giovedì 29 luglio 2010

Identità di frontiera

                             Trieste è una città particolare della quale è facile parlare aderendo a un cliché: il mare,  il Carso e, a ruota, le mule triestine lunghe di gamba e di lingua, il Centro di Fisica ... e via discorrendo, per concludere, mi sembra scontato, con la bora che soffia, più o meno impetuosa, sulla città che profuma di  Mittteleuropa come un caffè viennese di Sachertorte.
Era con gli occhi di una giovane studentessa che io avevo osservato quella città e l'entusiasmo che ancora vivacizza i miei "amarcord" affonda le radici nella sensazione che allora provavo: poter cogliere, come un frutto da un albero, tutto ciò che la vita mi offriva. In realtà questa bellissima città, adagiata tra il mare che la riflette e il Carso che la incorona,  se non dorme sugli allori (come una  Bella addormentata nel bosco) certo sonnecchia, alternando occhiate compiaciute a un'immagine di sé che la soddisfa, a garbati sorrisi  (evitiamo la scontrosa grazia che le ha attribuito uno dei suoi illustri figli) con i quali ricambia i complimenti che le vengono indirizzati.
E' città che non sa volgere lo sguardo al futuro, preferendo vivere di passato come si può desumere, anche da esempi banali, scorrendo ad esempio la posta dei lettori fatta pervenire al Piccolo - il quotidiano più letto in città -, e scoprendo che dietro a un "foresto" non si nasconde un marocchino o un polacco o un cinese (come sarebbe ovvio ipotizzare in qualunque altra città italiana) bensì un istriano, uno dei discendenti di quell'ondata di profughi che alla fine della seconda guerra mondiale abbandonarono l'Istria, temendo le rappresaglie degli slavi. Con un dialetto, forse, più simile al veneziano poiché su quelle terre la Serenissima aveva esteso il su dominio, ma non altro, eppure... Eppure la città è ancora lì a considerare i friulani i cugini di campagna, gli sloveni "i s'ciavi" e Roma "un po' ladrona", poiché non dobbiamo dimenticare che la prima forma di "leghismo" nell'Italia settentrionale vide la luce a Trieste con il "Melone", lista autonoma che coagulava consensi attorno a un programma comune incentrato sul rilancio della città per riportarla all'antico splendore. Lo sguardo corto, rivolto alla tutela del proprio personale interesse, non fa onore a quei cittadini che, con entusiasmo, aderirono alla lista civica aprendo la strada, di lì a poco, a personaggi inquietanti  come "il senatur".
Come la rivale Venezia, Trieste si considera città dal passato imponente, ma la sua storia ci rivela che non molto ebbe a che vedere con la raffinatissima nobiltà veneziana, i suoi cicisbei, la musica di Benedetto Marcello, Vivaldi e Albinoni  (tanto per citarne alcuni) che nei palazzi lungo il Canal Grande, tra parrucche incipriate e dame invitanti che occhieggiavano dietro ai ventagli, riempiva di sonorità aggraziate  i salotti dove si ballava il minuetto e si discuteva dell'ultima commedia di Goldoni mentre, appena più in là,  l'Arsenale sfornava navi a getto continuo, come un forno biscotti e, nel Senato veneziano, la più ricca, raffinata e incredibile tra le "Repubbliche marinare" faceva esercizio di democrazia.
Diversa storia vanta Trieste che si sviluppò soprattutto come città mercantile, quando Carlo VI, deciso a farne lo sbocco sul mare dell'Impero, attribuendole la qualifica di porto franco, aprì la strada allo sviluppo di una solida economia basata sul porto e i commerci. Le caratteristiche del luogo in cui viviamo  finiscono per influenzare le nostre scelte: Venezia, imprigionata tra cielo e mare, i canali che svaporano, i palazzi che emergono dalla nebbia come miraggi che la stanchezza accende negli occhi di un viaggiatore stanco, è  luogo che evoca il conflitto di creature non più di terra ma non ancora d'acqua, l'odio/amore per quella città d'oro e di azzurro.
Ben diverso, vitalistico e improntato ad una autentica joie de vivre è il rapporto con la natura dei triestini che, abituati fin da bambini a vivere sensazioni forti, cercano l'abbraccio del vento non appena smette di ululare e placare la sua forza e saggiano la forza dei muscoli "scarpinando" lungo i sentieri del Carso o calando in mare, dopo averle ripulite e ridipinte con la cura che le casalinghe dedicano alle pulizie pasquali, le barche, con le vele gonfie di vento che chiazzano di bianco l'azzurro come nevicate di margherite i prati a primavera.
