domenica 19 aprile 2009

Come nasce un romanzo

Scrivere un romanzo è vivere un’avventura. Come cominciò “ Confine immaginario”?
Iniziò rimuginando ricordi, ma soprattutto racconti che avevo sentito da bambina e che già allora, sulle labbra della zia Maria, che era senza saperlo una cantastorie nata, avevano in sé tutte quelle componenti che rendono avvincente una storia. Se in me c’è oggi la ben che minima capacità di raccontare lo devo a lei. La zia Maria non aveva fatto corsi di scrittura creativa, la zia Maria era andata a scuola ben poco, ma quando nella cucina, tra i vapori del cibo, gli odori delle erbe aromatiche, lo sfarfallio della farina, iniziava a raccontare, la malia di quelle sue storie m’irretiva implacabile. Iniziava con la descrizione di un luogo e si dilungava sul tempo, tempo atmosferico: spesso erano notti cupe, di tempesta, o albe chiare, e quello che non mancava mai era il vento, quel particolare vento che noi triestini chiamiamo bora. Portatrice di tempesta quella scura, di schiarite improvvise quella chiara.
“ Era notte e la bora soffiava da giorni, ululava sinistra e s’insinuava, nonostante i doppi vetri, gli scuri chiusi, rinserrati, facendo se non tremare, fremere…”
Io, attentissima e inappetente, ingoiavo parole e caffellatte. Intanto, lei continuava facendo irrompere sulla scena del racconto i personaggi. Ah, i personagg! I personaggi venivano descritti con modalità diverse: alcuni accuratamente, altri appena delineati, perché a questo punto lei introduceva, quasi di soppiatto, l’altro elemento che non mancava mai: il mistero, anche se all’inizio era soltanto un velo, un pizzico appena, come il pepe su una pietanza. C’era nel racconto qualcuno che non si sapeva chi fosse, da dove venisse. Spesso era “un foresto” e nella Trieste di quell’epoca, i primi del Novecento, ci voleva poco per essere foresti: era sufficiente provenire dall’Italia e non fare quindi parte del Grande Impero saggiamente amministrato da Francesco Giuseppe.
A questo punto prendeva il via la storia che però, ogni volta che veniva ‘riraccontata’ si arricchiva di elementi nuovi, fantasiosi. Devo dire che io facevo la mia parte, suggerendo soluzioni diverse, tempestando di domande, giurando e spergiurando di averne sentito pochi giorni prima una versione diversa.
“ Nonna Lucrezia sentì una fitta morderle i fianchi e capì subito che il bambino aveva deciso di venire al mondo in anticipo. Il marito non era ancora tornato a casa dal lavoro. Soltanto Maria, la figlia maggiore avrebbe potuto aiutarla…”
“Maria eri tu, vero zia?” chiedevo, un po’ petulante, mentre lei si metteva il dito davanti alla bocca per farmi tacere, e continuava, senza perdere la concentrazione “ La chiamò, crollando a sedere sulla panca della cucina, mentre una macchia scura si allargava sulla gonna e qualcosa gocciolava sul pavimento. “ Moiko meni ho perso le acque…”
“ Cosa vuol dire moiko meni? “ chiedevo, e lei mi rispondeva “Povera me” aggiungendo: “ Non interrompere” e costringendomi a rinunciare a qualsiasi spiegazione su quelle acque misteriose che avevano la facoltà di rompersi, cosa effettivamente assai strana per l’acqua. Io tacevo proponendomi di chiedere spiegazioni a fine racconto o a mia madre.
Nel frattempo, la bocca spalancata dalla meraviglia, zia Maria era riuscita a farmi mangiare qualcosa e quindi, conseguito il suo obiettivo, mi mandava a giocare con i cugini.
“ Vai a giocare che devo preparare da mangiare, su, su da brava” e concludendo “ Hai proprio la testa tra le nuvole, ma ti capisco, qui sulla terra non c’è fantasia, è tutto piatto…” mi allungava una carezza e riprendeva il pieno controllo della sua cucina.
Fuori, il vento che si era fermato ad ascoltarla, riprendeva a soffiare, rabbioso.
(continua)