lunedì 27 settembre 2010

Etica e politica

"Abbiamo fatto un patto con l'elettore... ". Questo ritornello mi ha stancata.
Il primo patto da fare è sull'etica: quella che scegliamo di fare nostra, e questo patto non deve essere infranto. Mai! mio caro Fini, mai...

Cielo e maternità (2)

Autonomia? Cos'è l'autonomia se non la capacità di "cavarsela", e soprattutto da soli? Non tutti gli adulti sono autonomi; per il cucciolo d'uomo  l' apprendistato è complesso e soprattutto lungo: deve infatti imparare a camminare, a parlare, a mangiare da solo, a non pisciarsi addosso e chi più ne ha più ne metta. Per una madre è una responsabilità pesantissima sempre ma, soprattutto, per il primo figlio e nei primi mesi di vita del bambino. Responsabilità che può assumersi se è autonoma, lei per prima, non quel pupattolo urlante che spezzetterà le sue  notti, concedendole ritagli di sonno più o meno esigui, e sommergendola di cacca e pianti. Non sarà però così difficile perché quel bambino è già diventato suo nei mesi della gravidanza. Lo ha sentito muoversi, gli ha raccontato le prime favole, ha scrutato il suo viso e ha ritrovato in lui i segni di un'appartenenza che le hanno dato un'illusoria sensazione di continuità e quindi c'è già un legame che giorno dopo giorno diventerà più stretto... anche perché la dipendenza, che nel bambino è totale per molto tempo, dà alla madre un potere che, in quanto donna , ben raramente le sarà consentito di esercitare. Nel mondo degli affetti la donna è regina. In lei convergono, intrecciandosi, il potere di sfamare ma anche quello di consolare, di rassicurare o minare alla radice il senso di sé del figlio. Il legame è talmente coinvolgente e stretto da rischiare di confondere i due vissuti, d'impedire l'identificazione del figlio, la creazione di quel confine che permetterà al bambino di acquisire autonomia e una personalità ben distinta da quella della madre. E se la madre non fosse autonoma? Se, a sua volta, non fosse riuscita a distinguersi dalla propria madre, convinta, inoltre, di averlo fatto soltanto perché abituata a contrapporsi a lei?
La contrapposizione presuppone un riferimento  continuo, costante alla madre e alle sue scelte. Contrapposizione e identificazione sono le due facce della dipendenza. Entrambe, infatti, escludono la scelta sulla base delle proprie personali caratteristiche. Detto così sembra facile, ma non lo è: potere amoroso è un ossimoro,  l'essenza del potere  non è l'amore, è la coercizione.  L'amore, inoltre, non incatena all'altro da sé, non è amore quello che soggioga, quello che obbliga a restare e non fa scegliere ogni giorno, liberamente, di continuare un rapporto. Ecco allora che questo rapporto, che gli spot televisivi ammantano di dolcezza, delicatezza e profumo di talco, mostra il suo lato in ombra che esploderà su quegli stessi schermi televisivi, con le notizie agghiaccianti delle madri che, i figli, li hanno fatti a pezzi: annegati, uccisi a bastonate o scaraventati giù dal terrazzo.
E' questo lato in ombra della maternità che il femminismo non ha sufficientemente indagato: hic sunt leones!
Lo stereotipo della madre non si tocca, è troppo pericoloso scandagliare il vissuto della maternità nel profondo: ci sono troppe incognite, troppi rischi? Quali?

(continua...)

lunedì 20 settembre 2010

Bella la vita dello scrittore?


Splendida vita quella dello scrittore, anche se all’interno di questo post di Giulio Mozzi gli ostacoli che lo scrittore incontra sul suo cammino sono tutti correttamente segnalati. Perché in questa filière editoriale lo scrittore è l’artista, è il pifferaio magico, è il cantastorie fascinoso che sa incantare colui che legge penetrandogli dentro e aprendogli le porte del mondo fantastico che la sua arte gli consente di evocare.
Se poi, di questa capacità di narrare che gli è stata data in dono dalla complessa e oscura alchimia che decide delle caratteristiche di ognuno di noi, lo scrittore volesse fare strumento idoneo a consentirgli di vivere, trampolino di lancio per acquisire notorietà, se non addirittura espressione di una genialità o presunta tale idonea a farlo diventare ricco e famoso, beh, allora la faccenda si complicherebbe notevolmente e, su questo punto è inutile mi dilunghi perché l’autore del post, Giulio Mozzi, è concisamente esaustivo.
Arte e denaro accostati producono un suono stridente, sono come il Diavolo e l’Acqua Santa. Essere uno scrittore e non uno scribacchino dipende da quello che si scrive e da come lo si scrive e, sarò un’illusa?, questo è  l’aspetto che più inquieta chi narra o tenta di farlo. L’artista è un vanesio, nonostante possa essere anche timidissimo, e la sua arte è come il panno rosso del matador: danza davanti al pubblico dell’arena incatenandone lo sguardo a ogni gesto, a ogni spostamento, a ogni guizzar di muscoli del matador che, appunto, mata, uccide o viene ucciso.
Che cos’è infatti l’arte, qualsiasi forma d’arte, se non l’espressione estrema, e quindi anomala, della normalità?

