela, se e quando lo fa, ammaccata e ferita. Noi abitanti, quella Storia, la portiamo nei cromosomi...Su Venezia è stato scritto di tutto e non mi azzarderei a confrontarmi con i mostri sacri.
Il mio approccio è di pelle, di suoni che mi sono rimasti dentro - soprattutto a Venezia, che è una città che va ascoltata, oltre che vista - e di albe, tramonti e stagioni che mutano ,cambiando l'intensità della luce che filtra nelle stanze e la qualità dell'aria, il suo odore.

Trieste mi manca sempre, oserei dire, sempre di più. Mi manca proprio ciò che più m'infastidiva: quel suo dialetto greve che è rimasto, per me, la lingua della disperazione, della rabbia e della gioia. " Voglio bene a quella bambina " è ingessato, incolore e inespressivo: vuoi mettere " Ghe voio un ben de l'anima a quela muleta "? Amore che si sente, trabocca, ma venato d'ironia, musicalità della parola che diventa canto. E la sarabanda del vento che in un carosello infernale tutto fa volare, sbattere, stridere popolando il sonno di incubi sonori...Siamo ben strani noi esseri umani! Mi manca pure quella!

Di Venezia, invece, rimpiango il sembrare più reale dell'essere, il sottile gioco dell'ambiguità che la gran signora, dimenticando come me di essere vecchia, fa cadere dall'alto fino a quando il suo riflesso nell'acqua, obbligandola a riemergere dalle sue illusioni, la ricarica della noia del reale, del suo peso, della prevedibilità, ma provocando la sua reiterata decisione di azzerarli in un battere di ciglia. Opterà sempre per la recita e la maschera: fa parte del suo Dna. Il Carnevale non era forse tutelato dalla legge, non durava per mesi e era diventato un modo di essere, non soltanto di vivere?


E così ho ambientato la mia storia in queste due città, nelle strade strette dei loro ghetti, usando un linguaggio colorato d'azzurro per descrivere foreste di alberi che crescono sull'acqua e il fruscio delle vele che sfidano il vento. Navi che scompaiono nella nebbia, per riemergere come fantasmi quando meno te l'aspetti, cariche di mercanzie e... di bugie, quelle che i marinai hanno sempre raccontato alle donne che in ogni porto, mai stanche, ne attendono il ritorno.

Il protagonista, il nobile Sigismondo, sfatto e decadente, incapace di staccarsi da un mondo che si è già staccato da lui - un mondo che va scomparendo sfaldandosi come un trucco troppo pesante su un volto decrepito -  alimenta la sua vita di rimpianti. La moglie, bellissima figlia di un locandiere e dei tempi nuovi, è il futuro ed è già parte di quella borghesia emergente e indaffarata che alla festa data da Sigismndo travolgerà madrigali e minuetti con l'arroganza vitalistica e rozza dalla sarabanda e della ciga.

E' 'il nuovo che avanza ' nella Trieste della fine del Settecento che sfidava Venezia, sotto la spinta non soltanto del vento delle steppe, ma anche delle prime avvisaglie del tornado napoleonico...

Inventare, giorno dopo giorno, è una sfida non facile, credete, ma intrigante: molto intrigante.

giovedì 2 luglio 2009

I Dellapicca

Sigismondo, il volto livido, le labbra tirate camminava lungo il corridoio, il passo lungo e teso
che aggrediva il pavimento, rimbombando nel silenzio che sembrava gelare la casa.
Teresina lo seguiva, tremante, borbottando preghiere.
Entrati nello studio, il padrone chiuse la porta e si rivolse alla donna:
“ Lo sapevate?”
Lei scosse la testa.
“ Diremo a tutti che una delle gemelle è morta poco dopo il parto. Tu vai a vestirla, avvolgila in un panno e portala nel mio studio”.
Teresina esitava, balbettante: ”Cosa dirò alla…padrona?”
Sigismondo, contenendosi a stento, sibilò: “Obbedisci, prima che ti scaraventi fuori di casa a calci…” e vedendo la serva che davanti a lui si stropicciava le mani sempre più agitata, urlò: “Fai quello che ti ho detto. Muoviti, vai! Cosa aspetti? La carrozza?”
Teresina uscì in fretta, chiudendosi la porta dello studio alle spalle, ma non aveva fatto che pochi passi quando la voce del padrone la raggiunse “ Fai venire la levatrice nel mio studio!” Poi, nel corridoio, dopo il rumore della porta sbattuta con violenza, il silenzio riprese il sopravvento.
La serva entrò nella camera da letto della padrona e dopo essersi avvicinata al letto, scoppiando in un pianto dirotto, tra i singhiozzi che le impedivano quasi di parlare, riferì quanto le era stato detto.
Maria mormorò qualcosa e la levatrice le disse: “ Vi conviene obbedire! Cosa fareste con due neonate da sola. E con questa bambina che denuncia la vostra colpa…”
“ Datemi una vestaglia, devo parlare con mio marito” e Maria, barcollando cercò di alzarsi in piedi, ma un violento capogiro la costrinse a stendersi nuovamente sul letto. Approfittando della confusione, Teresina scivolava fuori dalla stanza con la levatrice, portando tra le braccia la piccola mulatta.
Le due donne bussarono alla porta dello studio. Dall’interno si udì un certo tramestio e quasi immediatamente la porta si spalancò, lasciando uscire Sigismondo che, afferrato il fagotto, si rivolse alla levatrice dicendo: ”Aspettatemi nello studio. Sarò di ritorno tra poco…Vi invito a tacere, altrimenti…” e non concluse, lasciando che quella minaccia aleggiasse nell’aria, sinistra, gelando la donna. Poi, in tutta fretta, si diresse verso l’ingresso della casa. Si udì la sua voce che chiamava il cocchiere e lo stridio delle ruote della carrozza.
Le due donne tornarono nella stanza di Maria. La giovane donna era riuscita a trascinarsi fino alla finestra, che aveva spalancato appena in tempo per vedere la carrozza del marito allontanarsi in direzione del porto.
“ Dove la sta portando?” gridò volgendosi verso le due donne appena entrate. “ Avrà ben detto qualcosa! Vi supplico, vi supplico, cosa intende fare!”
“ Non lo sappiamo. E’ inferocito, ha minacciato anche la levatrice” sussurrò Teresina.
“ Per quello che mi riguarda io sarò muta come un pesce morto…Aveva una faccia da far paura,
e, ora, mettetevi a letto. Pensate a questa creatura che vi è rimasta e a voi. Calmatevi, su calmatevi e cercate di non avvilirvi troppo. Potreste perdere il latte…” e, così dicendo la levatrice, presa la bambina, la avvicinò alla madre.
Maria la prese tra le braccia e, per un istante, il suo viso si distese, mentre incredula con la punta di un dito scostava il panno e si chinava a baciare la figlia. Poi, dopo averla attaccata al seno, mentre la neonata succhiava, si addormentò, sfinita, viso che si rasserenava, distendendosi, nella tregua del sonno.
Teresina prese la bambina, la cambiò e la depose nella culla, accanto al letto della madre.
Poi le due donne, in punta di piedi, uscirono dalla stanza e raggiunsero lo studio del conte.
Si sedettero e attesero.

