La luce viola intermittente mi ferisce gli occhi che nemmeno le palpebre riescono a proteggere. Il non silenzio dell'ospedale si anima e da brusio diventa sussurro, cigolano le ruote dei carrelli, esplodono i sospiri, quella sorta di lagnanza che come una preghiera sussurrata a mezza voce si leva dai letti dove il risveglio non è solo quello del corpo, ma anche dei dolori che lo affliggono. Le regole dell'opedale si susseguono a dare un'illusione di normalità a corpi feriti, segnati dalla malattia, sofferenti, mentre le infermiere, ragguagliandosi e ragguagliandoti sul tempo, i rapporti con il marito, le beghe con i figli, rifanno i letti, passano a distribuire medicine, ti tolgono il sangue, misurano la pressione, verificano la temperatura.
Lungo i corridoi sfila l'esercito silenzioso e efficiente delle donne che assistono i malati quando addirittura non passano la notte appollaiate su sedie sbilenche o sdraio da campeggio a scrutarne i volti che la luce elettrica illividisce. Dove sono gli uomini? Quelli sani intendo. A disagio passeggiano lungo i corridoi, a voce troppo alta parlano nelle stanze, schifati seguono con lo sguardo il groviglio delle flebo che con i loro aghi, piantati nella carne come croci in un cimitero di guerra, trafiggono i malati. Quel mondo dolorante che la malattia imprigiona è cristallizzato in regole che solo due eventi, la guarigione e la morte, vivacizzano rendendo quotidiano il dualismo che contappone la vita, alla quale la guarigione restituisce, alla morte che come il banco in un casinò alla fine vince sempre . Inevitabilmente e inesorabilmente.
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