Vite diverse

             Accanto  a me, stessa stanza bianca, asettica, a descrivere l'inferno lei mugugnava parole spezzate, scomposte come il suo  corpo, quel grumo d'ossa tenute assieme dal dolore su cui si schiantava l'orrore  che lo sguardo della figlia non riusciva più a contenere.
Era la mia vicina di letto: aveva la mia stessa malattia: il morbo - ora diventato malattia, come se cambiando  le parole mutasse l'essenza di ciò che descrivono, - di Parkinson.
Sono rimasta parecchi giorni in quell'ospedale: lunghe ore vuote, con lo sguardo fisso sui riquadri di cielo, che le finestre incorniciavano, scoprendone la mutevolezza. Forse mai nella mia vita l'avevo osservato così a lungo e con tanta attenzione: nero e impenetrabile nelle ore notturne, animato appena qua e là dall'alone dorato di quelle luci che illuminano sempre l'entrata di un Pronto Soccorso  ospedaliero, o invaso - erano passati pochi minuti o lunghe ore? - da uno spiraglio di luce che  lasciava emergere nuvole in corsa, cieli bigi e, a volte, il sole che, a fiotti, fiotti caldi di sole, entrava dalle finestre. Il sole, a settembre, ha una luce di una tonalità calda, morbida, avvolgente, quasi volesse farsi perdonare  la sua fuga nell'oscurità dell'inverno in arrivo.
L'alternativa al cielo era la parete: bianca, uniforme e vuota come un foglio di quaderno, sulla quale immaginavo di scrivere i miei pensieri, le mie fole.
Pensavo. Molto. Almeno quando il Dolore me lo consentiva, perché quando arrivava lui, il Signore delle Steppe, invadeva anima e corpo e il pensiero era solo speranza, raggrumata e contorta, di qualcosa, qualunque cosa potesse imbrigliarlo, imprigionarlo, scaraventarlo lontano, in quel cielo che sembrava indifferente e così lontano.
Cosa pensavo?

(continua...)

giovedì 16 settembre 2010

L'ordine della morte e il calore della vita

La luce viola intermittente mi ferisce gli occhi che nemmeno le palpebre riescono a proteggere. Il non silenzio dell'ospedale si anima e da brusio diventa sussurro, cigolano le ruote dei carrelli, esplodono i sospiri, quella sorta di lagnanza  che come una preghiera sussurrata a mezza voce si leva dai letti dove il risveglio non è solo quello del corpo, ma  anche dei dolori che lo affliggono. Le regole dell'opedale si susseguono a dare un'illusione di normalità a corpi feriti, segnati dalla malattia, sofferenti, mentre le infermiere, ragguagliandosi e ragguagliandoti sul tempo, i rapporti con il marito, le beghe con i figli, rifanno i letti,  passano a distribuire medicine, ti tolgono il sangue, misurano la pressione, verificano la temperatura.
Lungo i corridoi sfila l'esercito silenzioso e efficiente delle donne che assistono i malati quando addirittura non passano la notte appollaiate su sedie  sbilenche o sdraio da campeggio a scrutarne i volti che la luce elettrica illividisce. Dove sono gli uomini? Quelli sani intendo. A disagio passeggiano lungo i corridoi, a voce troppo alta parlano nelle stanze, schifati seguono con lo sguardo il groviglio delle flebo che con i loro aghi, piantati nella carne come croci  in un cimitero di guerra, trafiggono i malati. Quel mondo dolorante che la malattia imprigiona è cristallizzato in regole che solo due eventi, la guarigione e la morte, vivacizzano rendendo quotidiano il dualismo che contappone la vita, alla quale la guarigione restituisce, alla morte che come il banco in un casinò alla fine vince sempre . Inevitabilmente e inesorabilmente.