I triestini si fondono con il  mare, si abbandonano al vento e, quando se ne vanno a cercare lavoro altrove, da vecchi ritornano, e li vediamo  pescare sui moli,  bere un bicchiere in compagnia e scatenarsi nei "vitz",  sparlando delle "babe'", perché amano la loro città di un amore intenso, incapace di raziocinio, assoluto, come soltanto un amore adolescenziale può essere. La gioventù triestina è particolarmente bella e sedersi al tavolino di uno dei tanti caffè che costellano le strade consente di godersi  una sfilato di mule che sembra la passerella di un concorso di bellezza: donne belle, emancipate, sicure, abituate da generazioni ad accompagnare i loro uomini ai moli, a sventolare il fazzoletto e poi a cavarsela da sole che "un omo tien su un angolo dela casa e una dona quatro... ".
Ai parterre dei teatri veneziani e ai boudoir dei palazzi settecenteschi animati da una nobiltà decadente, ormai alle corde - luoghi chiusi che comunicano sensazioni di asfissia - Trieste oppose i moli gonfi di vento, le botteghe artigiane, le piazze dove si stipulavano affari, e una borghesia nascente - e vincente - che fece decollare commercio e ricchezza, assumendo caratteristiche che ancora in parte la individuano. Vogliosa di prestigio sociale e un po' invidiosa, da parvenu, della raffinatezza della città rivale farà sfoggio di laboriosità, impegno, rispetto delle regole e frugalità preferendo essere una provincia dell'Impero, che queste qualità apprezzava, piuttosto che la numero due dell'Adriatico.
L'attuale borghesia triestina non ha saputo trovare in sé quella forza trainante, quella capacità di innovare che sola avrebbe potuto ridare slancio alla città, ritornata all'Italia nel 1918, in uno sventolio di bandiere a Piazza Grande, ribattezzata per l'occasione Piazza Unità d'Italia, quell'Italia che tanto avrebbe deluso i triestini, facendo rimpiangere a molti di loro Francesco Giuseppe e i bei tempi andati.
Sono lontani i tempi in cui, a ondate successive, greci, sloveni, serbi, macedoni sbarcavano dalle navi mescolandosi ai burocrati austriaci, selezionati accuratamente a Vienna e mandati a gestire una delle province più turbolente del'impero, nonché, incalzati dai pogrom russi e polacchi e rassicurati dalla tolleranza della città nei confronti delle diverse etnie, gli ebrei askenaziti , la componente più colta e ironica del mondo ebraico. Mi chiedo se i gruppi etnici che, ancora oggi, convivono nella città si siano fusi. Nonostante le tante bandiere e i molti cimiteri, sono state più numerose le triestine che hanno sposato soldati americani che quelle che hanno contratto matrimonio con uno slavo. La città mitteleuropea, crogiolo di razze apparterrebbe dunque al cliché? Direi di sì, perché, se ripenso al passato ho la sensazione di udire un mormorio stizzito, il sapore di rancori ancora vivi e, serpeggiante, la diffidenza. Le ferite aperte dalla guerra, quei quaranta giorni con i neozelandesi fermi alle porte di una città stremata, in attesa, fanno ancora male. Cosa avvenne in quei giorni? I soldati di Tito fecero piazza pulita delle ultime sacche di resistenza nazifascista. Non solo. La contabilità  sinistra della guerra esigeva che si quadrassero i conti? E questo avvenne, e il Carso diventò famoso in tutto il Paese per le sue foibe. Foibe, delazioni e un forno crematorio a rendere drammaticamente nota al resto del Paese la Risiera triestina.
Questa è storia di cui ho sentito narrare da chi la visse in prima persona, e ancora ricordo le discussioni accesissime che scoppiavano a casa di mia nonna, quando ci si riuniva per le festività natalizie o pasquali e noi bambini venivamo spediti a giocare nelle altre stanze mentre le voci salivano d'intensità, fino a quando, più grande, chiesi e ottenni il permesso di ascoltare e fare domande. Forse ancora i sopravvissuti cercano, frugano nel passato alla ricerca dei responsabili.... Quanto di ciò che avvenne è da attribuirsi alla guerra e quanto è riconducibile a una responsabilità non collettiva, ma personale? Personalmente non credo che possa emergere, in circostanze eccezionali, se non ciò che si è e io odio la guerra proprio perché legittima ciò che la pace ci obbliga a censurare: la bestia che sonnecchia in ognuno di noi. Quelle discussioni, così intense e appassionate mi fecero capire che appartenevo alla gente di frontiera:  confini reali, quelli che passano tra le case e tagliano i cimiteri, ma anche confini immaginari, limiti autoimposti avrebbero sempre marcato in me territori della realtà e della fantasia. Vivere a ridosso di un confine segna, inevitabilmente, ma abitua al confronto perché è costante l'incertezza, il passato allunga un cono d'ombra che ingloba il futuro e alimenta la paura: dello scontro e del diverso, l'altro da noi, quello che vive dall'altra parte. 
Claudio Magris la chiamerà, identificandone i tratti, "identità di frontiera" a legittimazione anche di un briciolo di follia che, al di là dei limiti impliciti in ogni generalizzazione, non deriva ai triestini solo dalla bora, ma ha radici ben più profonde e lontane...