venerdì 9 ottobre 2009

Il coraggio di sognare

Gentile Presidente Obama, mi permetto di scriverle perché lei mi incuriosisce. Mi chiedo come e quando per la prima volta abbia pensato di diventare Presidente degli Stati Uniti. E' avvenuto in un giardino pubblico, giocando con altri bambini o a scuola nell'intervallo, divorando in fretta e furia la sua merenda? Magari, mentre uno dei suoi compagni diceva "Io da grande farò il pompiere" e un altro decideva che sarebbe diventato astronauta, lei, con quel suo sguardo deciso che trapassa l'interlocutore per leggergli dentro, ha detto: "Io diventerò Presidente degli Stati Uniti". Forse qualcuno avrà riso, e qualcun'altro avrà pensato che lei stesse esagerando, e, al suono della campanella, sarete rientrati nella vostra classe e... nella realtà. Ma lei, Presidente, non sognava, lei progettava: quindi da quel momento ha avuto inizio la sua marcia di avvicinamento alla Casa Bianca. Ha studiato, si è laureato in legge, ha cominciato a lavorare in uno studio. Ha anche incontrato in quello studio la sua bella moglie. Quando l'ha invitata a cena e ha cominciato a parlarle dei suoi progetti dicendole che se l'avesse sposato, l'avrebbe portata alla Casa Bianca, lei avrà pensato "Guarda cosa non s'inventa un uomo per far colpo su una donna" e magari avrà fatto una battuta per nascondere l'amarezza di non aver mai visto un uomo di colore in quella Casa. Oppure la sua decisione è scaturita dalla rabbia, dall'impotenza, vedendo crollare le Torri Gemelle? O forse è stata la politica del suo predecessore o la vista dei suoi concittadini che, perdendo casa e lavoro, si ritrovavano "barboni" nello spazio di un mattino? Un giorno, sperando che nonostante le numerose minacce di morte che riceve quotidianamente lei possa diventare vecchio, forse scriverà le sue memorie e ci racconterà come sono andate le cose. Il Nobel per la Pace che le è stato assegnato premia gli sforzi e l'impegno da lei profusi in questo campo, ma penso premi anche qualcosa d'altro. Lei, che potenzialmente è un innovatore, dovrà scendere a patti con i gruppi di potere che hanno favorito la sua elezione e non sappiamo se riuscirà nel suo intento, ma è fuori dubbio che incarni il doppio fascino che la democrazia americana, pur con i suoi limiti, esercita su noi Europei: il coraggio di sognare e la volontà, ma anche la possibilità, di realizzare i sogni, anche i più ambiziosi, grazie alla libertà che il suo Paese assicura. Il Nobel che le hanno dato è anche un ringraziamento per aver dimostrato al mondo che un uomo, se vuole, può: per lui e per il suo popolo. Non è poco Presidente.

Romanzo a puntate I Dellapicca

Sigismondo sbarcò sulle coste dell'Istria, accolto da una folla di curiosi. Dietro a lui scesero lungo la scaletta i passeggeri e i pirati fatti prigionieri. La notizia della vittoria sui predoni del mare passava di bocca in bocca suscitando chiacchiere e commenti, soprattutto su quell'uomo, chiamato Il Veneziano che, con il suo intervento e il coraggio dimostrato nel battersi, aveva capovolto la situazione. Il capitano della nave, dopo avergli restituito l'anello, si era anche scusato con lui, e ora affiancandolo lo stava invitando a entrare nella locanda per brindare al passato pericolo, mentre dietro a loro si andava ingrossando una piccola folla di passeggeri e curiosi.
Maria stava pulendo il bancone, le maniche dell'abito da lavoro arrotolate a scoprirle le braccia piene. Sigismondo la riconobbe immediatamente e, per un istante, ebbe la sensazione di essere ancora l'uomo in fuga approdato a Trieste che in una bettola del porto aveva posato gli occhi per la prima volta su quel volto di donna dai tratti perfetti. Sentendo sbattere la porta d'ingresso, aveva alzato gli occhi e ora lo fissava sbalordita, incapace di fare anche un solo passo. Sigismondo le si avvicinò, mentre lei, ritrovata la voce, gli diceva: "Allora non sei morto nell'incendio" ma senza gettargli le braccia al collo, né dimostrarsi contenta di vederlo.
"Sono stato costretto a nascondermi...E la bambina?" Pronunciando queste parole gli scomparve il sorriso dalle labbra mentre la sua inquietudine contagiava la moglie. La padrona, che si era avvicinata, con una gran risata esclamò, dopo aver lasciato scorrere uno sguardo indagatore sulla veste di velluto e damasco del Veneziano: " Potete prendervi mezza giornata di libertà e festeggiare l'arrivo di vostro marito" disse e ammiccò sguaiata.
Sigismondo e Maria salutarono tutti con un cenno e si allontanarono, raggiungendo la stanza che la donna divideva con la figlia. Infilata la chiave, entrò mentre la bambina le correva incontro, riconoscendo il padre e attaccandosi alle sue gambe. Sigismondo sentì un nodo alla gola e il dolore sordo del rimorso nel petto.
"Non mi hai chiesto notizie del Moro!"
"So che ha salvato te e la bambina" rispose il marito.
"Fosse dipeso da..."
"Hai ragione, ho sbagliato molto, ma ho avuto anche tempo per riflettere. Ricominceremo..."
Maria taceva, silenziosa, fissandolo. Poi, rompendo quel silenzio che si prolungava, gli disse:
"Sono successe tante cose e... non mi sei mancato!"
"E' quel maledetto Moro che ..."
"No!"
La sua abituale arroganza gli affiorò nello sguardo, mentre gli tornavano alla mente le parole del rabbino, le sue spalle improvvisamente curve sotto il peso del dolore della sua gente che aveva dovuto condividere, il ponte del veliero macchiato dal sangue dei morti e, prepotente gli scattò dentro una voglia di presente e futuro che annullasse con la vitalità del desiderio quella sensazione di morte che ancora lo attanagliava. Fece una carezza alla figlia e circondò con un braccio le spalle della moglie, sussurrandole che sarebbe cambiato, chiedendole perdono per tutto il dolore che le aveva causato. Maria lo guardava stupita, la sua bellezza che acquistava una tonalità morbida, calda, alla luce della candela, mentre il marito si toglieva l'anello e glielo infilava al dito, dicendole: "Ho rischiato per la mia stupidità, per la mia arroganza oltre che per la mia vigliaccheria di perdervi..."
Maria si sedette accanto al fuoco, al collo la figlia che si stava addormentando.
"Io voglio sapere che fine ha fatto mia figlia" chiese e lo guardò senza abbassare lo sguardo.
Sigismondo fece un cenno con la testa, mentre mormorava: "E' morta" e aggiungeva "nell'epidemia causata dall'acqua infetta che ha seminato la morte nel ghetto. Era stata affidata a una madre che aveva perso la propria figlia".
"Pensavo l'avessi fatta uccidere" mormorò Maria continuando a fissare il fuoco, le dita contratte sulla figlia che dormiva tra le sue braccia.