venerdì 17 giugno 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°8)

Ninetto non l'aveva vista arrivare: aveva il sole in faccia e rideva. Centrato in piena fronte, il sangue che mescolandosi al sudore e alla pioggia gli appannava la vista, era caduto in ginocchio. Ma, quasi subito, portandosi una mano al viso e bloccando con l'altra, perentorio, i due uomini che si erano avvicinati per sorreggerlo, si era rialzato ed era sceso, ancora barcollante, dal terrapieno, lo sforzo che gli strappava dalle labbra una sorta di urlo da animale ferito. Dietro a lui, seguendone ogni passo, si erano  avvicinati minacciosi anche gli altri.
Poi, l'inferno. I Dellavilla erano stati i primi a mollare i falcetti e a darsela a gambe sotto il temporale estivo,  mentre il Lambertini, il viso contratto dalla paura sotto il cappello fradicio di pioggia, persa la sua abituale baldanza, indietreggiava dicendo qualcosa tra i denti che i tuoni, le urla delle donne raggruppate intorno alla porta della stalla e i gemiti delle mucche, rendevano un incomprensibile balbettio.
Poi Ninetto era quasi rotolato addosso a Desmo mentre lui, Gualtiero, si era trovato davanti altri due braccianti inferociti. Sotto l'acqua che scendeva a secchi gli uomini avvinghiati, ansimando sotto i colpi che ricevevano e restituivano, si erano ritrovati a sguazzare nel fango, tra i sassi che volavano e le donne, che uscite dalla stalla, avevano invaso l'aia gridando e mescolando alle urla, totalmente inascoltate dagli uomini che continuavano a picchiarsi, segni di croce e preghiere.
Nessuno seppe mai, con certezza, da dove fosse spuntato quel fucile, chi l'avesse portato, se fosse stato il Lambertini a sparare, oppure uno dei braccianti di Ninetto, se non Ninetto stesso, o, presa dalla disperazione, pensando soltanto di sparare un colpo in aria, una delle donne... ma qualcuno lo puntò contro la spalla e fece partire un colpo, basso, ad altezza d'uomo, no, un po' più basso, ad altezza di bambino. Decimo, il nipote più piccolo di Gualtiero, sembrò per un attimo volare, come un passero nell'aria, per poi ricadere scomposto nel fango, la maglietta che s'inzuppava d'acqua e diventava rossa, sempre più rossa, come se il bambino tenesse tra le braccia, stretto al petto, un mazzo di papaveri.
(continua... )

Alla fine la vita ti prende sempre, o quasi, per i fondelli

Ho visto ieri La versione di Barney del regista Richard J. Lewis. Risulta sempre difficile portare sullo schermo (?) un romanzo, ma nel caso in questione tale scelta avrebbe richiesto, boh, una bravura sovrumana. Se il film si salva è soprattutto grazie alla indiscussa bravura di Dustin Hoffman e Paul Giamatti.
Ricordo di aver letto il libro, anzi di averlo divorato, in una notte o poco più, resa particolarmente percettiva da una febbre da cavallo per un'influenza che mi aveva costretta a letto. Mordecai Richler, quando decide di scrivere la sua autobiografia è appesantito, ma più che dagli anni, dalla vita e lo sa, ma vorrebbe conoscere le ragioni di quel peso, frugare nel sacco che gli pende sulle spalle, quel sacco gonfio di errori, bugie sussurrate a mezza voce, piccole e grandi vigliaccherie, intelligenza genialmente ignorata e presuntuosamente rivendicata. Ma è anche malato, e questo non lo sa, ma è troppo intelligente per non intuirlo. E allora, per non impazzire o esagerare con la depressione, si ancora alle parole, s'incatena alla  terra attraverso i ricordi, i suoi ricordi, quelli che lui sceglierà di selezionare per costruirsi una vita che possa rendere accettabile, giustificandola, la violenza della morte. Ma è ateo, ebreo, ironico - ancora, disgraziatamente per lui, intelligente - e quindi dalla sua memoria tracima il vero Barney, un po' coglione, apparentemente disincantato ma tanto ingenuo e fragile da credere all'amore eterno, ben sapendo che è amore di sé e per sé, e che nulla, o ben poco, ha fatto per rispettare questo sentimento, per preservarlo dai miasmi mortali del suo egoismo. A fare da sfondo alla sua storia tutta l'arroganza di quel mondo americano, stereotipato e fasullo, in cui si agitano scrittori, pseudointellettuali, registi radical-scic che passano la vita a sbranarsi, malignando uno alle spalle dell'altro e, sempre a scapito di qualcun altro, ad arricchirsi. Ma la memoria - il serbatoio della sua vera vita, il porto sicuro dal quale fuggire ma sapendo di poter sempre tornare - gli si rivolterà contro... Smangiato dall'Alzheimer, riafferrerà brandelli di emozioni autentiche, squarci momentanei di una vita che, come quasi tutti noi, avrebbe voluto diversa, ma senza avere la capacità di renderla tale.
Nel film, purtroppo, la profondità, l'ironia e l'incanto che accendono il romanzo, sfumano, rendendo la storia piacevole, ma nulla di più.