domenica 18 ottobre 2009

La malattia senza nome

Erano gli anni Sessanta e il volto del Paese cambiava, modernizzandosi secondo il modello americano. John Kennedy faceva sognare le casalinghe, sua moglie Jackie, giovane e elegante, rendeva stridente il contrasto con la frangetta di Mamie Eisenower. Quel suo tailleur Chanel rosa, macchiato di rosso, sarebbe rimasto il simbolo di un sogno - poi scoprimmo quanto fantasticato - infranto. Kruscev apriva l'armadio degli scheletri mostrando al mondo l'altro volto del comunismo - quello che non conoscevamo - e perfino il Papa sembrava un Babbo Natale reduce da una nevicata. Ma i marines erano partiti per il Vietnam e non per fare un'esercitazione. E la "Nuova Frontiera", di cui favoleggiava Kennedy, avrebbe delimitato le vecchie ineguaglianze. Nel nostro Paese il benessere cresceva, gli elettrodomestici entravano nelle case alleggerendo la fatica delle casalinghe e, alla domenica, sulle strade, erano sempre più numerose le utlitarie della Fiat. Le imprese spuntavano come funghi, piccole ma agguerrite. Le poche grandi - come la Fiat che vantava un indotto che dava lavoro a tutto il Piemonte attirando dal Sud del Paese un'emigrazione interna in continua crescita - faticavano a trovare mano d'opera e, per la legge dell'offerta e della domanda, il Sindacato consolidava il suo potere. Venivano siglati contratti che miglioravano le condizioni dei lavoratori. I padri operai, artigiani o "padroncini", che non avevano potuto studiare, mandavano i figli all'università. Cresceva il numero delle iscrizioni e c'era una novità: cominciavano a iscriversi anche le donne e non soltanto alle facoltà letterarie (per diventare insegnanti come fino a quel momento era avvenuto).
Capelli assurdamente cotonati, scarpine con il tacco a stiletto e dispense sotto il braccio, fui una di loro.
Parlavamo tra studentesse? Di cosa? Di esami, progetti futuri, carriera? La progettualità pratica, professionale non andava al di là del conseguimento della laurea. Oltre c'era un mondo che non avevamo mai esplorato: "hic sunt leones". Sarebbe stato terreno di conquista solo per le più coraggiose e agguerrite. Le altre si sarebbero limitate e si limitarono a realizzare altri progetti: sposare lo studente di cui si erano innamorate e fare figli. E la laurea? Per distinguerci dalle madri casalinghe finimmo, tutte o quasi, dietro a una cattedra, rimpinguando le fila di quell'esercito in rotta che stava diventando un'armata Brancaleone, abbandonato dai maschi in fuga alla ricerca di professioni più remunerative.
Molte di noi furono madri anche in cattedra e credo che questo aspetto, non la femminillizzazione del corpo docente abbia nociuto alla scuola. Gli uomini, mentre le mogli facevano scelte che consentissero di conciliare la famiglia con il lavoro, giravano il mondo, si dedicavano alla professione, diventavano padri vivendo questa condizione come un fiore all'occhiello, una ulteriore gratificazione. Era un tempo in cui nessun bambino cadendo avrebbe - come oggi fortunatamente avviene - urlato "papà". L'universo femminile parlava a bassa voce, tanto bassa che nessuno capiva cosa dicesse e un occhio superficiale non avrebbe notato nulla di diverso. Ma l'inquietudine serpeggiava: nel 1964 era stato tradotto in italiano dalle Edizioni di Comunità un libro "Mistica della femminilità" in cui l'autrice, Betty Friedan, parlava di questi angeli del focolare sempre più spesso preda della depressione e della nevrosi. Denunciava una "malattia senza nome" che nasceva da una condizione femminile di disparità, di sottomissione che veniva analizzata mettendo in crisi un modello fino a quel momento considerato socialmente valido.
Furono i primi segnali di una presa di coscienza che fu conquista di pochi, anzi poche donne colte e emancipate, ma il merito della Friedan fu di dare un volto e una voce al disagio, all'infelicità se non disperazione, che si stava diffondendo a macchia d'olio e che cercava una via, una modalità per esprimersi e manifestarsi. Le donne, salvo poche eccezioni, erano topini laboritiani, intrappolati in gabbie, anche se a volte dorate, che sentivano farsi sempre più strette. Le poche che, vista la forte richiesta, cominciavano a lavorare fuori casa, nelle fabbriche, qualcuna nella pubblica amministrazione, cominciarono, mentre mentre saliva il livello dell'istruzione nel Paese, a emettere qualcosa di più di un borbottio: si lamentarono del marito che, dopo il lavoro, andava al bar con gli amici o si stravaccava sul divano a guardare la tv, mentre loro spignattavano o riempivano la lavatrice, ma cominciarono a lamentarsi anche del padrone e del capo, che del padrone era soltanto la lunga mano. E degli straordinari non pagati, degli orari di lavoro, del maschio di turno che allungava le mani e (ancora il problema sussisteva a livello sindacale) delle differenze salariali. Parlavano della fatica del doppio carico, ne parlavano tra loro ma anche con il marito. Molti non ascoltavano, qualcuno però cominciava a drizzare le orecchie pur meravigliandosi. Spirava un vento di tempesta, si alzavano mani a pugno, si manifestava: i cortei erano rossi di bandiere e furore. Era arrivato il Sessantotto. (continua...)

