Accanto a me, stessa stanza bianca, asettica, a descrivere l'inferno lei mugugnava parole spezzate, scomposte come il suo corpo, quel grumo d'ossa tenute assieme dal dolore su cui si schiantava l'orrore che lo sguardo della figlia non riusciva più a contenere.
Era la mia vicina di letto: aveva la mia stessa malattia: il morbo - ora diventato malattia, come se cambiando le parole mutasse l'essenza di ciò che descrivono, - di Parkinson.
Sono rimasta parecchi giorni in quell'ospedale: lunghe ore vuote, con lo sguardo fisso sui riquadri di cielo, che le finestre incorniciavano, scoprendone la mutevolezza. Forse mai nella mia vita l'avevo osservato così a lungo e con tanta attenzione: nero e impenetrabile nelle ore notturne, animato appena qua e là dall'alone dorato di quelle luci che illuminano sempre l'entrata di un Pronto Soccorso ospedaliero, o invaso - erano passati pochi minuti o lunghe ore? - da uno spiraglio di luce che lasciava emergere nuvole in corsa, cieli bigi e, a volte, il sole che, a fiotti, fiotti caldi di sole, entrava dalle finestre. Il sole, a settembre, ha una luce di una tonalità calda, morbida, avvolgente, quasi volesse farsi perdonare la sua fuga nell'oscurità dell'inverno in arrivo.
L'alternativa al cielo era la parete: bianca, uniforme e vuota come un foglio di quaderno, sulla quale immaginavo di scrivere i miei pensieri, le mie fole.
Pensavo. Molto. Almeno quando il Dolore me lo consentiva, perché quando arrivava lui, il Signore delle Steppe, invadeva anima e corpo e il pensiero era solo speranza, raggrumata e contorta, di qualcosa, qualunque cosa potesse imbrigliarlo, imprigionarlo, scaraventarlo lontano, in quel cielo che sembrava indifferente e così lontano.
Cosa pensavo?
(continua...)
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