domenica 15 novembre 2009

Pensieri sparsi sulla scrittura

La parola, materia prima dello scrittore, è ancora per me un mistero e il modo di usarla, la combinazione capace di comunicare al meglio ciò che mi ha indotta a sceglierla mi riporta a un concetto tipico dei numeri, che è quello di infinito. Ricordo che da studentessa questo concetto matematico mi dava una sensazione di angoscia: spazi sterminati e libertà? Lungi da me! L'infinito evocava in me sensazioni di freddo, il gelo di un'alba invernale. Silenzio. Solitudine. Perché chi scrive è solo: tra lui e il mondo la distesa delle parole e la possibilità di mischiarle tra loro, intrecciandole per farne ghirlande da morto o bouquet da sposa, coltelli da macellaio o bombe a orologeria. Il collante per costruire cattedrali puntate verso il cielo o distruggere un uomo con una frase? Fantasia, tecnica e un dono o una iattura: la coazione a scrivere, che non significa scrivere bene, pagine belle e/o concetti giusti, ma dover scrivere. Significa vedere dove gli altri si limitano a guardare perché chi scrive ha accesso a un mondo parallelo che deve essere descritto, partorito, dato alla luce, diviso da sé e condiviso con gli altri in una sfida continua e all'ultimo sangue tra il reale e l'immaginifico.

Trieste e Joseph Roth

Sto rileggendo "La cripta dei cappuccini", in questi primi giorni di novembre in cui più acuta si fa la nostalgia della mia città... Tra le pagine il post che ho scritto tempo fa e che mi sento di riproporre.
Roth è un cognome ebraico che sembrerebbe inchiodare chi lo porta alla scrittura.
Joseph tra i Roth scrittori è il mio preferito, e come potrebbe essere diversamente? In lui ritrovo il rimpianto di un mondo perduto, quello stesso mondo che nel 1918, pochi giorni dopo la sconfitta, si riversò sulle bancarelle del ghetto ebraico della mia città, Trieste. I magazzini traboccarono di mobili biedermeier, cristalli di Boemia e porcellane tedesche, mentre intere biblioteche venivano messe in vendita denunciando la cultura raffinata dei funzionari austriaci, mandati da Vienna previa un’accurata selezione a reggere una delle più turbolente province dell’impero. In quella Trieste dove i morti riposano in sette diversi cimiteri e molte, troppe bandiere differenti avrebbero nei trent’anni successivi sfidato il vento a braccio di ferro, l’identità è una scelta d’appartenenza, ma legata a cosa? Al profumo di una fetta di presniz, a un nonno austriaco o croato o sloveno che aiutava a fare i compiti e raccontava favole in dialetto, a una gita in barca, a una passeggiata sul Carso quando il sommacco cambia colore o fioriscono le ginestre, e in quella terra di confine che separa l’Occidente dall’Oriente si mangiano dolci dai nomi aspri come la crudeltà che secoli di dominio turco ha inciso nei tratti e nell’anima della gente slava che vive a cavallo del confine.
Troppe chiese per pregare, troppi rancori non dichiarati, troppi dialetti, e cibi che hanno nomi impronunciabili, e donne che sono le più libere e fiere del Mediterraneo. Troppo vento e troppo azzurro in quel mare che si fonde con il cielo. Ma Trieste non amalgama, non fonde, non è certo crogiuolo (come affermava anche uno dei suoi figli più raffinati, quel Bazlen che ne traccia un ritratto fedele e accorato) di razze né di culture.
Permangono antichi e nuovi rancori, la sensibilità della decadenza, il ricordo del passato in cui ci si rifugia per non affrontare il presente, e soprattutto il futuro, che fa paura e che potrebbe non esserci.
“Viva là e po’ bon” affermano i triestini, riassumendo in questa frase il loro particolare senso del presente come unica realtà prefigurabile.
Alla nascita ti hanno dato in dono catenine d'oro e malinconia slava, superstizioni e proverbi che sono la filosofia di chi non ha avuto tempo o soldi per andare a scuola.
La sensazione di precarietà e l'ansia che ne consegue affinano l'orecchio a cogliere i segnali del crollo definitivo. Il bisogno di ordine cozza contro il desiderio di anarchia, ci si rifugia nelle certezze per poterle sbriciolare. I figli dell'Impero che ne hanno succhiato gli umori si sono intossicati dei suoi miasmi.
In Roth affiora il senso costante della perdita di un mondo e dell'acquisizione forzata, meccanica di un altro, dove colori, suoni e umori sembrano sempre fondali di cartapesta allestiti alla meno peggio per uno spettacolo in parrocchia.
Per questo Roth mi è fratello e padre.