domenica 18 aprile 2010

Pugni in tasca

La pioggia, quella sottile e penetrante che ti infracida i pensieri oltre la pelle e ti ristagna nell'anima, non accenna a diminuire dandomi la percezione di un inverno infinito. Poi un'amica mi trascina a vedere un documentario su Stratos e la giornata si impenna come un cavallo imbizzarrito. Demetrio Stratos canta, i grandi occhi malinconici che sembrano sottolineare un percorso artistico e umano eccezionale, passando dal candore dell'adolescenza alla grinta del rock, al rigore di un impegno che è artistico, politico e, - esperienza che ne determinerà una sorta di solitaria unicità - di ricerca tenace e coraggiosa di qualcosa che la sua sensibilità di artista gli suggerisce e che diventerà un'esplorazione all'interno della voce, ma un'esplorazione condotta sull'altro versante del pianeta voce, quello che quasi nessuno ha osato violare. E dalla sua gola usciranno gorgheggi, schiocchi, sussurri, si intersecheranno suoni diversi incuneandosi uno nell'altro, cozzando o fondendosi, rincorrendosi o, vorticando, sollevandosi a riempire di sè l'aria. Deve essere stato qualcosa di assolutamente nuovo e, oggi come allora, si resta basiti. Nella sala non vola una mosca: Stratos, artista e uomo che si dava al suo pubblico, che dal palco magnetizzava la platea, è comunicazione pura nella sua forma primordiale attraverso suoni che non sono ancora linguaggio e che il cicaleccio di una società rumorosa ha trasformato in noioso ronzio.
Dove gli altri sentivano lui ascoltava recuperando dal passato sonorità dimenticate e anticipandone, attraverso la sua sensibilità d'artista, future e sconosciute elaborazioni, mentre proseguiva la sua ricerca appassionata e instancabile sulla voce. Fu la voce di quella stagione, breve e intensa come la sua vita, che ci regalò la speranza di cambiare il mondo e la voglia di deridere il potere.
Di quella speranza e della voce che la cantò oggi siamo orfani.