La risposta

Questa mattina mi sono svegliata molto presto, la casa era gelida, l'inverno qui in Emilia è arrivato di botto, come in questo periodo di variazioni climatiche intense e sottilmente angoscianti succede, e per approdare alle otto del mattino e a una temperatura accettabile, ho preso un libro a caso nel ripiano di quelli ancora da leggere. L'ho aperto: incipit da grande scrittore: "Lo svedese. Negli anni della guerra, quando ero ancora alle elementari, questo era un nome magico..." Philip Roth così comincia "Pastorale Americana" partendo in sordina e conducendomi per mano in quella cittadina, quelle strade, case, giardini, aule e campi sportivi che ognuno di noi si porta dentro, palcoscenici, che il ricordo ha cristallizzato, di infanzie vissute sperimentando tutta la gamma della felicità e infelicità infantile: le profonde insicurezze, i progetti faraonici, le devastanti delusioni, le immotivate esaltazioni. In contrapposizione netta con le dimensioni fisiche dell'infanzia, tutto esorbita nel bambino travalicando i suoi striminziti confini: tracima e fa strage o salva facendo rifulgere un coraggio che è tale più nei presupposti che nei fatti. Se lo scrittore è Roth (cognome, come ho già scritto in un mio post, che sembrerebbe inchiodare chi lo porta alla scrittura, come un Cristo alla croce), capace di descrivere non un'infanzia ma l'infanzia, il processo d'identificazione è immediato e la sottoscritta... era lì, tornata bambina - bava alla bocca - a smaniare per il ragazzo o la ragazza che assommavano in sé il meglio di tutto ciò che il sole illumina ogni giorno sulla terra. Il mito, ciò che avremmo voluto, e nei sogni più arditi, anche potuto essere. Se...Se? Be', se avessimo avuto una famiglia diversa - grande alibi la famiglia d'origine, anche perché effettivamente una certa influenza nel bene e nel male chi si sentirebbe di negargliela, e ciò dà all'alibi una certa consistenza - se il destino ci avesse consegnato alla nascita qualche dono in più, che ne so, il naso di zia Maria invece della patata, grossa e adunca, che si mangia il viso di mio padre e che con l'età ha assunto una colorazione sanguigna che gli dà l'aria da pagliaccio anche quando fa o tenta di fare quello serio. E poi? Poi tutto il resto che il destino, distratto, ha dimenticato sul fondo della borsa e che è andato a finire sull'ignaro capo di quello che di conseguenza è diventato il Mito.
Riemergo, grazie allo squillo della sveglia e al diffuso tepore che mi riconcilia con l'inverno, dal libro dove in sessanta paginette Roth mi mostra come si scrive. Come lui scrive. Come scrive uno scrittore. E un velo di malinconia scivola sulla domenica ottobrina che mi si spalanca davanti: alla mia domanda "scrittrice o scribacchina" Lui ha già risposto. Lui: Roth. Il grande, grandissimo Roth.