martedì 14 aprile 2009

La complementarietà uccide

Kappa si sfilò il casco con un gesto stanco. Rassegnato. Dorina lo osservò freddamente mentre diceva:"Non immaginavo che, a lungo andare, la maschera diventasse il volto".
Poi, mentre lei continuava a tacere, le chiese: "Quali sono gli ordini che hai ricevuto?"
"Ti riporteremo a Urano" gli rispose, aggiungendo "Ti studieranno"
La risata aspra di Kappa l'interruppe "Finirò in un laboratorio?" "Io ho soltanto l'incarico di riportarti a casa" lei gli rispose.
"Ti chiedo un ultimo favore" mormorò l'uomo "Accompagnami al mio albergo, voglio portare con me alcuni ricordi del mio viaggio sulla Terra. Non fuggirò, te lo prometto, mi localizzereste immediatamente..e poi, sono molto stanco".
Si alzarono e, dopo pochi minuti, raggunsero l'albergo di Kappa.
Salirono.
Entrarono nella stanza: Kappa si avvicinò alla finestra.
" Perché i due mondi privilegiano l'alternatività rispetto alla complementarietà? O uraniano o terrestre, perché non uraniano e terrestre? Perché non solo razionale, consequenziale ma anche fantasioso, impulsivo, emotivo e creativo? Ogni scelta presuppone una rinuncia a una parte di sé, una lacerazione. Sulla Terra aveva appreso la lingua dei sentimenti, avrebbe voluto insegnarla agli abitanti del suo pianeta, ma era stata una speranza vana la sua, un'illusione. L'avrebbero isolato, trattato come una scimmia da circo, connotato come diverso. Possibile che non si capisse il potenziale di arricchimento insito nella complementarietà?"
Dorina lo guardava: sul volto soltanto l'attenzione richiesta dall'ascolto. Provò per lei una pena profonda e, mentre scavalcava il davanzale volando nel vuoto, un sorriso gli addolcì il volto.
Dorina lo guardò toccare l'acqua e sprofondare senza più riemergere.
"Kappa 22 deceduto. Missione conclusa senza contaminazioni ulteriori. Rientriamo alla base".
Si tolse la tuta similpelle e la testa umana e la fece volare nel canale. Recuperando i corpi avrebbero pensato a un amore impossibile. In quella città assurda, irreale come un palcoscenico teatrale, qualunque follia sarebbe stata credibile e i blogger si sarebbero scatenati il giorno dopo con le ipotesi più fantasiose. Il confine tra realtà e fantasia per i bipedi umani era talmente labile che non ci sarebbero stati problemi.
Azerò i computer, poi, silenziosa e efficiente Kappa 32 uscì dalla stanza.

Nostalgia

Le vie strette mi ricordavano la geometria del ghetto che, da bambina, a Trieste, attraversavo per arrivare alla casa di mia nonna. Identica la mancanza di luce, l’arcobaleno dei panni stesi ad asciugare, le rachitiche piante sugli stretti davanzali. Percorrevo le calli incrociando i canali che esibivano casa ferite dall’acqua, macchiate di muffa verdastra che ne intaccava l’intonaco facendone affiorare l’ossatura in pietra o mattoni. Mi avevano parlato tanto di questa città e io la osservavo, un po’ delusa, fino a quando, socchiusi gli occhi, cercai di sentirla oltre che vederla: questa Venezia sbilenca che sembrava galleggiare sull’acqua, come un paese visto in sogno, ondeggiante, come i santi portati a spalla tra i fumi d’incenso di una processione. Non era una città vera, era una città sognata, un luogo della fantasia. Le mie orecchie percepivano quel frangersi leggero dell’onda contro qualsiasi cosa ferma quasi a volerla scardinare e quella parlata molle strascicata, rigorosamente dialettale, quasi a voler rivendicare un passato da gran dama che può ancora imporre le sue debolezze come scelte. Perché se l’acqua che cinge Trieste, la mia città, è ampiezza, respiro, promessa di avventura e di fuga, a Venezia, umida e stantia, l’acqua assedia e non incornicia, ma è città nella città, che colma i suoi canali, circonda le sue fondamenta, mormora e sussurra. Acqua stantia che non si rinnova, è acqua di laguna nella quale la città si riflette, con i suoi eccessi di ori, smalti, marmi pallidi e aerei come pizzi, finestre che si allungano verso il cielo lasciando intravedere interni preziosi. Splendida e decadente, è, non a caso, il fondale perfetto per il gioco delle maschere. La finzione che la maschera rappresenta e esaspera richiede un palcoscenico adeguato e Venezia si presta al gioco perché tutto a Venezia: gondole, calli, Piazza San Marco, la luna che scivola sul Canal Grande è spettacolare, unico e teatrale.