mercoledì 1 luglio 2009

Crisi americana e bulimia

Ieri sera su Rai Tre è andato in onda il disastro americano, lasciandomi sconcertata per un particolare, apparentemente insignificante ma, a mio avviso, non irrilevante: non la dimensione del disastro, già analizzato e valutato in tutte le sue drammatiche componenti, ma quella delle persone, perché gli intervistati erano quasi tutti oversize.
In questo paese - dove i grattacieli incombono dall’alto dei loro innumerevoli piani, le macchine sono grandi come case, i panini sono extra large - il gigantismo, condizione dei luoghi, è diventato condizione dell’esistenza e quindi dell’anima. Gli spazi sterminati che questo popolo ha domato lo hanno forse abituato a pensare in grande, tanto in grande da provocare anche la più devastante crisi economico/finanziaria degli ultimi cento anni. Quegli spazi sconfinati, che hanno dato loro il senso e quindi il valore della libertà, sono diventati simbolo di arroganza per buona parte del paese. Emergeva dalle interviste la bulimica abitudine di un popolo che non consuma per vivere, ma vive per consumare, che non mangia per vivere, ma vive per mangiare. Provvisorietà e sicurezze inesistenti si delineavano attraverso le parole degli intervistati: uomini d’oro – gli dei di Wall Street - che erano diventati di cacca nello spazio di ventiquattro ore. Il bisogno, non il desiderio che è libera anche se discutibile scelta, di consumare e quindi acquistare, ha portato in primo piano la necessità di guadagnare: tanto, sempre di più.
Il denaro si è, quindi, fatto largo, diventando il valore, il fine, l’obiettivo a cui puntare, a cui tutto e tutti devono essere sacrificati. Nel vuoto di quegli appartamenti nei grattacieli, che sembrano sfiorano la volta celeste, si è forse avuta l’impressione che bastasse alzare una mano per cogliere una stella perché la tecnologia può tutto, ma il mistero dei sentimenti, e delle emozioni che ne derivano, scatena paure incontrollate. La dicotomia impotenza/onnipotenza si è fatta stridente in questo popolo di bambini e adolescenti non cresciuti. Inseguiti da quell’ansimare da bestia feroce della metropoli che ti alita sul collo, si è pensato di dover correre, in fretta, sempre più in fretta, non importa dove, non affrontando le paure, esorcizzandole con lo shopping e l’attrazione fatale per il frigorifero, in uno scricchiolio di mascelle che sostituiva le sinapsi di un cervello funzionante… E allora ho pensato alla disastrosa qualità della scuola pubblica americana: la scuola dei quartieri ghetto, immortalata da tanti film, che è parcheggio di giovani e non scuola di vita, non insegnamento, non valori, non acquisizione di capacitò critica, non pensiero, non riflessione, non gusto, né bellezza e, con un brivido mi sono sfilati davanti agli occhi i giovani incontrati negli ultimi anni del mio insegnamento e, in una Milano che si andava imbarbarendo, i loro eroi: Berlusconi e Bossi.
Negli zainetti troppe merendine, troppi jeans firmati…Pochi pensieri, scarse e scarne riflessioni, il deserto dei valori …non per tutti, ma per troppi. I grandi spazi sono anche grandi vuoti e uno su tutti è pericolosissimo: il vuoto culturale. Per gli americani? Non soltanto per loro.
E’ questo il futuro che si va delineando anche per il nostro Paese? Saranno queste le conseguenze dello scempio perpetrato nel campo dell’istruzione?
E’ un’ipotesi e non remota.